Sottrarre la vita al valore: un’agenda per i movimenti contro il G20

Il primo appuntamento delle mobilitazioni contro il G20 della finanza di Venezia si è tenuto al Sale Docks venerdì 9 luglio. L’incontro dal titolo “La vita a valore: lotte sociali, ecologiche, transfemministe contro la finanziarizzazione della vita”, promosso dalla piattaforma We are tide, you are only (G)20 ha parlato di proposte per un’alternativa concreta all’attuale modello di sviluppo e alla sua governance ed ha approfondito una serie di tematiche che saranno cruciali nella piazza di oggi. Ascolta il podcast su Radio Sherwood.

Il primo intervento è stato dell’economista Andrea Fumagalli, secondo il quale questa due giorni deve essere l’inizio di un ciclo di lotte.

Una delle questioni che il G20 ha portato avanti in questi giorni e che ha avuto grande eco mediatico è stata la proposta da parte degli USA di una tassa minima globale con aliquota del 15%, per le big corporation. Questa proposta non ha effetti redistributivi, come dovrebbe avere una sana politica fiscale, e sta inoltre affossando altre proposte che vanno in ben altre direzioni, come ad esempio la web tax.

In una fase in cui è aumentata la capacità di estrarre valore da parte del cosiddetto capitalismo delle piattaforme, in cui il solo atto di utilizzare un app viene trasformato in valore di scambio e in profitto, un dispositivo fiscale come la web tax avrebbe minimamente l’effetto di frenare questo processo.

Un altro tema di discussione al G20 riguarda i piani di investimento pubblico del Recovery Plan, che hanno un’idea di refrain e sono quindi unicamente finalizzati a incentivare l’impresa privata per produrre profitto e investire ancora. Questo modello non funziona, anche perché in bisognerebbe quantomeno portare avanti politiche di sostegno alla domanda. 

«Quali possono essere le nostre parole d’ordine rispetto a tutto ciò? Oggi il campo di conflitto sociale è il welfare: aumenti salariali, diminuzione delle ore di lavoro, contrastare la precarizzazione». Serve quindi un un commonfare, un welfare del comune, i cui tre pilastri sono : reddito di base incondizionato, welfare sociale e libero accesso ai beni comuni, materiali e immateriali.

Per questa ragione è fondamentale che si crei una constante intersezione tra i movimenti ambientali, quelli che lottano la sanità pubblica, ma anche tutte le lotte che si muovono sul versante riproduttivo, per la cultura e la socialità libere.

Seconda ospite dell’incontro è stata Federica Giardini, dell’Università di Roma Tre, che è partita dal concetto di cura e di come questa la cura sia una chiave per leggere il presente in modo conflittuale.

Le attività di cura sono molteplici e complesse, ma vengono spesso svalorizzate ed invisibilizzate: questo la dice lunga su come funziona questo regime economico, che si basa su un modello scientifico-matematico, che sembra offrire certezze inopinabili, ma che ha mostrato tutta la sua proprio con questa pandemia.

L’economia liberale pretende di farsi branca della matematica, ma è un terreno tutt’altro che oggettivo e ad alta intensità ideologica. Ed è proprio in queste narrazioni dominanti che c’è una selezione di parti della realtà che sono visibili, gerarchizzate e funzionano per linee di dominio (sul piano della pianificazione culturale e sociale) e sfruttamento (la parte che insiste sulla contabilità e appropriazione del valore).

L’economia liberale si basa sempre di più sull’individualizzazione dell’homo economicus e la decontestualizzazione dei soggetti, che vengono visti come parti singole di un sistema matematico e non come esseri di un sistema sociale.

Serve dunque tornare a pensare l’economia come un sapere sociale e nel terreno della conflittualità e delle alternative non bisogna contrapporre astrazione a concretezza, ma misurabilità e misura, sovvertendo quella pretesa ideologica di rendere tutti i comportamenti produttori di valore che rispondono alla logica dello scambio.

La misura salariale è saltata ed è sempre più necessario produrre misure alternative: «bisogna rinominare i bisogni uscendo dal dualismo bisogni essenziali e secondari, bisogna identificarli e autodeterminali». Per questo il reddito non è solo una misura monetaria, ma quello che ci viene restituito per avere vite degne e può essere distribuito a diversi livelli, non necessariamente monetari ma anche in termini di servizi.

Nel concreto, bisogna fare una campagna sul reddito di cura, istituire sportelli e consultori che nascono da esigenze specifiche ma che si sviluppano come spazi autodeterminazione individuale e collettiva. «Ci sono vertenze e lotte situate, ma si deve attuare realmente l’intersezionalità, in particolare nella prospettiva post pandemica».

A seguire è intervenuto Alioune Badara Diop, della FIOM, a cui è stato chiesto di rispondere sullo storico conflitto tra reddito e salario che ha connotato buona parte della cultura sindacale italiana. «Oggi i nostri problemi come sindacato stanno nel fatto che in parlamento non c’è oggi una rappresentanza politica per il lavoro. È quindi necessario intercettare i giovani che si muovono in un mondo del lavoro precario dove il sindacato più difficilmente riesce ad arrivare». Secondo Diop ci possono anche essere conquiste sul posto di lavoro, ma in assenza di rappresentanza queste possono essere distrutte da una qualsiasi legge.

Bisogna inoltre affrontare il tema dell’impoverimento anche delle classi lavoratrici. È necessario per questo arrivare a un sindacato europeo che chieda salari uguali in tutta Europa, anche se la situazione attuale vede porre un freno a questa ambizione, soprattutto da parte dei sindacati dei paesi più ricchi. Questo comporta che gran parte dei lavoratori vivono la propria quotidianità senza avere uno sguardo sulla dimensione internazionale, che capisca che molte decisioni chiave sono prese oltre i confini nazionali.

Diop è intervenuto anche sulle politiche migratorie e il loro rapporto con il lavoro, a partire dalla legge Bossi-Fini. Questa non è solo una legge sull’immigrazione, ma anche una legge sul lavoro, perché rende più ricattabili i lavoratori migranti e divide quindi i lavoratori: «è necessario che i lavoratori italiani capiscano che i diritti dei migranti sono anche diritti dei lavoratori tutti». Il risultato di questa frammentazione è che diritti conquistati dalle generazioni precedenti stanno venendo erosi, si pensi all’Articolo 18.

A seguire è intervenuto Simone Ogno di Re:Common. « Il G20 come gli altri grandi vertici, è un evento a porte chiuse dove si prendono decisioni determinanti sulle nostre vite. Ci sono però dei gruppi che influenzano ciò che viene deciso in tali segrete stanze. Uno di questi è il B20, gruppo delle principali corporation e gruppi finanziari, al momento presieduto dalla Marcegaglia, di cui fanno parte anche ENI e SNAM».

Ogno ha sottolineato come ci sia anche una finanza privata ed estrattivista che fa leva su quella pubblica, con un processo di cattura dello Stato. Ad esempio, con il Programma Garanzie Italia sono state “consegnate le chiavi del paese” alle banche tra cui Intesa San Paolo, che è una grande finanziatrice di progetti tutt’altro che sostenibili. I soldi sono andati alla grande industria fossile, a quella degli armamenti e alle aziende che si occupano della costruzione di grande opere. Viene usata l’espressione “finanza fossile” perché almeno dalla nascita dell’OPEC, negli anni ’70, la finanza è stata un elemento chiave dell’economia fossile e oggi lo si vede con la promozione delle infrastrutture per il gas.

Oggi che si parla di energie rinnovabili la finanza privata è in prima fila per intervenire.  Quando si parla di rinnovabili bisogna distinguere tra forme insostenibili e forme autenticamente sostenibili. Se usiamo fonti rinnovabili nell’ambito dello stesso sistema i problemi probabilmente rimarranno. Circa il 60% del mercato bancario italiano è in mano  a  cinque soggetti, questa concentrazione è stata incentivata dalla BCE. Questi, sono grandi gruppi di potere con grande influenza sia sul settore pubblico che su quello privato. È stato individuato Intesa San Paolo come il gruppo più problematico per i finanziamenti al combustibile fossile, ma anche agli armamenti e alle grandi infrastrutture. Sono stati circa 45 miliardi di euro quelli che sono passati dalla banca torinese all’industria fossile negli ultimi anni. Quest’ultima fa dunque da stampella al modello estrattivista, estraendo valore dai territori e dalle persone che li abitano.

Il legame tra finanza pubblica e privata è sempre più stretto. La Sace, che fa capo al ministero del tesoro, è l’esempio più chiaro. Essa pone una garanzia contro rischi sociali e politici per aziende che vogliono investire all’estero in contesti sensibili. Ma questi soldi pur venendo dallo Stato passano per le casse delle banche private, in particolare Intesa San Paolo. Questo è emerso chiaramente nel Mozambico, nell’Artico Russo, ecc.

Una delle ultime esternazioni di Carlo Messina, come amministratore delegato di Intesa San Paolo, ha chiarito come il gruppo finanzierà con X miliardi di euro progetti di imprese private nell’ambito del Recovery Plan. Ci sono già pronti 150 miliardi per progetti di legati al gas. Nel corso del G20 si entrerà nel merito di ciò che sarà da considerarsi investimento sostenibile;  queste lobby tenteranno di far classificare il gas come una risorsa sostenibile.

Nel corso delle  mobilitazioni per la giustizia climatica è emerso come le grandi aziende temano il danno d’immagine, quindi il lavoro da portare avanti è quello di portar fuori dal cono d’ombra questi processi decisionali. Per centrare l’obiettivo bisogna creare un terreno  a noi più favorevole, altrimenti l’orizzonte di devastazione che ci aspetta non è qualcosa di un futuro lontano ma è già da considerarsi un’azione presente.

Nel finale, è stata toccata la questione antispecista che negli ultimi anni è emersa in battaglie intersezionali proprio perché ci sono grandi interessi economici e finanziari legati all’estrazione di valore della cosiddetta “natura a buon mercato”, all’interno della quale esiste tutta la vita non umana.

Per Paola Canonico (Assemblea Antispecista) portare l’antispecismo negli ambienti radicali di sinistra è un duro lavoro, in particolare quando si parla di questioni economiche. In realtà l’antispecismo non è una lezione di vita, ma la sua ossatura è anticapitalista e completa i percorsi femministi, ecologisti e quelli sul reddito. La lotta contro il capitalismo non può essere completa se non si afferma anche all’interno della seconda industria al mondo in termini di profitto, quella alimentare e zootecnica.

«Non esiste vita più mercificata di quella degli animali non umani. Nei mattatoi, ad esempio,  si consuma il processo capitalista e non dimentichiamo che il fordismo stesso nasce dalla catena di montaggio dei mattatoi». Ma in generale è l’intera produzione di carne e derivati che fa diventare animali umani  e non umani allo stesso tempo carnefici e vittime di questo sistema di profitto, distruggendo habitat e creando spazi per se stessa: ad esempio la deforestazione amazzonica è funzionale alla creazione di nuovi pascoli.

L’industria alimentare e zootecnica concorre anche nei nuovi processi di colonizzazione. L’italiana Inalca Food & Beverage (Creminini Group) sta comprando grandi quantità di terreni in Africa per costruire giganteschi mattatoi, fuori da ogni controllo.

In definitiva, con gli allevamenti, intensivi ed estensivi, che sono la parte fondante di un modello di sviluppo basato su sfruttamento e devastazione della natura si sta creando una situazione sempre più difficile da sostenere, sul piano ambientale, economico, sociale e sanitario. Il salto di specie che ha causato il Covid, e che potrebbe causare tantissime altre sindemie, è solo uno dei tanti esempi di come un sistema specista possa agire sulla vita dell’intero pianeta.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento