Per 73 anni i palestinesi hanno sopportato il peso del regime coloniale di apartheid dei coloni israeliani. La loro è una lotta per la libertà e i diritti. La traduzione, fatta da Ilaria Faccin e Marco Miotto, di un articolo di Inès Abdel Razek uscito su Roar Mag.
Ancora un altro giorno in cui ci si sveglia con altre devastanti notizie da Gaza. Cosa puoi dire a un amico che ha appena perso contemporaneamente sei familiari e che non ha avuto la possibilità di abbracciarli negli ultimi 10 anni perché ha lasciato Gaza e non può tornarci perché è sotto blocco? Cosa puoi dire ad un amico il cui figlio adolescente soffre di ansia cronica dopo aver già vissuto nella sua breve vita quattro campagne di bombardamenti?
Ma sono tenuto a conservare le mie emozioni per dopo, a trattenere le lacrime e a indossare una maschera che mi permetta di fare la mia parte nel cercare di parlare, scrivere e raccontare al mondo ciò che sta accadendo.
Noi palestinesi siamo esausti. Stiamo piangendo i nostri morti, confortando i nostri amici, affrontando gas lacrimogeni e granate, ma allo stesso tempo dobbiamo anche informare il mondo sulla nostra situazione.
La perpetua narrativa del mondo su ciò che sta accadendo in questo territorio di 27.000 chilometri quadrati tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ci obbliga a parlare della nostra brutale realtà, edulcorandola e contestualizzandola in lunghe e secche analisi, nella speranza essere ascoltati senza essere etichettati come “parziali” o “emotivi”.
Le parole contano
Ora che la violenza è stata avvertita dai potenti, da Israele e dagli israeliani, e ora che la loro realtà – che normalmente ignora i palestinesi – è stata scossa, quel mondo che si era dimenticato di noi improvvisamente si preoccupa di nuovo. I riflettori sono accesi. La violenza quotidiana dell’apartheid, delle umiliazioni, delle esecuzioni extragiudiziali non fa “notizia”, come abbiamo imparato fin troppo bene nel corso degli anni. La nostra umanità resta tutta da dimostrare. Ed eccoci di nuovo qui, con la nostra quotidiana determinazione e resistenza, a radunarci a migliaia per pregare, per ricostruire i villaggi più volte distrutti, con i giovani che lanciano pietre.
Le rivolte e la brutale violenza delle forze israeliane non sono iniziate poche settimane fa e lo svolgersi degli eventi non è improvviso né sta avvenendo nel vuoto. I palestinesi sui social media stanno facendo eco alle parole della comunità nera negli Stati Uniti dicendo che “non possiamo respirare dal 1948”. I palestinesi stanno soffocando sotto i 73 anni di un regime coloniale che ci tratta come una minaccia alla sicurezza e come un problema demografico, che cerca di cancellare la nostra identità, i nostri diritti collettivi e la nostra stessa esistenza nella nostra terra.
Questo non è un “conflitto”, questi non sono “scontri” o “tensioni”, né una “guerra” tra “due parti” con divergenti interessi, religioni o etnie. Le parole contano. Tali terminologie e narrative cancellano l’estrema asimmetria di potere, di dominio e di privilegi, creando al contempo una falsa equivalenza che contribuisce alla negazione della realtà. I palestinesi ovunque vivano, a Giaffa, a Gaza, in Cisgiordania o a Gerusalemme, sono nati con diritti inferiori agli israeliani e sono stati deliberatamente frammentati e soggiogati a un sofisticato regime burocratico che li mantiene prigionieri: si chiama apartheid.
Vi diranno che Hamas è il problema, ma la pulizia etnica del 1948 e del 1967, l’occupazione militare e il suo regime di arresti arbitrari e negazione dei diritti esistevano molto prima che esistesse Hamas.
Annessione ed espulsione
Il quartiere di Sheik Jarrah, la cui comunità ha allertato con successo il mondo della sua difficile situazione tramite i social media e le proteste, è diventato un potente simbolo per la lotta contro il progetto suprematista israeliano che mira ad annettere il massimo del territorio con il minimo di palestinesi.
Gerusalemme è di fatto annessa dal 1967 e Israele ha mantenuto un arsenale legislativo, politico e infrastrutturale che punta a consolidare l’espropriazione del popolo palestinese e mantiene quello che Israele esplicitamente riconosce come un “bilanciamento demografico” del 70% di israeliani e del 30% di palestinesi.
Svariati meccanismi sono stati messi in atto per buttare fuori i palestinesi, ghettizzandoli in spazi confinati e sostituendoli con coloni ebrei nel cuore della città.
Per esempio Israele si è impossessato di terre e case usando leggi discriminatorie che impediscono ai palestinesi di ottenere i permessi edilizi, o di reclamare le loro proprietà perdute nel 1948, o di impedire ai rifugiati palestinesi di ritornare. Israele ha anche strumentalizzato l’archeologia e il turismo per prendere il controllo di quartieri palestinesi specifici. Solo nel 2020, l’anno in cui tutti stavamo combattendo una pandemia globale, Israele ha demolito 146 strutture palestinesi a Gerusalemme dislocando 346 persone.
Nel 2003 Israele ha cominciato a costruire un muro alto otto metri, che ha isolato un terzo della popolazione palestinese di Gerusalemme dalla città, in quartieri come Kufr Aqab dove i palestinesi vivono in uno stato di limbo.
I palestinesi di Gerusalemme hanno un documento di identità diverso da quello dei cittadini israeliani. Sono considerati “residenti” nel loro stato: stranieri che possono essere deportati e perdere il loro diritto di residenza. Dal 1967 e dall’annessione della città, questo ha portato a più di 14000 persone espulse da Gerusalemme.
Dal fiume al mare
In maggio, mentre le folle di coloni razzisti che gridavano “morte agli arabi” brutalizzavano la gente e distruggevano le proprietà erano protetti dalla polizia, le proteste pacifiche alla Porta di Damasco e alla moschea Al Aqsa, il terzo luogo sacro del mondo islamico, venivano brutalmente attaccate dallo stato israeliano. Questo non è un problema religioso: questi sono decenni di impunità, di promozione di razzismo istituzionalizzato e supremazia di un popolo su un altro dove la religione è meramente un sintomo, non una delle cause.
Tutte queste politiche e strutture che deliberatamente frammentano, segregano ed espropriano si stanno manifestando sotto svariate forme a discapito dei palestinesi con cittadinanza israeliana, dei palestinesi a Gaza e dei palestinesi nella Cisgiordania.
Mentre tutti i palestinesi uniti, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo hanno fatto uno sciopero generale il 18 maggio, mobilitando migliaia di persone nelle strade di tutta la Palestina, noi siamo ispirati dalla nostra gente i quali, malgrado anni di frammentazione e privazione dei loro diritti, sono determinati a ricostruire la loro unità dal basso. Noi continueremo a combattere le ingiustizie e a dare l’ispirazione a tutti coloro la cui lotta per la libertà ispira noi di ritorno.
I miei nonni, Soumaya e Mustafa, che hanno dovuto fuggire dal villaggio di Az-Zeep nel 1948, sono stati rifugiati in Libano e non hanno più potuto vedere la loro terra natia prima di morire. A oggi non mi è permesso di stare nella mia terra di origine da palestinese, e posso solo visitare usando il privilegio del mio passaporto straniero, come visitatore nella mia terra. Quello che si è dispiegato negli ultimi giorni, l’energia che ho sentito nelle strade, mi dà energia e spero che la nostra generazione sia finalmente in grado di vivere libera e con dignità.