Anche quest’anno, durante il pride month, il rainbow washing ci ha travolte, obbligandoci ad assistere ad aziende che tra una discriminazione e un’appropriazione a fini di marketing delle battaglie LGBTQIA+ hanno fatturato sulle nostre battaglie. Il pride month, infatti, è il mese in cui si celebra l’orgoglio della comunità LGBTQIA+ e cade nel mese di Giugno per ricordare i moti di Stonewall. È ancora lunga la strada per il riconoscimento dei diritti della comunità LGBTQIA+, basta vedere quanto sta accadendo al ddl Zan, un disegno di legge che dopo le ingerenze papali, le indispensabili considerazioni in merito di Pikachu, ha dovuto fare i conti anche con il tradimento di Italia Viva, che farà mancare i voti rischiando di far naufragare l’approvazione definitiva del testo. Il nostro paese, però, non arranca soltanto su un piano legislativo – fosse solo questo il problema vivremmo nella base meme della città perfetta – i problemi si pongono anche su un piano culturale e sociale.
A dimostrazione di questo basta guardare all’aumento delle aggressioni omolesbobitransafobiche nelle ultime settimane. Nonostante nel mondo offline ci sia ancora tantissimo da fare e tante lotte da portare avanti, vediamo che sui social media, in particolare Instagram, le questioni di genere vanno per la maggiore. Tant’è che Instagram è arrivato a introdurre la possibilità di inserire sul proprio profilo i pronomi con cui ci si identifica, quindi lui, lei o loro, per rendere chiara la propria identità di genere. Ovviamente anche online non è tutto rosa e fiori, infatti, nell’ultimo report dell’Unione Europea sul codice di condotta dei social network è emerso che nella mappatura dei discorsi di odio rilevati, il 33% di questi riguardi proprio l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Nonostante le discriminazioni proseguano, sia online che offline, la comunità LGBTQIA+ e ally ormai è diventata un vero e proprio target per le aziende, che dal 1 Giugno al 1 Luglio ci bombardano con le loro tazze rainbow, spillette rainbow, calzini rainbow, caselibriautoviaggifoglidigior-nale rainbow.
Proprio per questo si parla di rainbow washing e se non capite se questo rainbow washing è fisicamente qualcosa questo è lo spiegone che fa per voi.
E allora, e come sempre, facciamo un passo indietro:
Per arrivare a capire cos’è il rainbow washing dobbiamo prima di tutto avere idea di cosa significhi target nel marketing. Il termine inglese “target” può essere tradotto in italiano come “bersaglio” o “scopo” e può assumere due diverse accezioni. La prima, come riportato da Treccani, riguarda «l’obiettivo che un’azienda si propone di raggiungere» in termini quantitativi, ossia obiettivi del business come le vendite o l’espansione della fetta di mercato, per esempio. La seconda accezione che può assumere è il cosiddetto “target di riferimento”, ossia un termine che viene utilizzato, soprattutto in ambito pubblicitario, per riferirsi a gruppi di consumatori a cui l’azienda intende rivolgersi, quindi persone a cui vuole vendere i propri prodotti o servizi. Il meccanismo è quello per cui il messaggio che l’azienda intende mandare è sviluppato per rispondere alle caratteristiche di quel pubblico. Considerando che i social media, stanno progressivamente soppiantando, in tutto, i media tradizionali, questi sono diventati il nuovo spazio privilegiato anche per la pubblicità. In questo senso, allora, avere una profonda conoscenza del proprio target di riferimento su queste piattaforme, nello specifico Instagram, sarà un aspetto indispensabile per una strategia di marketing che sia vincente; questo perché se non si sa cosa incuriosisce e motiva i follower, che contestualmente sono anche potenziali consumatori e consumatrici, si avrà difficoltà a produrre contenuti adeguati per coinvolgerli.
Fatte queste premesse vediamo cos’è il rainbow washing. Vista la crescita di questa sensibilità, in particolare su Instagram, verso i diritti della comunità LGBTQIA+, anche da parte di chi non appartiene direttamente a quella comunità ma è un* ally, ossia un* alleat*, sempre più aziende si sono rese conto del fatto che fosse necessario inserire questi temi nella propria strategia comunicativa. In questo contesto specifico, stiamo parlando di rainbow washing, ma questa strategia di “lavaggio” può essere associata ad altri temi, per questo motivo è spesso il termine è associato a parole come “green” (ambiente), “pink” (donne), purple (empowerment femminile) o “social” (questioni sociali).
Ma in cosa si concretizza il washing? Quando parliamo di washing intendiamo un meccanismo per cui le aziende si prodigano in campagne di sensibilizzazione su un determinato tema, attenzione però, perché parliamo di campagne che non mirano a nessun obiettivo concreto e che, il più delle volte, non trovano il minimo riscontro nella condotta dell’azienda. Non si tratta soltanto di campagne e di comunicazione, ma anche di prodotti e di packaging. Complessivamente l’obiettivo è quello di migliorare la propria immagine e vendere di più, non serve che l’azienda adotti effettivamente degli accorgimenti per migliorarsi su quel tema.
Chiarito cosa sia il washing, quando parliamo di rainbow washing semplicemente ci riferiamo a quel fenomeno per cui le aziende, specialmente durante il pride month, compiono le azioni appena descritte ma declinate sul tema delle lotte portate avanti dalla comunità LGBTQIA+.
“Vabbè ma se comunque aiutano a smuovere l’opinione pubblica che problema c’è?”
Il punto è che l’obiettivo di queste aziende non è minimamente cambiare l’esistente, ad esempio devolvendo parte dei loro profitti in beneficenza o cambiando le proprie politiche aziendali, ma si limitano ad appropriarsi di una lotta mettendo a reddito le rivendicazioni di queste soggettività oppresse. In realtà esiste un vero e proprio business dietro l’arcobaleno – di cui, a dirla tutta, esiste una variante più inclusiva a 11 colori, con triangolo giallo e cerchio viola, che cerca di rappresentare tutte le persone oppresse, comprese quelle razzializzate, solo che non viene usata in quanto meno riconoscibile, difficilmente adattabile ai loghi aziendali e sicuramente meno aesthetic. Ma tornando al business dell’arcobaleno vediamo che secondo Forbes, nel 2019, gli adulti appartenenti alla comunità LGBTQIA+ avevano un potere d’acquisto pari a 3,7 trilioni di dollari; inoltre il 70% delle persone appartenenti a questa comunità ha ammesso di essere positivamente influenzata nei suoi acquisti da campagne pubblicitarie che contengono, cito testualmente, «immagini di gay e lesbiche».
Ma in tutto questo cosa hanno combinato Coca-Cola e Bayer?
«Coca-Cola sponsor pride di Milano, Napoli e Padova», così titolava un ANSA battuta qualche giorno fa, con cui si annunciava che anche quest’anno Coca-Cola, «conferma il suo impegno per la valorizzazione delle diversità e la promozione dell’inclusione, invitando a celebrare l’amore e a superare ogni divisione». Sempre nell’articolo leggiamo che «il brand, quest’anno, sarà nelle piazze di queste città per sostenere il pride e i valori che rappresenta e insieme supporterà progetti di accoglienza promossi dalle associazioni LBTQI+». A dimostrazione della loro sensibilità sul tema, i gay e le persone asessuali,quelle che stanno per la “G” e per la “A”, non sono state considerate. L’articolo prosegue e Cristina Camilli, la Direttrice (non direttore come dice l’ANSA) Comunicazione Relazioni Istituzionali di Coca-Cola Italia dichiara «Mai come quest’anno è necessario concentrarsi su quello che abbiamo di più bello, festeggiando insieme l’amore che ci unisce e condividendolo con quante più persone possibili, liberi da ogni pregiudizio».
Detto questo non credo sia necessario ricostruire tutte le nefandezze e i crimini che la Coca-Cola ha compiuto per far capire quanto siano ipocrite queste dichiarazioni, basta citare quanto accaduto con i lavoratori e i sindacalisti del Sinaltrainal in Colombia per dare la cifra di quanto questa azienda sia “etica”. Visto, però, che questa vicenda è recentissima, segnalo che è emerso che sulle bottiglie personalizzabili tramite il sito, è possibile scrivere “nazi” o “blue lives matter” (le vite dei poliziotti contano), ma non è possibile scrivere parole come “Palestina” o “Black Lives Matter”. Se si tenta di inserire queste parole appare la scritta “Ops! Pare che la parola da te inserita non sia stata approvata” questo perché Coca-Cola crede che queste parole siano offensive, ma se si inserisce la parola “Israele” va tutto bene, questo non è offensivo.
Non soltanto Coca-Cola, anche la casa farmaceutica Bayer non si è dimostrata da meno. Dall’inizio di Giugno, infatti, dopo aver messo l’arcobaleno sul proprio logo, l’azienda ha sospeso la produzione di Progynova, un farmaco utilizzato per la terapia ormonale sostitutiva a base di estrogeni di persone trans e non binarie, ma anche per la procreazione medicalmente assistita e per le problematiche legate alla menopausa. La sospensione dovrebbe durare fino al 2022 e questo crea un grosso problema se consideriamo che la terapia ormonale sostitutiva deve essere costante, senza interruzioni improvvise e possibilmente usando sempre lo stesso principio attivo. Quindi non solo la Bayer – ma come lei molte altre aziende – non devolve i profitti ad associazioni di categoria aiutando le lotte, ma attivamente ostacola la vita delle persone LGBTQIA+.
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