Sistemando alcuni appunti ho ritrovato un post scritto 5 anni fa da Jason Clay, vice-presidente del WWF internazionale, e allora pubblicato su “The Huffington Post”. Sembra, purtroppo, scritto oggi, visto che il tema trattato non ha trovato ancora una soluzione. Il tema è quello di come sfamare la popolazione mondiale preservando al contempo il nostro pianeta. Se vogliamo cercare di salvaguardare veramente il nostro pianeta, è necessario domandarsi seriamente dove e come produciamo il nostro cibo.
La produzione di cibo è l’attività umana che ha avuto il maggior impatto sul pianeta rispetto a qualsiasi altra. Inoltre, essa contribuisce da una parte all’esacerbarsi dell’emergenza sui cambiamenti climatici e, dall’altra, ne viene profondamente affetta. La crescita della popolazione non aiuta e i 7,4 miliardi di abitanti sulla terra nel 2016 sono diventati oggi 7,9: 500 milioni di persone in più in 5 anni. Il consumo delle risorse terrestri avviene, già da diversi anni, ad un ritmo considerato non rinnovabile e, quindi, non sostenibile.
Secondo il WWF, le dimensioni delle popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili sono drasticamente diminuite (-68%) dal 1970 e uno specifico indice (Living Planet Index) sintetizza lo stato della biodiversità globale, segnalando lo stato di salute del nostro pianeta. Questo indice, pubblicato per la prima volta nel 1998, registra oggi un declino globale del 60% nella dimensione delle popolazioni di vertebrati, un crollo di più della metà in meno di 50 anni. Al momento, con lo stile di vita degli italiani, servirebbero 2,6 pianeti come la Terra per soddisfare i bisogni di tutti. Prima o poi, le conseguenze di questa emergenza toccheranno tutti, se non corriamo ai ripari fin da subito.
La sempre crescente domanda di alcuni alimenti è causa di deforestazione, violazione dei diritti umani, inquinamento delle acque, conversione di habitat, per non parlare delle attività illegali. Nelle prossime tre decadi, la popolazione mondiale toccherà la cifra di 10 miliardi e l’impatto potrebbe essere devastante. Ma non dimentichiamo che già oggi questo impatto è, per una buona fetta della popolazione mondiale, insostenibile. Il consumo pro-capite di proteine animali, così come di frutta e vegetali aumenterà drammaticamente e si dovrà scontrare con la disponibilità del territorio utilizzabile per le coltivazioni; territorio che non può essere considerato illimitato.
Sono ormai diversi anni che a livello internazionale si discute sul legame tra biodiversità e produzione alimentare e si arriva sempre a dichiarare che dobbiamo cambiare i metodi con i quali produciamo il nostro cibo. Ogni caloria che consumiamo, proveniente sia da alimenti freschi che dal cibo spazzatura, ha un costo che non è solo economico. La produzione alimentare è la principale causa del radicale cambiamento degli habitat, inclusa la deforestazione, la perdita di biodiversità e, a seconda della fonte, la prima o la seconda causa delle emissioni di gas serra. E’ inoltre il principale utilizzatore di prodotti chimici e acqua dolce. La produzione di cibo utilizza il doppio di acqua di tutte le altre attività umane messe insieme. E quindi sorge spontanea la domanda: è possibile sfamare tutti continuando con questi ritmi e mantenere in salute il pianeta?
Negli ultimi 10 anni, in particolare, la sostenibilità alimentare è diventata un fattore di marketing e questo non va bene, non è l’approccio giusto. La sostenibilità va considerata dall’inizio, fin dalla produzione delle materie prime. Tutti i principali attori in gioco, in ogni settore agro-industriale, devono attivarsi per fare in modo che le proprie materie prime siano prodotte in modo sostenibile, oltre che legalmente. La produttività per ogni raccolto agricolo può differire di un fattore cento e anche all’interno di una stessa area alcuni produttori possono risultare 10 volte più efficienti dei loro vicini. E’ necessario quindi sostenere i più poveri e coloro che non ce la fanno, piuttosto che incaponirsi ad incrementare la resa agricola inondando il terreno di veleni. Ma questa è una visione che potremmo definire “olistica”, ancora troppo lontana da come va il mondo oggi. Però è chiaro che ognuno di noi deve fare il possibile per far capire a chi ci è più vicino quali sono gli impatti delle proprie azioni: non è tollerabile che oltre il 30% dell’equivalente in calorie prodotte (tonnellate e tonnellate di cibo…) venga scartato e quindi non immesso sul mercato. Questa è la fotografia che ci accompagna ormai da tempo: persone che muoiono di fame e altre che muoiono per gli effetti di un’alimentazione eccessiva, oltre che sbilanciata. Sono oltre 800 milioni le persone che non hanno abbastanza da mangiare ed è paradossale che la maggior parte di esse vivano su terreni agricoli.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo l’Istat, nel 2020 le persone in povertà assoluta sono state un milione in più rispetto all’anno precedente, per un totale di 5,7 milioni. Quelle a rischio povertà rischiano un’esplosione e già nel 2019 erano più del 20% della popolazione italiana. Di recente, il centro studi Unimpresa ha fatto riferimento a oltre 10 milioni di persone. Il numero dei lavoratori poveri è aumentato in molti paesi europei e, nello specifico, del 28% in Italia. Rispetto a un anno fa il tasso di occupazione è più basso di 2,2 punti percentuali e quello di disoccupazione più alto di 0,5 punti. La Caritas ce lo ricorda puntualmente: nelle grandi città, la povertà è ormai una prospettiva, anzi una dimensione, che aggredisce fasce sociali sempre più ampie. Anche nella Capitale, il 18% dei residenti è a rischio povertà, il 10% va in crisi per spese fisse o improvvise e il 7% vive in condizioni di grave deprivazione abitativa.
Quindi, in definitiva, è evidente che per una parte della popolazione esiste un problema di accesso al cibo. Questa ineguaglianza dovrebbe far vergognare ognuno di noi, cittadini occidentali che ci sentiamo sempre più oberati dai problemi ma che, ancora in gran parte, abbiamo spesso la pancia troppo piena.
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