Martedì 29 giugno è stato presentato a Sherwood Festival il libro “Politiche e violenza. Teorie e pratiche del conflitto sociale” curato da Alessandro Senaldi, dottore di ricerca in Filosofia del diritto e storia della cultura giuridica all’Università di Genova, insieme a Luca Alteri e Xenia Chiaramonte. Rossella Puca ed Elettra De Pirro hanno intervistato Senaldi, con alcune domande su un saggio colato e pregnante, eterogeneo e variegato in cui si attraversano molteplici epoche e tematiche.
Rossella Puca: Facendo una disamina della prima parte, che si intitola “Violenza e politica del diritto”, si parte dai riots urbani di massa, come il caso dei Gilets jaunes e si arriva alla pratica dello sciopero sociale inteso come contropotere; sociale perché non inquadrabile dentro le categorie del lavoro formale e salariato.
Scomodando la criminologia critica di Rush e Kirkheimer, si parla di fenomeno criminale come frutto di problematiche sociali e strutturali e si interviene a tratteggiare i movimenti sociali collocati in un binomio cosiddetto fra devianza e politicità. La disamina prosegue con il profilo critico dell’antropologia criminale, da Lombroso coi suoi “uomini pericolosi” tipo l’anarchico, sino a Ferri per la difesa sociale.
La seconda parte inizia con un focus sul terrorismo, in senso letterario e storico: quindi violenza politica negli anni ’70, del movimento antifascista e della lotta armata.
Nella terza e ultima parte, oltre alla violenza legittima, si parla di polizia politica e l’uso legittimo della forza per il governo e l’ordine pubblico, della violenza delle frontiere, e infine a corredo di tutto ciò due esempi esterni “El Salvador e la Colombia: Le strategie di lotta per superare il paradigma della violenza”.
Questo libro è nato anche grazie alla presentazione del vostro precedente saggio in un convegno che si è svolto all’Università di Genova due anni fa dal titolo: “Violenza politica, una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione”.
Partendo proprio da quest’ultima parola chiave che ritorna imponente nel corso del libro, volevo soffermarmi su qualcosa che mi ha molto colpito e che proviene dalla tua penna, Alessandro: a chiosa del libro e partendo dalla fine, tu specifici l’importanza – o meglio – la necessità di un posizionamento citando Foucault: “il sapere non è fatto per comprendere ma per prendere posizione”. Il vostro lavoro di fatto si colloca in quella categoria definita scienza di parte, abiurando quella neutralità che è vista come un peccato mortale. Proprio su quest’ultimo passaggio, vi chiederei se ritenete di essere riusciti a prendere una netta posizione ideologica con questa pubblicazione e come connettete normalmente il vostro lavoro di ricerca con questo ingombro/risorsa da non sottovalutare in una società come quella di oggi che è riottosa e sospettosa ad un posizionamento così netto?
Alessandro Senaldi: grazie ancora ai compagni e alle compagne che hanno organizzato questo evento, sono anche abbastanza emozionato e contento di farvi parte perché comunque se si vuole parlare e avere un occhio attento alla storia dei movimenti e soprattutto alla storia del movimenti organizzati di questo Paese sicuramente non si può fare a meno di studiare quello che è il patrimonio dell’autonomia operaia in tutte le sue declinazioni, fra cui anche quella veneta, e non si può non considerare tutta la stagione che ha portato all’oggi, quindi mi riferisco alla stagione dei centri sociali degli anni ‘90.
Venendo alle tue domande, io credo innanzitutto che nonostante sia in rappresentanza anche degli altri curatori, ci tengo a precisare che in un prodotto editoriale ogni autore o editore ci vede qualcosa. Io, Xenia e Luca ci siamo decisi ad avviare questo percorso per una serie di esigenze al di là del posizionamento ideologico. Le esigenze sono per un verso chiaramente accademiche, per un altro militante e per un altro ancora anche semplicemente di onestà culturale e di amore dei fenomeni per come si danno.
Da un lato quindi c’era appunto il nostro interesse di sottrarre la dimensione della politicità dalla violenza e quindi del pensare un impensato, una depoliticizzazione, perché per le nostre esperienze di criminologi ogni volta che si crea un episodio violento che ha dei connotati politici – e magari dopo torniamo su questa questione – quello che succede nell’immediato etichettamento da parte di chi ha il potere è definire quell’episodio come un reato violento e criminale, non riconoscendone la legittimità politica.
Dall’altra parte, credo che pensare questo impensato serva non solo ai militanti più navigati e alle militanti che hanno mantenuto il collegamento con un certo tipo di pratiche, anche perché la questione della violenza politica è a volte un tabù all’interno dei processi di lotta e riposizionare la questione in questo senso è molto interessante.
Il secondo capitolo lo abbiamo intitolato “cos’è il terrorismo?”. Non lo abbiamo affermato, abbiamo lasciato un punto di domanda, appunto perché normalmente oltre al potere euristico e criminalizzante della parola “terrorista”, le persone adesso, dopo le Torri Gemelle, immaginano l’Isis e gente che taglia teste, non si immaginano ad esempio persone che vanno a bruciare i compressori in Val di Susa. Il terrorismo di fatto è tutto ciò che lo Stato e il potere chiama “il suo nemico”. Emblematica, per dire, la “Reserve List” che viene fatta nella quale, per esempio, anche le compagne e i compagni curdi che combattono contro l’Isis ci sono finiti loro malgrado.
E dall’altra parte si tratta anche di un discorso che sta a cavallo tra queste due cose, una questione di opinione pubblica, nel senso che ormai la politica è fatta sempre di più in un agone pubblico in cui abbiamo la necessità di legittimare e di spiegare anche alcune forme di lotta radicali.
Per quanto riguarda l’accademia, la questione è che questo impensato si traduce in una concezione di iper-mega-funzionalità della società dove tutte gli interessi sono amorevolmente d’amore e d’accordo nella scienza. Manca totalmente il piano del conflitto e il discorso che il conflitto non è il risultato della politica, ma è alla base stessa della politica perché è alla base della differenza di potere e dei rapporti di forza nella struttura e nella sovrastruttura della società. Quindi sentivo molto forte la questione del posizionamento ideologico.
Come riuscire a tenere dentro ricerca e militanza? Io non mi rivendico la figura dell’intellettuale, però credo che una persona non possa sottrarsi da quello che è nella vita di tutti i giorni. Le parole di Faucault riecheggiano, come le parole di Marx ne “Le tesi di Feuerbach” già davano quest’indicazione. Ma ancora in un certo senso ricalcano anche le parole di uno dei padri dell’autonomia: “conosce chi veramente odia”, nel senso che solo attraverso un esercizio di critica radicale e di posizionarsi da una certa parte si riesce a conoscere e a riconoscere la totalità.
Io credo che qui il livello sia duplice: il primo è una questione di etica militante, ovvero un* militante è un* militante sempre, anche in accademia e anche quando fa ricerca non riesce a scindersi da quelli che sono le sue etiche e i suoi principi; dall’altra parte io credo che ci sia anche un discorso di onestà intellettuale e culturale e questo lo dice anche Bordieau: ogni volta che si fa ricerca bisogna essere se stessi e bisogna dire chi parla, come parla e qual è il suo punto di vista. Bisogna oggettivare chi fa ricerca.
C’è poi un terzo livello che è quello del mandato: l’intellettuale non si deve sentire né deve essere qualcuno che si reputa all’avanguardia e dare indirizzo politico a chi fa i processi di lotta, ma deve essere strumento di questi processi e porsi al servizio delle lotte e delle pratiche, cercando di tradurle (visto che è “skillato” nel linguaggio) nell’opinione pubblica comune. Per finire, a lezione io faccio sempre questo esempio che spero sia una giusta metafora: quando uno vede quelle foto o video in cui in Val di Susa volano sassi, la persona normale vede un sasso che vola e quindi si scandalizza, il giurista lo legge come un reato, ma in realtà una persona onesta intellettualmente deve riuscire a riconoscere le parabole che descrivono quei sassi e che ci parlano di principi ed etiche diverse che sostengono quelle traiettorie.
Elettra De Pirro: prima ancora di entrare nel vivo della vicenda e quindi fra il nesso fra politica e violenza, concentriamoci sul motivo per cui abbiamo la necessità di riavvicinare i due concetti e sul perché si sia creata una spaccatura fra diritto e conflitto, allontanando così i moti collettivi dalla sfera giuridica. A quando, secondo te, possiamo ricondurre storicamente questa divisione?
A.S.: Innanzitutto io credo che conflitto e diritto da una parte non siano accomunabili e dall’altra non sono scindibili. Non lo sono perché se si vede nella maggior parte delle Costituzioni di tutti i Paesi, non c’è una norma che legittima la presa del potere rivoluzionaria o come ti dice che si fa una rivoluzione giusta. Questo vuol dire che a prescindere, in qualsiasi momento e in qualsiasi passaggio, quando si produce un livello drastico di cambiamento, questo non può avere una copertura giuridica. La presa del Palazzo d’Inverno ad esempio sono sicuro che sia stato un atto abbastanza illegale. Se noi ci aspettiamo che un diritto legittimi qualsiasi tipo di protesta, anche la meno radicale, nel momento in cui questa avviene anche nel modo più disfunzionale rispetto a quella che è la struttura di produzione, allora viene reputata violenta, anche se è un sit-in, anche se è un picchettaggio ai cancelli della logistica.
Dall’altra parte però non sono scindibili perché i movimenti concepiscono il diritto su tre livelli: innanzitutto è un discorso di contro-utilizzo. Banalmente, una cosa che sbagliavano i brigatisti era rinunciare a difendersi nei processi: a nessuno piace andare in galera, ma se viviamo in uno stato di diritto benché malato che sia, noi abbiamo la necessità di difenderci per evitare la scure. Stessa cosa, nei processi di rigenerazione urbana oppure di partecipazione democratica noi attiviamo dei livelli di diritto per accedervi, anche se sono ambivalenti quando si vuole. E ancora: la Val di Susa con le barricate di carta che facevano, come le nominano, gli amministratori legali, erano del diritto amministrativo e azionavano i livelli del diritto amministrativo.
Un altro piano è il discorso dei diritti come piano di discussione: a me la parola “diritto” non dà fastidio in quanto tale, ma dipende che diritto è e il modo in cui lo pretendi. Per esempio, i movimenti di liberazione nazionale che hanno cacciato i colonizzatori dalle terre non loro puntavano alla rivendicazione del diritto alla propria terra, però quel diritto sosteneva la lotta radicale e la violenza politica, era fondativo, quasi costituente.
Mi ricordo nel 2011 a Bologna abbiamo cacciato la polizia da Piazza Verdi perché di fatto volevamo fare un’assemblea, ma per diritto, cioè per regolamento comunale, non si potevano portare amplificatori in piazza. Questa cosa è sembrata talmente illegittima alla maggior parte delle persone, anche non attiviste, di Bologna che ci fu una cacciata il cui motto fu “i diritti a spinta, a spinta, a spinta!”.
L’unica cosa che effettivamente secondo me ai movimenti non piace è il diritto come concetto di “questo diritto”: non per essere “vetero”, però non c’è diritto senza chi con il potere prende la possibilità di istituire quel diritto. Il potere si ottiene attraverso il conflitto di classe, quindi alla base di chi pone il diritto c’è chi vince il conflitto di classe. Siccome al momento mi sembra abbastanza sotto gli occhi di tutti che il conflitto di classe ancora non l’abbiamo vinto, è un diritto che subiamo e che non possiamo nascondere che è frutto di una mistificazione.
Baratta (un grande penalista italiano) diceva che il diritto penale tutela gli interessi su cui tutta la società si mette d’accordo, ma di fatto oggi i tutelati dal diritto che si mettono d’accordo sono gli estrattivisti, gli inquinatori, i colletti bianchi. I diritti sono di chi, di fatto, tutela i potenti (pensiamo anche alla questione del diritto ai vaccini).
Denunciare la mistificazione del diritto che non è frutto di interessi generali e condivisi è sicuramente un punto che i movimenti e le persone innamorate della libertà dovrebbe dire a gran voce.
R.P.: il vostro saggio lo avete intitolato “Politica e violenza”, non “violenza politica”, forse per evitare il misunderstanding di un libro omonimo? Vengo a specificare quello che dici tu alla fine del libro: “la violenza viene normalmente associata a un aggettivo o a un complemento di specificazione; la violenza di genere, economica”, ma io vorrei soffermarmi proprio sulla nozione di violenza tout court. Che cosa si intende per violenza? È una sopraffazione di forza, visibile, o è qualcosa di intangibile, citando Bauman, qualcosa di “liquido”? Hai parlato tanto di diritto dal punto di vista criminologico, ma anche di diritto amministrativo. Veniamo da un anno e mezzo di gestione dell’emergenza pandemica, in cui si sono intervallati miriadi di DPCM, fantasiosi e tortuosi, può definirsi quindi violenza anche quella conculcazione di diritti per preservare un altro bene tipo quello collettivo, della sanità e dell’incolumità pubblica? Il bilanciamento fra diritti può definirsi uno strumento di potere istituzionale anche violento?
A.S.: quando ho scritto la prima versione del mio pezzo, quella frase era leggermente diversa, più superficiale e Xenia mi ha corretto perché se si vanno a vedere le definizioni sul vocabolario emerge sempre che la violenza è un gesto che una persona fa nei confronti di un’altra per ottenere qualcosa o coattarne la volontà. Però esistono tanti tipi di violenza, tipo quella sadica e fine a sé stessa.
Il problema, casomai, è capire quando la politica non c’è. Nel senso, la politica coinvolge la totalità delle sfere quindi io non posso dire che la violenza strutturale nei ghetti americani, che magari è solo una violenza di gruppi tra pari, non sia espressione di politicità a monte, perché appunto la politica è tutto. Tutto è politica: l’amore, la morte, esattamente come la violenza quindi mi viene difficile dividere le cose.
A livello criminologico io non penso che la maggior parte di chi ammazza o chi si macchi di crimini che tutti quanti sarebbero disposti ad ammettere come allucinanti lo fa per un raptus di follia o perché è patologicamente disfunzionale. Lo fa perché la sua soggettività è stata prodotta così e anche quella produzione di soggettività è politica, quindi la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere ci parla di questo. Non è che gli uomini sbroccano, è che sono stati prodotti così. Forse è la violenza che non si può totalmente scrollare di dosso la politicità intrinseca di ogni cosa della vita; il discorso sulla violenza non è solo fisico, è anche una questione di simboli. Ieri si parlava di come contrastare un gruppo di preghiera anti aborto che si riunisce al Sant’Orsola, anche se è una preghiera fatta da fondamentalisti cattolici è violenza psicologica estrema. Anche lì c’è una politicità.
Però effettivamente la violenza può essere sadica e fine a se stessa. Personalmente io non ne ho mai trattato però ci sono degli episodi di violenza al di fuori del senso.
Per quanto riguarda il diritto amministrativo, innanzitutto forse più del penale si riporta quell’ambiguità anche rispetto ai movimenti sull’uso del diritto. Il diritto amministrativo è uno strumento di controllo: si pensi alle conferenze di servizi che sono il classico strumento amministrativo. Ad esempio c’è una grande opera qua a fianco, chiamiamo gli stakeholders che si siedono attorno al tavolo e parlano se si può fare o non si può fare (anche se normalmente è già deciso che si debba fare). Però chi decide e chi si siede attorno a quel tavolo è una persona che ha il potere di definizione di esclusione; la forma di controllo e potere è dire tu sì/tu no. D’altra parte il diritto amministrativo ha una certa carica di violenza e di disposizione sui corpi.
Rispetto alla questione pandemica, il tema è duplice: per alcuni versi ci sono effettivamente delle questioni che a livello giuridico non tornano tantissimo, tipo l’uso della sanzione amministrativa come uno strumento pre-penale. Io penso che dei meccanismi di gestione della questione andavano approntati. È chiaro che anche lì la politica non è un raggiungimento di un ottimo politico, non è una questione tecnica razionale, scelte come un attacco frontale alla libertà di movimento e di fatto all’autovalorizzazione e al tempo libero delle persone, una salvaguardia degli interessi di Confindustria, di Big Pharma, ha in sé una visione del mondo. Una persona che è un pò contraria al sistema economico attuale sarebbe subito intervenuta a gamba tesa con la patrimoniale, dicendo che a casa ci può stare ma che ha bisogno di soldi.
Quello che non torna però, e che è di difficile lettura, è che nonostante le risposte ci parlino di una visione neoliberale classica della soluzione di tutte le questioni (grandi eventi, catastrofi, pandemie per cui la ricetta è quella neoliberale), dall’altra parte credo che noi, come soggetti e non come movimenti, abbiamo un po’ perso la bussola perché il discorso che tanto si porta avanti della sindemia e del portato globale della libertà personale credo che può portarci fuori strada. Si tratta di una cosa pesante perché la tua libertà personale (concetto estremamente borghese ed individualista) si traduce da parte tua che sei avvantaggiato nel vivere nell’Occidente ricco che si può permettere i vaccini, ma non si traduce in mezzo mondo che ha ancora 2000 morti al giorno.
È chiaro che questo non deve essere un lasciapassare, una carta bianca a chi governa, però dall’altra parte non ci deve neanche fare peccare di arretrare rispetto alla cura e alla salvaguardia di tutte e tutti nonostante l’odio legittimissimo nei confronti di chi ha gestito l’emergenza.
In questa fase preferirei anziché rivendicare il mio diritto a fare aggregazioni a base nichilista individualista nelle piazze, rivendicherei più il mio diritto ad aggregarmi per fare manifestazioni conflittuali come per esempio quella del G20 a Venezia.
E.D.P:: Tra le pagine del saggio si instaura un ragionamento che a nostro dire è nevralgico: “Oggi assistiamo a una sovrapposizione fra devianza e politicità: ciò che è dotato di politicità fuori dall’ambito politico istituzionale è marginale e deviante oppure viceversa. Operando quindi una netta separazione, ciò che è illegale e deviante non può essere politico”. Venendo anche ad un taglio pratico, un centro sociale occupato, un movimento disobbediente che si colloca fuori dalle dinamiche politiche attuali, può realmente inserirsi nel politico o è costretto nelle visioni totalizzanti a permanere nell’angolo della devianza? E come si scongiura questo legalismo che comporta una vera e propria depoliticizzazione del conflitto?
A.S.: Come dicevo prima, c’è questo impensato che funziona un po’ da struttura di controllo, un po’ delegittimando le azioni politiche e relegando al lato della criminalizzazione e un po’ funziona anche non solo da controllo dei soggetti, ma anche di produzione delle soggettività generale, nel senso che la gente oggi è abituata ad espellere la politica dalla propria vita. Nessuno pensa ormai di avere una componente ideologica anzi, quelli che vanno per la maggiore ormai sono i discorsi “né destra né sinistra”, quindi da destra.
Per quanto riguarda la seconda questione, si deve riprendere l’insegnamento barattiano che puntava a una politicizzazione della devianza, ovvero da un lato vedendola come diversità, rispetto a un concetto presupposto di normalità (quando in realtà la pluralità deve essere totale); dall’altra parte questa devianza deve a sua volta essere ricondotta – se è vero che la devianza è decisa da chi ha vinto lo scontro di classe, e questo Negri in “Forma stato” lo dice abbastanza bene – nel movimento di classe.
La criminalizzazione, i devianti e quindi i criminali vanno ricondotti nel percorso della lotta di classe e devono essere politicizzati. Per quanto riguarda gli attivisti, io credo che debbano fare esattamente quello che fanno ovvero diversificare i propri ambiti di intervento però riprendendo, ritematizzando e rivendicandosi la possibilità di essere violenti, non senza senso però sapendo che se terrorista è l’appellativo che lo Stato dà al proprio nemico, noi non dovremmo essere scandalizzati ad essere chiamati così, perché è esattamente il gioco dell’etichetta che funziona così. Quindi, noi dobbiamo continuare a fare quelli che fanno iniziative di socialità, marmellate con i bambini, banca del tempo, ma dobbiamo essere anche quelli vestiti di nero che mettono a ferro e fuoco la città.