La finzione ecologica del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Rivoluzione verde e Transizione ecologica”, così si chiama una delle missioni principali del Recovery Plan, tecnicamente Next Generation EU e ufficialmente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (https://www.governo.it/it/articolo/pnrr/16718).

Tutto bene quindi se gli slogan ambientalisti sono arrivati ai più alti livelli della politica italiana? Tutt’altro purtroppo.

Certo, che ormai l’ecologismo sia diventato mainstream è senz’altro un successo e un merito sia dei movimenti ambientalisti attivi da decenni, sia, e in particolare, delle forti mobilitazioni recenti giovanili (e non solo) dei Fridays For Future e di Extinction Rebellion.

A guardare il piano proposto però sembra che oltre gli slogan sia arrivato ben poco. Già nella premessa il focus sembra chiaro: crescita! Circa metà di queste pagine firmate da Mario Draghi sono dedicate allo snocciolamento di dati sulla crescita economica dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. Il punto ovviamente sta nel dire che la crescita in Italia sia troppo bassa e che con questo piano però – l’Italia in termini assoluti, con più di 200 miliardi di Euro riceverà in termini assoluti la fetta più grande a livello europeo – finalmente si tornerà a crescere. In mezzo, certo, c’è anche qualche, stanco, rimando alla questione ecologica e al fatto che negli ultimi anni le emissioni italiane di gas serra sono rimaste stabili. Sul fatto però che tra le due questioni, crescita economica e crisi ecologica (che poi non è solo climatica ma multidimensionale), ci sia un forte legame, non una parola.

Il piano è lungo ed articolato e non è possibile affrontare in un breve articolo una completa disanima dei progetti inclusi. È vero infatti che alcuni progetti del piano sono interessanti. Cito a titolo di esempio le “green communities”, azione finalizzata al finanziamento di progetti sperimentali per supportare la rivitalizzazione di comunità montane attraverso un rapporto di sussidiarietà con le aree urbane. Azione alla quale però sono dedicate soltanto 140 milioni di euro della spesa complessiva.

Più che un’analisi puntuale delle azioni del piano, nelle righe che seguono cercherò dunque di proporre una critica generale alla sua impostazione, focalizzandomi su due questioni: la mancanza di analisi e valutazioni e la distribuzioni della spesa.

Mancano analisi e valutazioni sistematiche, complete e trasparenti

Sembra caratterizzare il piano in generale un’analisi superficiale dei fenomeni. Certamente vengono discussi dati chiave ai quali il piano cerca di rispondere ma, per esempio, come si può ragionare di “gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti” senza menzionare con una parola la quantità dei rifiuti prodotti, e, per esempio, lo spaventoso aumento di oggetti monouso in questo anno pandemico?

Il piano poi si conclude con un’analisi macroeconomica sull’apporto che la sua esecuzione porterebbe alla crescita. Non c’è traccia invece una modellazione simile sul suo impatto sulle variabili ambientali e sociali. Coerentemente neanche nel capitolo sul monitoraggio del piano si prevede di monitorarne gli effetti ambientali e sociali: si concentra tutto sull’attuazione stessa del piano e i suoi risultati economici e finanziari. Infatti la maggior parte degli obiettivi di dettaglio mancano anche di target definiti, di quanto cambiamento cioè intendono raggiungere.

Unico accenno in tal senso è sul potenziale contributo alla coesione territoriale e sociale. Investendo maggiormente al Sud ed essendo accompagnato da misure per l’equità di genere, il modello promette che il piano contribuirà a un maggiore aumento dell’occupazione femminile, giovanile e al Sud rispetto all’incremento medio.

Nella premessa si dice che del piano gli “impatti ambientali indiretti sono stati valutati e la loro entità minimizzata in linea”. Punto. Non si spiega come, con quali metodi, con quali risultati sia stata fatta questa valutazione e tantomeno quali siano le conseguenze che ne sono state tratte. Un esempio in questo senso: il Piano dice che il 32,6% della spesa complessiva è dedicata all’edilizia e il 18,7% sono trasferimenti a imprese. Certo, molta di questa spesa ha a che fare con l’efficientamento energetico e i trasferimenti alle imprese sono (almeno in parte) dedicati a favorire produzioni (almeno in apparenza) più sostenibili. Manca però qualsiasi accenno a una valutazione o anche solo una considerazione sul fatto che l’enorme quantità di risorse, di materiali trasformati che ca.100 miliardi di Euro di investimento significano, corrispondono in sé a un’enorme quantità di impatti ambientali (https://www.decrescitafelice.it/2019/12/il-mito-della-crescita-verde-e-il-fallimento-della-cop-di-madrid/). E tantomeno si trova una valutazione chiara sugli impatti ecologici e sociali che avrà il denaro trasferito alle imprese.

Può questo bastare?

Tanti soldi alla rivoluzione verde? Il discutibile peso delle diverse azioni

Nominalmente la missione della cosiddetta rivoluzione verde è quella con la quota spesa sul totale più grande, a cui vanno quasi 60 miliardi di Euro. Insieme alla valutazione di contenuti delle azioni in sé, è però importante guardare alla distribuzione della spesa tra di loro.

È certamente positivo puntare al “rafforzamento [della] mobilità ciclistica”. Promettere 570km di piste ciclabili urbane però non è esattamente quello che mi immaginavo sotto la rivoluzione verde. Già sembra strano il confronto diretto con i 1250km di ciclabili turistiche, che per carità vanno benissimo, ma non dovremmo innanzitutto modificare le abitudini quotidiane? Per contribuire a ridurre il tasso di motorizzazione italiano che, come il piano stesso ricorda, è con 663 auto per 1000 abitanti ben al di sopra della media europea. 570km di ciclabili urbane, distribuite su, mettiamo, 100 città medie e grandi, fa un pista ciclabile di meno di 6 km a città. 570Km sarebbe un bel obiettivo ambizioso per la mia Torino, non per tutta l’Italia. Un piccolo confronto: secondo un documento del Ministero dei Trasporti (https://www.google.com/url?sa), nel 2004 (quindi ormai sarà più lunga) la rete stradale in Italia (strade comunali escluse!) era di 175.352km. La rete è molto più densa rispetto, per esempio, a quella tedesca, 14 versus 8km di strada per 1000 abitanti (https://www.stradeeautostrade.it/traffico-smart-mobility/la-rete-stradale-in-europa-e-nel-mondo-confronti-italia-germania/). 570Km di ciclabili urbane significa un aggiunta di 0,0095km per 1000 abitanti. Oppure 9,5m. Rivoluzionario?

Simile il discorso per gli investimenti sul TPL di massa. Giustissimo voler raggiungere che nelle città principali il traffico si sposti maggiormente sui mezzi pubblici. Questa è anche una delle poche azioni con un target definito: “L’obiettivo è ottenere uno spostamento di almeno il 10 per cento del traffico su auto private verso il sistema di trasporto pubblico.” Ma basterà a questo scopo la realizzazione di “240 km di rete attrezzata per le infrastrutture del trasporto rapido di massa suddivise in metro (11 km), tram (85 km), filovie (120 km), funivie (15 km)”? Il piano non lo spiega – né come la distribuzione tra i mezzi è stata scelta (11km di metro sul territorio italiano? Corrisponde a mezza linea per una città.), né il perché dell’obiettivo di 10% di spostamento verso il TPL (perché non 20 o 30%?), né perché e come si pensa che questo investimento possa raggiungere questo target.

Per il trasporto regionale extraurbano le misure sono ugualmente modeste: si prevede di acquistare 53 (!) nuovi treni e 100 nuove carrozze ferroviarie.

Questi investimenti di rispettivamente 600 milioni (ciclabili), 3,6 miliardi (sviluppo TPL di massa) e 3,64 miliardi (rinnovo flotte bus e treni verdi) impallidiscono di fronte ai quasi 15 miliardi dedicati all’alta velocità ferroviaria con i suoi impatti spesso disastrosi sul territorio. Potrebbe anche valere la pena di analizzare le proposte in dettaglio e non escluderei che qualche investimento che velocizzi linee esistenti possa forse, ripeto forse, anche essere positivo se aumenta l’attrattività del trasporto ferroviario. Complessivamente però questa priorità fa temere ulteriori devastazioni ambientali e la sua sproporzione rispetto agli investimenti sovracitati e agli appena 940 milioni dedicati alle ferrovie regionali – investimenti questi con benefici ambientali e sociali chiari, rende evidente lo squilibrio del piano.

Un altro degli investimenti più grandi del piano sono i quasi 14 miliardi dedicati alla cosiddetta “Transizione 4.0” finalizzata ad “aumentare la produttività, la competitività e la sostenibilità delle imprese”, sostanzialmente attraverso la digitalizzazione. Concretamente questo può significare di tutto. Nel contesto di una “rivoluzione verde” però ci si potrebbe aspettare che i soldi dati alle imprese siano vincolate a dei criteri della riduzione degli impatti ecologici delle loro produzioni. Ma di questo, oltre a un vago richiamo all’efficienza (che per niente garantisce la sostenibilità ecologica: https://www.decrescitafelice.it/2019/12/il-mito-della-crescita-verde-e-il-fallimento-della-cop-di-madrid/), non si fa menzione.

Più crescita che verde

Serve una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica” recita il piano a un certo punto. Un obiettivo apparentemente ambizioso. Abbiamo però visto come anche a una veloce disamina il piano rivela le sue contraddizioni. Contraddizioni solo superficialmente nascoste dal fatto che il piano si basa su analisi incomplete e manca di valutazioni integrate degli impatti delle sue azioni.

Fa amarezza in questa fase storica quando, dopo le grandi mobilitazioni per il clima e i sempre più appelli degli scienziati, dovrebbe essere ormai evidente la necessità di una trasformazione sociale ed ecologica davvero radicale. È deludente che un’occasione di una spinta così forte alla trasformazione venga sprecata. Si può solo concordare con Greenpeace quando parla di “finzione ecologica” (https://www.greenpeace.org/italy/storia/13581/il-pnrr-del-governo-draghi-una-finzione-ecologica/) (Greenpeace propone anche un’interessante valutazione del piano punto per punto: https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/13569/valutazione-pnrr-del-governo-draghi/).

In fondo però questi risultati stupiscono poco. Quello che stupisce magari è con quanta schiettezza Mario Draghi nella sua premessa al piano antepone la crescita all’ambiente, quanto si focalizzi sui dati economici e quanto marginalmente considera invece i dati ambientali. Stupisce pure come il piano sia scarso pure rispetto agli standard dello sviluppo sostenibile.

Non stupisce però che la relazione tra crescita e sviluppo da un lato e la sostenibilità ambientale dall’altra non venga messa in luce. Questo in fondo è il solito discorso dello sviluppo che si dice sostenibile, della crescita che si propone verde. Senza analisi sistematica, senza considerare gli effetti dell’esternalizzazione degli impatti altrove, lo spostamento su altri problemi ecologici ecc., il (falso) Mito della Crescita Verde (https://www.decrescitafelice.it/2019/12/il-mito-della-crescita-verde-e-il-fallimento-della-cop-di-madrid/) mantiene, anche stavolta, la facciata salva.

P.s: Questa analisi si è focalizzata sulla questione ambientale e sulla contraddizione tra sviluppo e sostenibilità. Altrettanto importante è notare come il piano ancora prediliga la competizione alla cooperazione e dia troppo poco peso alla riduzione delle diseguaglianze, come argomento Marco Bersani su Comune Info: https://comune-info.net/litalia-del-concorri-competi-crepa/

P.p.s: Il 3 maggio su Radio Popolare si dice che dei target specifici e obiettivi intermedi sono stati, in extremis, aggiunti al piano, in quanto richiesti dall’Unione Europea. Forse questi aiuterebbero a comprendere meglio come il piano intende arrivare ai risultati che vuole ottenere. Peccato però che, così Radio Popolare, questi target non sono stati resi pubblici.

Karl Krähmer, MDF Torino

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