Palestinian diwan. Report dell’incontro sull’attualità della cultura palestinese tra poesia e Hip-Hop a Sherwood Festival

Dario Khaleghpour, in arte Westcross e Salah Eddine Ferchane, aka Harraga, sono due rapper della scena hip-hop padovana. Hanno in comune una forte passione per la Palestina, il primo perché le sue radici affondano in quella terra, il secondo perché da sempre porta la Palestina nel cuore.

Palestinian diwan è un incontro dal sapore mediterraneo, meticcio ed accogliente, che evoca racconti lontani e vicini allo stesso tempo. Un intreccio di culture, suoni e colori in cui emerge in maniera chiara e decisa il lato più profondo della solidarietà e della condivisione.

Il tutto si apre con la lettura, in arabo e in italiano, di alcuni versi di quello che può essere considerato il più grande poeta palestinese, Mahmoud Darwish. Un inno alla libertà, un appello che rivendica l’appartenenza a una terra, una cultura, un’identità.

 

O voi, passanti tra parole fugaci.

È giunto il momento che ve ne andiate

e che dimoriate dove volete, ma non tra di noi.

E’ giunto il momento che vi ne andiate

e vi spegnate, dove volete, ma non tra di noi.

Abbiamo nella nostra terra, ciò di cui occuparci

il passato qui è nostro.

È nostro il primo vagito della vita,

nostro il presente … il presente e il futuro

nostra, qui, la vita …e nostra l’eternità.

Fuori dalla nostra patria …

dalla nostra terra … dal nostro mare

dal nostro grano … dal nostro sale

dalla nostra ferita …da ogni cosa.

Uscite dai ricordi della memoria

O voi, passanti tra parole fugaci!

La serata prosegue con i racconti di cosa significhi essere un meticcio a Padova e Westcross lo fa riportando alcuni versi delle sue canzoni.

“Mamma non mi hai fatto né nero né bianco, meticcio e bastardo con in testa un sogno tanto”

Il sogno è quello di vedere un giorno un mondo in cui essere meticci è un vanto, perché l’intreccio di culture crea ricchezza. Nel suo racconto ci sono continui riferimenti al quartiere Guizza di Padova e a come la cultura hip-hop abbia da sempre scandito le sue giornate fin da piccolo. Il legame con la sua terra d’origine, quella che lo ha cresciuto e quella che vive attraverso i testi rap dei rapper della West Coast fanno di lui un giovane artista poliedrico, in grado di intrecciare in un perfetto mix il bello di culture così lontane, eppure così vicine.

La sua musica non è identitaria, ma rivendica per piccoli tocchi, brevi rime, brevi flash visivi una definizione di sè che trascende quella che è propria del cliché dell’italiano medio.

Il microfono passa poi a Salah, che dopo la lettura della poesia, ci spiega le analogie con quello che è stato da sempre il vademecum che si è portato dietro nel suo girovagare.

Darwish parla del desiderio di liberazione di un popolo, quello palestinese, ma anche del desiderio di vivere normalmente. In questo legame, fortissimo, che Darwish esprime contro l’invasione della colonizzazione, s’intreccia anche la tua passione per la Palestina.

Figlio di un militante algerino, nei brani “My son is a hero” e “Mama don’t cry” Salah ci parla del dolore delle madri arabe che perdono i loro figli nel conflitto con l’esercito israeliano, in Palestina, nei territori occupati, a Gaza. Nella prima canzone si sente il campionamento del lamento di una madre che piange il proprio figlio e al contempo fa un appello agli altri giovani a non smettere di lottare per il proprio diritto ad esistere. Segue il rumore di un fucile, un ra-ta-ta che però si oppone al contenuto del testo: “we ar not too sad, we are enjoying” che ricorda il verso di Darwish “anche noi amiamo la vita, quando ne abbiamo l’opportunità”, stralcio dal poema “Amiamo la vita”.

Amare la vita quando la si può vivere è però una condizione difficile da esperire in Palestina, come i recenti eventi bellici ci hanno ricordato, una volta di troppo.

Le nuove generazioni di palestinesi riescono a diventare reporter e ad influenzare attraverso campagne mediatiche i loro coetanei a migliaia di km di distanza. A lungo si è temuto che l’uso dei social fungesse da delega, da strumento de-politicizzante, invece come hanno provato i nutriti cortei per la Palestina in tutto il mondo negli ultimi mesi, sono stati una cassa di risonanza importante. E anche lui come artista, si avvale dei social per diffondere e veicolare un messaggio di solidarietà per sostenere una presa di coscienza generazionale.

Si passa poi verso la conclusione del talk con Valentina, attivista dell’associazione Ya Basta! Êdî Bese! che racconta attraverso un video l’esperienza della carovana Gaza is Alive.

Anche qui il forte rimando all’hip-hop come strumento per affrontare i traumi in uno dei luoghi più difficilmente vivibili al mondo, è evidente. Un’esperienza che ha prodotto un forte legame tra figure del mondo hip-hop molto diverse, ma accomunate dalla passione per le 4 discipline. È emerso come mettere in rima, dipingere su un muro o esprimere attraverso il corpo le paure e le angosce, si riveli spesso uno strumento molto efficace per affrontarle.

Tutto l’incontro è stato coordinato da Alba Nabulsi, politologa, ricercatrice e consulente esperta in questioni di genere, diversità ed inclusione. Italo-Palestinese, nata in Italia da padre originario di Nablus (West Bank) e madre italiana, crede nell’importanza della diffusione culturale palestinese e nel ponte che crea tra popolazioni diverse, proponendo un antidoto alla narrazione mediatica della Palestina come un luogo esclusivamente interessato da violenza e sangue.

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