di Sandro Moiso
Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro
Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione con i miei famigliari.
Quel film mi è rimasto dentro, insieme al suo protagonista splendidamente interpretato in chiave problematica da Peter O’Toole, ed è forse l’opera cinematografica che ho visto più volte in vita mia, insieme a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, altro film poi non così distante dai contenuti del primo. Per questi motivi, ancora oggi, se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo qual è il mio film preferito non avrei dubbi a rispondere che si tratta proprio di quello.
El Aurens, detto alla moda araba, non mi è rimasto inciso nella mente e nel cuore soltanto per le sue scene epiche e i panorami grandiosi oppure per le figure gigantesche e gigionesche dei capi tribù arabi interpretati da Anthony Quinn e Omar Sharif.
No, fin da allora a segnarmi fu l’immagine dell’eroe sconfitto dalla Storia e dai giochi imperiali che usciva da quelle vicende, e da quelle geopolitiche di cui era stato artefice, con un banale, ma forse ricercato, incidente motociclistico. Negli anni le vicende dell’eroe nietzchiano, che al termine di una continua ricerca della prova suprema e dell’atto ultimo e definitivo si ritrova imbrogliato, usato ed emarginato dai grigi esecutori delle burocrazie imperiali e degli interessi economici legati al petrolio, mi hanno fatto riflettere sulla vanità degli sforzi individuali e delle volontà, fosse anche delle migliori ed eroiche, nei confronti della Storia e dei suoi tellurici movimenti di cui contano soprattutto, più di quelli in superficie e violenti ma brevi, quelli sotterranei e lenti ma inarrestabili.
Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (1888 – 1935) fu archeologo, ufficiale dei servizi segreti britannici e scrittore. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia, è ancora oggi celebrato come uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale.
Lawrence fu infatti un paladino del nazionalismo arabo ed è ricordato come uno dei più controversi e discussi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
Nel 1922, tormentato e disilluso, dopo aver visto la diplomazia europea trasformare in beffa il suo trionfo militare, T.E. Lawrence si arruolò nella RAF come semplice aviere sotto il falso nome di Ross, mantenendo un rigoroso segreto sulla sua vera identità. Morì, in circostanze non ancora del tutto chiarite, a causa di un incidente motociclistico all’età di 47 anni.
Tutto questo per dire che il testo di Victoria Ocampo, pubblicato originariamente in Argentina nel 1942, poi in Francia e Gran Bretagna nel 1947 e oggi in Italia per la prima volta da una casa editrice la cui linea editoriale non è certamente prossima a quella espressa dalla redazione di Carmilla, permette al lettore di affrontare, da un punto di vista che ne sottolinea la ferrea volontà, i caratteri di un uomo che, alla fine di un travagliato ed esemplare percorso, finì col fare i conti con quel precipitare verso il nulla che sembra costituire, insieme al tema tipicamente novecentesco dell’annichilimento dell’individuo in quanto artefice del proprio ed altrui destino, l’ultima vera essenza dell’esperienza individuale moderna.
Che poi tale estrema esperienza sia stata cercata e raggiunta volontariamente oppure come conseguenza della sconfitta della volontà individuale è cosa su cui varrebbe la pena di soffermarsi ancora, poiché anche la condizione di distacco dalle cose del mondo, suggerita e dichiarata dalle filosofie orientali (la Ocampo parla del dharma di Thomas Edward Lawrence), potrebbe rivelarsi null’altro che la constatazione e l’accettazione di una condizione insuperabile dal punto di vista del singolo individuo.
E’ un’instancabile lotta contro l’io “odioso” Lawrence che l’”altro da sé” T.E. conduce per gran parte della vita, secondo lo sguardo dell’autrice. Un confronto che diventa particolarmente evidente nelle pagine del testo più importante e rivelatore della personalità di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, da cui sarebbe poi stata tratta anche la sceneggiatura del film di David Lean.
Una ricerca sistematica di allontanamento dal proprio Io che nell’assunzione di diversi alias nel corso della seconda fase della sua vita (tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross) rivela la netta volontà di scomparire dalle pagine dell’album di famiglia dell’impero britannico.
Un personaggio estremamente contraddittorio interpretato da una scrittrice che lo è stata altrettanto: argentina di nascita che per lungo tempo adottò la cultura e la lingua francese come patria intellettuale e di espressione, mentre le sue origini aristocratiche e il fatto di essere una nota oppositrice del governo di Juan Perón fra il 1946 e il 1955 (motivo per cui fu imprigionata nel 1953), la identificarono per un orientamento culturale conservatore ed elitario, anche se le sue relazioni personali e la sua attività di editrice la mantennero in contatto con numerosi scrittori dalla differente impronta ideologica. Probabilmente il suo ruolo più importante fu quello, a partire dal 1931, di fondatrice della rivista “Sur”, che avrebbe pubblicato scrittori argentini, come Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato e Julio Cortázar, e contribuito alla diffusione presso il pubblico argentino degli scritti di autori stranieri, soprattutto francesi, inglesi e statunitensi.
Spesso al centro delle scene mondane e letterarie, in patria e all’estero, Victoria Ocampo (1890 – 1979) fu, come il suo eroe, di cui disse: «Sono immersa in Lawrence. Lo amo. Respiro… Il mio sangue circola bene quando lo leggo. Lo ammiro e sono felice che sia esistito», affascinata e attratta dal nulla. Il nulla di quel deserto senza confini che aveva circondato le azioni dell’inglese minuto destinato a diventare, più che un gigante, una figura prometeica della politica mediorientale del primo ventennio del XX° secolo, fin da subito indirizzato alla sconfitta nonostante i successi iniziali.
Una vita, quella di Lawrence, caratterizzata, nelle testimonianze di tutti coloro che lo conobbero e che sono largamente riportate nel testo, dal tentativo di superare i limiti fisici della corporeità per mezzo di pratiche ascetiche (attività fisica destinata a sopportare le condizioni climatiche e militari più estreme, astinenza sessuale e alimentare), in nome dell’affermazione di un’individualità che, apparentemente, intendeva liberarsi anche dai limiti anagrafici imposti dal nome (da qui il numero di matricola riportato dal titolo), ma che fallì, nonostante tutto nel suo tentativo di librarsi al di sopra della Storia e della materialità delle cose e dei fatti umani.
Quando Lawrence parla dei giovani inglesi che hanno combattuto al suo fianco e di cui si sente felice di essere compatriota, si indigna che vengano sacrificati non per vincere la guerra, ma affinché l’Inghilterra possa disporre del grano, del riso e del petrolio della Mesopotamia.
Vincere il nemico era necessario. Lo fecero dice, Lawrence. Ma la guerra vinta non significava per lui grano, riso e petrolio. Si vanta, come sua massima gloria, di aver risparmiato, in trenta battaglie, il sangue dei suoi. «Tutte le province soggette all’Impero non valevano per me un giovane inglese morto»1.
E’ il Lawrence del “Nulla è scritto”, frase che caratterizza la scena centrale del film di David Lean, quando il protagonista torna a sfidare l’”incudine di Allah” (la parte più arida del deserto del Negev) nella parte più calda del giorno per salvare un beduino disperso durante la marcia notturna.
Scena destinata a segnare anche il climax del film e il destino dell’azione di Lawrence poiché, per impedire la dissoluzione della sua armata composta da differenti tribù, il cui obiettivo è quello di cogliere di sorpresa e alle spalle la guarnigione ottomana di Aqaba, sarà poi costretto ad uccidere quello stesso uomo che aveva salvato; affinché il suo sangue non ricada sulle mani, già offese, di un clan diverso da quello a cui apparteneva e impedendo così l’inizio una faida distruttiva e senza fine.
E’ sicuramente un episodio simbolico ancor più che reale, ma serve perfettamente a cogliere l’impotenza dell’individuo, anche della personalità più forte e decisa, davanti ai casi della Storia e delle uraniche potenze che la agitano, sia che queste appartengano al cielo oppure a quelle della politica e delle forze economiche materiali.
Certamente, però, l’intera narrazione delle imprese del nostro risentiva dell’”orientalismo”, colonialista e tutto sommato razzista, di cui parlava Edward Said2 a proposito di un’immagine dei popoli arabi e/o coloniali che li vedeva destinati ad essere guidati e risvegliati dai rappresentanti di una società più “moderna e avanzata”: quella europea per l’appunto. Così mentre tra il novembre del 1915 e il marzo dell’anno seguente aveva già preso corpo il trattato Sykes-Picot, un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente (o Asia Minore come allora ancora veniva definito) in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, ratificato nel maggio del 1916, Lawrence poteva ancora perseguire paternalisticamente i propri obiettivi, così come sottolinea la Ocampo poco dopo l’affermazione precedentemente ripotata: “Che si riprometteva dunque? A che mirava vestito da arabo tra gli arabi e da inglese tra gli inglesi? «Se ho restituito all’Oriente [ci dice] un po’ di rispetto di sé stesso, uno scopo, degli ideali […] io ho, fino a un certo punto, reso quelle genti adeguate al nuovo ‘commonwealth’ in cui le razze dominanti dimenticheranno le loro azioni brutali e in cui i bianchi, i rossi, i gialli, i marroni e i neri si metteranno in piedi fianco a fianco ponendosi senza pregiudizi al servizio del mondo»”3.
Ma era anche cosciente del fatto che il suo paternalismo di stampo colonialista avrebbe dovuto, per forza di cose, fare ancore i conti con la politica reale dell’imperialismo e del colonialismo:
Il suo ostinato desiderio che gli arabi, uniti e liberi, potessero far rinascere la loro civiltà, come una nota necessaria tra le altre, si accentuava a mano a mano che progrediva la campagna nel deserto. E agli arabi egli aveva promesso in nome dell’Inghilterra proprio la libertà. Gli arabi non si sarebbero battuti per passare dalle mani dei turchi a quelle degli inglesi o dei francesi, e Lawrence ne era consapevole. Sapeva anche che la solidità delle promesse del suo governo era in dubbio e contava sul prestigio delle vittorie arabe per esigerne lui stesso il mantenimento.
Un poco alla volta le cose si ingarbugliarono. Lawrence era lacerato tra la fedeltà ai suoi capi, alla sua patria e la fedeltà ai capi arabi, agli arabi che avevano creduto alla sua parola e nella sua persona e che per questo si erano fatti uccidere. Non poteva probabilmente parlare apertamente del suo conflitto interiore né agli uni né agli altri. Nel suo trentesimo anno, prigioniero di questo dilemma, e prima di entrare vittorioso a Damasco, Lawrence era già disgustato di una gloria che gli sembrava fondata sull’inganno […] «Gli arabi mi credevano; Allenby, Clayton [suoi superiori] si fidavano di me, la mia guardia del corpo [composta di arabi] moriva per me. Io cominciavo a chiedermi se ogni fama fosse fondata come la mia su un inganno»4.
La volontà, l’ideale, l’inganno e il nulla finivano a quel punto col coincidere e definire l’unico spazio di azione possibile per l’eroe, dall’Ulisse omerico e dantesco fino all’agente dei servizi britannici destinato ad agire nel Medio Oriente del primo conflitto mondiale. Come lo stesso Lawrence ebbe a scrivere nei Sette pilastri della saggezza:
Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma sono quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci. Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. Uno scopo così alto fece appello alla loro insita nobiltà di sentimenti, e li indisse ad assumersi una generosa parte nella vicenda. Ma, quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante5.
Le ricerche storiche successive hanno teso, quasi tutte, a sminuire il ruolo di guida e demiurgo che Lawrence tese ad attribuirsi o che gli fu attribuito dai primi biografi, riducendolo spesso, come afferma Nemi D’Agostino in una nota aggiunta nel 1974 alla sua opera più famosa, ad eroe mancato, il cui sogno romantico rimaneva di stampo conservatore, mentre la sua campagna, a parte il successo conseguito con la presa di Aqaba, registrò una serie di insuccessi, neutralizzati soltanto dall’avanzata inglese nel Sinai e in Palestina, la quale ultima permise infine agli arabi la vittoria politica dell’ingresso a Damasco6.
Sicuramente, però, l’attrazione ideale esercitato dall’avventuriero inglese sull’autrice argentina portò quest’ultima a considerazioni dal carattere psicologico, filosofico e letterario, ben diverse rispetto a quelle fin qui esposte.
“Forse il suo torto fu di crogiolarsi nel rifiuto. Ma possiamo chiamare torto ciò che senza dubbio fu il suo dharma? Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà. Era un abitante delle grandi pianure. Ed è in questa regione, popolata di assenze, che ha avuto luogo il nostro incontro”7.
Anche se tutto ciò non toglie nulla a un libro che può essere tranquillamnete consigliato a chi ha subito almeno una volta il fascino dell’avventuriero inglese e del deserto, anche interiore, che ha sempre accompagnato la sua immagine.