Nemico (e) immaginario. Sguardi sull’alterità. Colonialismo e fantascienza

di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l’“umanità” con la propria invadenza o con la propria incontrollabile “pazzia” e/o sete di vendetta»1.

L’incontro con l’alterità sugli schermi televisivi e cinematografici è ravvisabile soprattutto ricorrendo a contesti particolari come quello fantascientifico. Ed è proprio a quest’ultimo ambito popolato da alieni ed extraterrestri che è dedicato un intero capitolo di Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (Meltemi 2021)2, importante volume nell’ambito della Visual culture steso allo scadere del vecchio millennio e recentemente riproposto in italiano dopo alcune precedenti edizioni.

Nel cinema di fantascienza la questione della differenza si palesa facilmente nel confronto tra l’umano ed il non-umano ed il più delle volte lo scompiglio determinato dall’incontro con l’alterità sembra risolversi con il ripristino della “normalità umana” precedente. Nelle produzioni hollywoodiane quando il finale sembra lasciare aperta qualche porta suggerendo che la normalità faticosamente riconquistata potrebbe non rivelarsi definitiva è più probabile che ciò sia dovuto ad esigenze di produzione (possibili sequel) che non ad una vera e propria messa in discussione delle certezze umane.

Spetta piuttosto alle comunità di fan di serie come X-Files (The X-Files, dal 1993) ideata da Chris Carter e Star Trek (id., dal 1966) ideata da Gene Roddenberry aver saputo creare un ambiente mediatico flessibile ove la questione della differenza è stata articolata e reimmaginata. Tali comunità di fan hanno sfruttato abilmente le lacune e le incoerenze presenti in tali produzioni seriali per elaborare versioni alternative del futuro non di rado tentando di superare i pregiudizi contemporanei.

La descrizione degli esseri alieni è presente in numerose produzioni hollywoodiane che è indubbiamente la rappresentazione dominante pur non essendo l’unica3. Ovviamente il significato attribuibile alla figura aliena che si incontra in un’opera è mutevole; se una delle peculiarità della fantascienza è quella di affrontare le paure e i desideri del presente proiettandoli in un futuro più o meno lontano, è inevitabile che la medesima figura aliena acquisisca nuove significazioni in base al momento storico in cui la si considera oltre che a seconda degli occhi che la guardano e la interpretano. In quest’ultimo caso le variabili si ampliano ad una pluralità di pubblici che si differenziano per genere, formazione culturale, visioni politiche ecc.

È altrettanto indubbio che l’opera possieda pur sempre una sua forza che si esercita soprattutto sulle visioni meno attente in cerca di mero intrattenimento, una forza che tende ad orientare la lettura suggerendo un punto di vista coincidente, sostanzialmente, con quella che si vuole “la visione nordamericana del mondo”. Una visione che il più delle volte è maschile, bianca, eterosessuale e cristiana.

Riferendosi agli Stati Uniti alle prese con la guerra fredda, Mirzoeff nota come tutto sommato siano segnate da un immaginario analogo la fantascienza negli anni Cinquanta e la coeva celebre mostra fotografica di Edward Steichen – The Family of Man (1955) – tenuta presso il Museum of Modern Art di New York in cui la fotografia viene proposta come “specchio dell’essenziale unicità della specie umana nel mondo”.

Se nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel traspare il timore per l’infiltrazione comunista sul territorio statunitense e gli alieni vengono mostrati come esseri in grado di assumere sembianze umane salvo però essere del tutto privi di emozioni – rappresentati come “burocrati senza vita” ha suggerito efficacemente Vivian Sobchak4 –, in maniera del tutto analoga, sostiene Mirzoeff, anche nella mostra di Steichen traspare l’idea l’unicità umana sia in realtà soltanto esteriore. All’immagine di una contadina sovietica intenta a raccogliere il grano con le mani la mostra contrappone una foto aerea ritraente un’ordinata batteria di moderne mietitrebbia statunitensi al lavoro nei campi. In entrambe le contrapposizioni l’alterità sembrerebbe essere messa in scena al fine di confermare la superiorità nordamericana, tanto che, a testimonianza di tale convincimento/finalità, sono numerose le fotografie della mostra rimarcanti agli occhi occidentali degli anni Cinquanta quanto l’Africa sia restata primitiva se confrontata all’Occidente che ha saputo civilizzarsi.

La fantascienza nordamericana, sostiene Mirzoeff, proiettandosi in un futuro immaginario, ha saputo creare un ambiente in cui le contraddizioni possono essere espresse ed affrontate pur mantenendo le certezze granitiche della superiorità statunitense nell’epoca della divisione in blocchi. Restando agli anni Cinquanta, la superiorità tecnologica degli esseri alieni palesata in film come La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin o Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953) di William Cameron Menzies ha contribuito a rafforzare la convinzione dell’impellente necessità di sviluppare armi sempre più sofisticate per fronteggiare le minacce al territorio statunitense che possono giungere dall’esterno.

Allo stesso modo gli scenari del futuro mostrati dai film si rivelano utili all’avanzata della società dei consumi in quanto contribuiscono a rendere desiderabili anche beni non ancora disponibili sul mercato. A tale proiettarsi dei desideri nel futuro il mercato ha risposto incrementando la frequenza degli aggiornamenti delle merci disponibili e pianificandone di nuove.

Di conseguenza, il pubblico si è abituato a immaginare il futuro in termini molto precisi e a confrontare le diverse versioni di quel futuro. È stata questa strana fusione di desiderio consumistico e retorica politica che ha dato al genere fantascientifico la sua particolare risonanza, in una prima versione di quella che Allucquère Roseanne Stone ha chiamato “guerra di tecnologia e desiderio”5.

Col finire della guerra fredda la fantascienza sembra interessarsi più agli effetti spettacolari che non a suggerire minacce agli esseri umani (coincidenti con gli statunitensi), si pensi ad esempio a Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas, mentre gli stessi extraterrestri si fanno decisamente più amichevoli, come avviene nelle produzioni di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) ed E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982).

Parallelamente a questo filone di fantascienza spettacolare o in cui l’essere alieno non si rivela più una minaccia per l’umanità, compaiono opere per certi versi in controtendenza, come Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982) entrambi di Ridley Scott, contraddistinte anche da un’esplicita critica alle corporation che per certi versi si sostituiscono agli apparati statuali nel loro determinare la vita degli esseri umani; si tratta di film destinati ad aprire una corrente distopica prospettante un’umanità in crisi identitaria costretta a fare i conti con scenari futuri inquietanti ed inediti.

Se nella narrativa degli Anni Cinquanta gli alieni sono una minaccia, negli Anni Settanta, il decennio in cui la generazione dei baby boomer credette di poter cambiare il mondo, gli alieni diventano pacifici perché gli esseri umani sono finalmente disponibili a un contatto, più o meno la stessa metamorfosi subita dai pellerossa […]. Il desiderio che l’altro si avvicini, però, comporta anche l’avvicinamento del desiderio provato dall’altro. Questo desiderio che per noi resta, per ovvie ragioni culturali, significativamente indecifrabile, sul lungo termine innesca il conflitto, come i meccanismi mimetici ci insegnano. Così, mentre il percorso narrativo principale degli Anni Settanta, costruito sugli archetipi dell’inconscio collettivo portati in superficie da quell’ipotesi psicosociale, si stava dirigendo verso il suo coronamento con la cristologia aliena di E.T. Del 1982 […], su questo percorso si innesta [Alien] di Ridley Scott con il suo xenomorfo, quasi ad aprire una nuova porta […] dalla quale scaturirà un nuovo potente immaginario, con caratteristiche del tutto inedite6.

Nell’analizzare le opere di fantascienza in cui l’essere umano viene a contatto con l’alterità aliena, Mirzoeff nota come le due principali tipologie di alieno extraterrestre – il mostro terrificante e l’inquietante copia umana – derivino dalle classificazioni colonialiste europee. Tra i film che palesano punti di contatto tra l’epopea colonialista e la fantascienza, lo studioso cita Robinson Crusoe su Marte (Robinson Crusoe on Mars, 1964) di Byron Haskin, in cui un essere umano restato bloccato su Marte si trova ad avere come compagno di avventure un alieno in fuga da suoi simili chiamato emblematicamente Venerdì dal novello civilizzatore.

Rimandi tra colonialismo e fantascienza sono individuabili secondo Mirzoeff anche all’interno della produzione di Ridley Scott: elementi di contiguità nell’incontro dell’umano con l’alterità sono segnalati dallo studioso nei già citati Blade Runner, Alien e nell’opera proiettata nel lontano passato 1492: la conquista del paradiso (1492: Conquest of Paradise, 1992)7.

Sebbene quest’ultima pellicola sia stata fatta uscire nelle sale in concomitanza con la ricorrenza della scoperta di Colombo l’atteso successo al botteghino non è arrivato; il cinquecentenario non ha portato bene alla figura dell’esploratore europeo alle prese con le critiche delle popolazione native e, più in generale, con una rilettura critica della sua epopea. «Mentre il pubblico si sarebbe dovuto identificare con gli “umani” contro gli “alieni”, nel contesto coloniale la rettitudine morale ora sembrava appartenere a “loro” – e cioè, agli indigeni che avevano sofferto la violenza della conquista coloniale»8.

In quel lontano 1492, nel momento stesso in cui vengono a contatto con gli abitanti del “nuovo mondo”, gli europei non tardarono a categorizzare le popolazioni indigene come esseri fondamentalmente diversi in linea con un immaginario già predisposto a possibili presenze mostruose. La visione di uno senario naturalistico sino ad allora sconosciuto ha spinto con maggior forza gli esploratori europei a prestar fede ai racconti sui mostri e a raccontare, a loro volta, di aver incontrato individui di specie diverse durante i viaggi. Analogamente, sostiene Mirzoeff, «il film di fantascienza stabilisce e normalizza accuratamente la propria ambientazione prima di presentare il suo alieno o il suo mostro, cosicché esso sembri appropriato al contesto. Inoltre, persuade il pubblico ad arrendersi all’illusione, non perché i mostri siano reali, ma perché essi sono uguali sia ad altri mostri che ad altre immagini filmate»9.

I resoconti fantasiosi dei viaggiatori e dei missionari europei hanno certamente contribuito rafforzare la convinzione di una incolmabile discrepanza tra “civiltà” e “primitivismo” e tra “cristianità” e “paganesimo”. «Dal punto di vista occidentale, per essere completamente evoluti, gli umani dovevano essere civilizzati, il che vuol dire che dovevano essere cristiani. Nel contesto fantascientifico, la questione dell’evoluzione avanzata è altrettanto dominante. L’alien, per esempio, è fisicamente quasi indistruttibile, mentre i replicanti di Blade Runner possono sembrare più “umani” degli umani biologici.»10.

Lo studio di Mirzoeff si sofferma anche sul film Congo (id. 1995) di Frank Marshall, derivato dall’omonimo romanzo del 1980 di Michael Crichton, notando come questo, sin dalle prime sequenze, metta in scena stereotipi occidentali sul continente africano ormai sedimentati nel tempo.

Il contrasto tra la spedizione occidentale hi-tech, con i suoi occhi protesici, e il primitivo, ma pericoloso Congo, così minaccioso per gli occhi biologici, ma fonte vitale di materie prime, difficilmente poteva essere rappresentato in modo più sinistro. Inoltre, Congo lega direttamente il progetto coloniale del diciannovesimo secolo alla fantascienza contemporanea, con la sua accurata evocazione di Houston come sede della compagnia, ricordando agli spettatori la stazione di controllo delle missioni della NASA, nella stessa città. Film come Congo minano alla radice il presupposto rassicurante secondo cui non ci sarebbe più la convinzione che l’Occidente è più evoluto dei suoi Altri11.

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