Polarizzazione doveva essere e polarizzazione è stata. I risultati delle elezioni per la poltrona presidenziale del Perù hanno mostrato ciò che si era visto in queste ultime settimane di campagna elettorale: un paese spaccato in due, in cui lo scontro sociale non è destinato a placarsi nel breve periodo. Nonostante l’apparente scampato pericolo, con il candidato di Perù Libre Pedro Castillo avanti di circa ottanta mila voti, la fotografia che ricaviamo da questa tornata elettorale non lascia grandi sprazzi di ottimismo.
Fin dall’inizio dello spoglio è apparso chiaro che il nuovo presidente sarebbe uscito vincente con pochi voti di differenza e solo a spoglio ultimato o quasi. I primi risultati ufficiali infatti davano per vincente Fujimori con circa 500 mila voti in più, ma con il passare delle ore lo scarto è andato riducendosi fino a produrre il sorpasso al 90% dei voti scrutinati. La lenta ma inesorabile rimonta di Castillo è dovuta al fatto che sono giunti al tribunale elettorale prima i voti di Lima e della costa, dove Fujimori ha il grosso del suo elettorato, e successivamente quelli delle aree amazzoniche, rurali, andine e di periferia, più favorevoli a Castillo. Al momento in cui scriviamo, sebbene la storia latinoamericana insegni alla prudenza, la tendenza sembra irreversibile e, a oltre il 99% dei voti scrutinati, il vantaggio di Castillo è di circa ottanta mila.
In queste consultazioni i due candidati sono apparsi come due facce della stessa medaglia, opposte ma irrimediabilmente simili. Da una parte una realtà conservatrice che mai come questa volta ha saputo stringersi attorno alla controversa figura di Keiko Fujimori, figlia del più famoso dittatore Alberto e già implicata in numerosi casi di corruzione, con indagini ancora in corso. Dall’altra parte Pedro Castillo, maestro marxista, anch’egli una figura controversa della sinistra che però esprime con chiarezza l’attuale proposta politica della izquierda latinoamericana: una sinistra populista e per molti aspetti, soprattutto per quanto riguarda i diritti civili, molto conservatrice, con posizioni “machiste” di subordinazione al maschio dominante e contrarie per esempio alla legalizzazione delle unioni omosessuali.
Una polarizzazione ideologica e geografica che “piace” ad entrambi gli schieramenti, sia quello conservatore, sia quello progressista ma che in ultima analisi garantisce la continuità del sistema capitalista soffocando ogni possibile alternativa che potrebbe nascere e svilupparsi dal basso.
La consapevolezza più grande che esce da queste elezioni è che la frattura provocata dal fujimorismo non solo non è rimarginata, ma non si è mai neanche incamminata nella via della guarigione. Non sono bastati i morti, gli attentati, i processi, la guerriglia e gli orrori di quel decennio per uscirne. Anzi, vent’anni di sedimentazione complicano ancor di più la partita: se nel 2000 forse si sarebbe potuto pensare a una nuova costituente in grado di diminuire le storture introdotte dalla costituzione fujimorista, intrisa di classismo e neoliberismo, oggi questo traguardo sembra lontanissimo, nonostante fosse una delle rivendicazioni delle piazze di novembre. È evidente come votare per Keiko Fujimori ponga milioni di peruviane e peruviani nella via del conservatorismo, del colonialismo interno, della liberalizzazione selvaggia per scatenare una guerra fra poveri di cui solo l’élite economica del Paese può beneficiare. Una revisione delle costituzione appare dunque lontanissima anche se il presidente sarà Castillo, che si è sempre mostrato possibilista sulla questione.
La scelta è stata allora tra un’opzione conservatrice classica, che garantisca al capitalismo estrattivo in decadenza di continuare a sfruttare i territori, utilizzare la forza militare senza nessun senso di colpa, negare i diritti civili e la suddivisione della ricchezza alla maggioranza della popolazione, e un’opzione statalista che nel promuovere lo stesso tipo di sfruttamento del territorio, magari in modo più moderato, centralizzato e nazionalista, si garantirà una fetta della torta per sé, ingrassando l’apparato burocratico. Le proposte progressiste del continente, infatti, da tempo non sono più opzioni anticapitaliste radicali in quanto pur di salire al potere si pongono il problema di amministrare il sistema piuttosto di abbatterlo, come dimostrano i recenti casi di Bolivia ed Ecuador.
Nel caso di Castillo, come già detto, è una proposta che di fondo nega le libertà individuali e propone una società con un alto controllo statale, ma sempre dentro ai limiti imposti dal sistema stesso. È impensabile infatti, in una società così altamente polarizzata, riuscire a proporre grandi riforme sia in termini di diritti, sia soprattutto in termini di difesa dell’ambiente, vero nodo centrale su cui si concentrano gli interessi mondiali sia dal punto di vista dello sfruttamento dei governi, sia dal punto di vista di difesa dei movimenti e delle popolazioni. Gli esempi di questo sono molti: dal Venezuela al Nicaragua, dalla Bolivia al Messico, i governi progressisti non sono in grado, né sembra vogliano, praticare politiche ambientali che rompano con l’estrattivismo, ma possono solo produrre politiche capaci di attenuare in modo blando lo sfruttamento di alcune porzioni dei territori e promuovere una minima progressività fiscale. Lo vediamo in Bolivia con i progetti estrattivisti nel TIPNIS per esempio o in Messico con la vicenda del mal chiamato Tren Maya e delle altre grandi opere promosse dalla “quarta trasformazione” di AMLO.
Come sostiene l’analista politico uruguayano Raúl Zibechi, queste politiche estrattiviste anche coi governi progressisti vengono infatti difese con l’utilizzo della forza militare perché «il sistema capitalista è genocida e criminale, in particolare in questo momento di declino e nei paesi dell’America Latina. Il suo carattere non dipende dal governo che amministra il modello, è un regime strutturalmente genocida poiché si basa su un modello di accumulazione per spoliazione e furto che può funzionare solo con la violenza, l’esclusione e l’emarginazione della maggioranza».
La polarizzazione politica peruviana si inserisce quindi in questo quadro generale favorevole al mantenimento dello status quo, con il potere in mano alle élites economico-finanziarie e un futuro governo a guida progressista che avrà poca forza per produrre cambiamenti radicali nella società.