La salute è prendersi cura

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di Marco Bersani

Il virus pandemico che da quindici mesi attraversa il pianeta ha messo in evidenza la centralità del diritto alla salute, mettendo in crisi convinzioni radicate, e mostrando tutte le inadeguatezze degli attuali servizi sanitari.

La contraddizione primaria evidenziata è quella fra salute e mercato. Il virus ha dimostrato come una società fondata sul mercato non sia in grado di garantire protezione ad alcuno, e l’illusione dell’economia come motore del benessere collettivo si è dovuta scontrare con l’autoreclusione nel giro di brevissimo tempo di oltre due miliardi di persone.

Anche i servizi sanitari, da decenni soggetti a privatizzazione e/o aziendalizzazione, hanno rivelato la loro totale incapacità di garantire vita e salute alle persone, come testimoniano gli oltre 150 milioni di contagi e un numero di decessi che ha superato i 3 milioni di persone.

Se vogliamo cogliere gli insegnamenti profondi della pandemia, ciò che va messo in discussione è lo stesso concetto di salute, per come è stato elaborato da decenni di dottrina neoliberale.

In questo senso, il primo concetto da recuperare è quello dell’interdipendenza.

La vita della specie umana, a differenza di quella di alcune altre specie animali, è caratterizzata sin dall’inizio da un legame sociale.

“L’infante senza la madre non esiste”[1] scriveva lo psicanalista inglese Donald Winnicott, per il quale, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione, e le sue possibilità di vivere e svilupparsi dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un’altra persona -solitamente la madre- che si prenda cura di lui e gli dia quel senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita.

Ma, potremmo aggiungere, quella matrice relazionale -infante/madre- non potrebbe a sua volta sopravvivere senza un ambiente naturale che fornisca aria, acqua e cibo.

Se la vita è dunque contrassegnata dall’interdipendenza con l’altro e con l’ambiente, la salute non può che essere data dal buon esito di questa interdipendenza plurima.

La salute non può essere considerata solo un’assenza di malattia, bensì uno stato di benessere psico-fisico determinato da un’adeguata salubrità dell’ambiente nel quale viviamo e da un’adeguata qualità delle relazioni nelle quali siamo immersi.

Cosa ci dice questo passaggio? Che non può esservi separatezza fra vita quotidiana e stato di malattia, bensì che il secondo dipende da come è vissuta la prima.

Il primo motore del diritto alla salute è di conseguenza l’ecologia, ovvero il mantenimento dell’equilibrio nella relazione fra vita, società e natura. Come ha dimostrato la pandemia, il virus non è un invisibile nemico esterno, bensì il prodotto della rottura di equilibri ecosistemici, portata avanti da un modello economico-sociale che si relaziona alla natura come altro da sé e come luogo da depredare.

La malattia è sempre l’espressione di un sintomo, ovvero un indizio che ci svela come funziona un contesto, senza curare il quale il superamento della malattia rappresenta nel migliore dei casi null’altro che una riduzione del danno.

Il diritto alla salute si garantisce di conseguenza attraverso la prevenzione, ovvero un’insieme di azioni, individuali e sociali, dirette a impedire il verificarsi della malattia. Non è dunque qualcosa di settoriale di cui deve occuparsi un servizio specifico, bensì un compito dell’intera organizzazione sociale che deve trasformare il ‘cosa, quanto, dove, come e per chi’ produrre, ‘come, quanto e in quali condizioni’ lavorare, come nutrirsi, come muoversi, come stare insieme.

In questa direzione, il secondo concetto da recuperare è quello della cura.

Si tratta di un concetto che nella narrazione dominante viene relativizzato per declinare da una parte le attività strettamente medico-sanitarie, dall’altra le attività di accudimento domestico, storicamente svalorizzate e delegate in particolare al mondo delle donne.

La cura così intesa è funzionale all’ideologia dell’intoccabilità del modello capitalistico, basato da una parte sulla valorizzazione della produzione economica e la non considerazione della riproduzione sociale, e dall’altra sull’intoccabilità di un modello sociale dentro il quale la malattia viene relegata a sfortunato evento individuale.

Si tratta, al contrario, di recuperare la differenza tra due verbi inglesi foneticamente e graficamente molto simili, ovvero “to cure” e “to care”.

Il primo significa “curare”, mentre il secondo significa “prendersi cura, preoccuparsi per”.

E’ a questo secondo significato che bisogna fare riferimento, come ben espresso da Joan Tronto e Berenice Fisher, le quali considerano la cura “una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della cura[2]

La cura così intesa prende atto della vulnerabilità dell’esistenza e contrasta il mito onnipotente della sicurezza, parola che deriva da sine-cura, senza preoccupazioni, per accedere alla curiosità, parola che serve a significare colui che si cura di qualcosa.

Segnando il radicale antagonismo tra chi, con la città piena di cadaveri trasportati dai camion dell’esercito, produce il video “Bergamo is running” e tutte e tutti coloro che, con il mutualismo autorganizzato si sono preoccupati della propria comunità di riferimento.

Quali caratteristiche dovrebbe, di conseguenza, avere un servizio sanitario di una società basata sull’interdipendenza e la cura?

Innanzitutto, dovrebbe essere pubblico e gratuito. In tempi di frammentazione sociale, molti rischiano di perdere il profondo significato di coesione sociale rappresentato da questo concetto.

Se il servizio sanitario è pubblico e gratuito, significa che io lo finanzio mentre sono in salute (con le tasse) per essere sicuro, in caso di necessità, di essere curato e per garantire che venga curato anche chi non ha un reddito; se il servizio sanitario è privato e a pagamento, vuol dire che io non pago nulla mentre sono in salute, ma pagherò in caso di malattia, potendo accedere alle cure solo se dispongo di adeguate disponibilità economiche. Dentro il quadro privatistico, muore l’universalità del servizio e si approfondisce la diseguaglianza sociale.

In secondo luogo, dovrà essere adeguatamente finanziato con risorse incomprimibili. Se la salute è un diritto primario, la spesa per la stessa non può essere dettata dai principi aziendalistici del “far quadrare il bilancio” o da vincoli dettati dalla trappola ideologica del debito pubblico. Occorrono risorse certe e comunità territoriali che ne controllino democraticamente destinazione ed efficacia.

In terzo luogo dovrà essere organizzato territorialmente, secondo l’idea della cura di prossimità e la strategia della prevenzione. Se la malattia è un fenomeno sociale, è dentro quel contesto che può ristabilirsi la salubrità e la salute; al contrario, un sistema centrato sull’ospedalizzazione rischia di tecnicizzare la malattia estrapolandola dal contesto che l’ha prodotta, sino a reificare la persona stessa riducendola ad organo su cui intervenire (se vado da un otorino divento un orecchio).

Il settore ospedaliero va integrato dentro una sanità territoriale basata sulla medicina scolastica, del lavoro e dell’ambiente, dentro una logica di ospedale al servizio della comunità e non del suo contrario.

La pandemia ha mandato in tilt un modello sanitario basato sul mercato e un concetto organicistico di salute, ridicolizzando i feticismi delle eccellenze privatistiche.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato dal governo per l’accesso ai 209 miliardi del Next Generetion EU non sembra aver alcuna intenzione di invertire la rotta.

Serviranno grandi mobilitazioni sociali per uscire dall’universo della competizione e approdare alla società del prendersi cura.

[1]D. W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1974

[2]Sara Brotto, Etica della cura. Una introduzione, Orthotes, Napoli 2013

Photo credits: Manifestazione per la riapertura dell’Ospedale Maria Adelaide. Torino, 12 aprile 2021, Riapriamo il Maria Adelaide.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 46 di maggio-giugno 2021:  “La salute non è una merce

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