Nell’estate del 2019 Gabriele Proglio, ricercatore di storia contemporanea, ha iniziato il progetto di storia orale sul G8 di Genova. L’idea è nata dalla volontà di recuperare le memorie di chi ha vissuto quei giorni di lotta e resistenza. Due anni dopo il risultato è stata la pubblicazione del volume: “I fatti di Genova. Una storia orale del G8”.
Siamo qui con Gabriele Proglio, ricercatore di storia contemporanea e autore del libro “I fatti di Genova. Una storia orale del G8”, edito da Donzelli. Abbiamo detto più volte, in questi giorni, come Genova sia, dal punto di vista storiografico, un tabù. I fatti di Genova, però, hanno avuto la potenza di raccogliere tantissime memorie e racconti, sfruttando quelli che sono stati i vari strumenti comunicativi di allora, come la radio. Perché utilizzare la storia orale per raccontare un evento sociale e politico, e poi anche mediatico, come Genova?
I motivi sono legati al tipo di narrazione che sono state prodotte in questi vent’anni, che sono centrate sulla visualità. Il visivo è entrato a costruire un immaginario pubblico dei fatti del G8. Lo ha fatto in due prospettive differenti, ma legate. Da una parte vi è il reducismo, delle persone che si sono trovate a Genova a combattere una battaglia loro malgrado. Non parlo di chi ha praticato azioni dirette, disobbedienza civile o forme di azioni programmate, ma della maggior parte delle altre persone che si trovavano a Genova. Quelle persone hanno vissuto una battaglia. Dall’altra il vittimismo; Todorov, nel suo libro sulla memoria, dice che le vittime possono ricordare solamente come vittime. Questi elementi sono stati centrali per raccontare i fatti di Genova. Le fonti orali sono fondamentali per spostare il piano della narrazione da un racconto unico, che viene declinato per tutti e diffuso in maniera capillare dai mezzi di comunicazione, a un racconto che parte dal basso, che costruisce la fonte nel dialogo, nell’interazione con le soggettività. Cambia molto e in maniera profonda la narrazione del G8. Nel libro ho usato la metafora più forte per la memoria, quella del viaggio, dando tre tempi: la partenza, i giorni di Genova e il ritorno. Si costruisce un intreccio di storie di persone che passano da Genova, ma che hanno dei percorsi precedenti e delle continuazioni.
Rispetto ai racconti che di Genova sono stati fatti, che narrano le tre giornate clou (la prima con il corteo per la libertà di movimento, la seconda con le piazze tematiche, la terza con la manifestazione dopo l’uccisione di Carlo Giuliano), hai scelto di aggiungere due capitoli che sono quelli sulla partenza e sul ritorno da Genova. Come mai questa scelta?
Per la molteplicità dei percorsi che sono iniziati prima di Genova, non solo da febbraio, quando iniziano ad accendersi i riflettori sul vertice, ma anche da prima, ovvero dall’interesse che è portato da Seattle e da tutte le proteste antiglobalizzazione. Queste molteplicità coagulano diversi ideali e diverse pratiche attorno ad un unico modo di lottare e di contrastare la globalizzazione. Quel movimento è legato ad una specificità che è quella dell’evento, i vertici sono presi d’assedio da soggettività diverse che protestano in maniera differente. Ho provato a mettere insieme come queste soggettività hanno inteso la globalizzazione e la lotta alla globalizzazione. Ne è uscito un quadro molto più profondo di come i media li raccontano. Troviamo l’ecofemminismo, le lotte per il lavoro, le lotte per le persone migranti, le questioni dei confini, le lotte dei centri sociali, con le varie forme che contraddistinguono questo contesto, ma anche la singola persona interessata alla lotta alla globalizzazione, che vede una possibilità di costruire un mondo differente. I ritorni segnano uno snodo centrale; il 21 luglio non è una fine. Tutte le persone intervistate leggono Genova come un momento di passaggio dopo il quale è importante riformulare gli ideali che hanno portato in piazza.
Genova è stata caratterizzata anche dalle immagini. Soprattutto nelle giornate del 19 e del 20 le immagini l’hanno fatta da padrone. È la prima volta che quasi in diretta assistiamo a quello che succede. Qual è la potenza delle parole, del racconto, rispetto alla potenza delle immagini?
Questo è un punto centrale. La storia orale è centrata sulla visualità, ma è un altro tipo di visualità rispetto a quella che è diffusa dai media. Leggere come persone differenti hanno tutte percepito qualcosa di comune, spostano il piano e fanno vedere come c’è qualcosa di differente, ovvero ciò che hanno percepito le persone e ciò che le ha unite in piazza. Un esempio concreto è l’elicottero sopra le teste, che tutti riportano, e diventa metafora del controllo da parte della polizia, di una città assediata in zona rossa che è esemplificazione dello squilibrio di poche persone che comandano il mondo, e militarizzano questo spazio. Oppure, il 20 luglio, dopo la morte di Carlo, quando si cerca di elaborare collettivamente il tutto, dopo le assemblee, dopo gli incontri, gli abbracci, i pianti, c’è un’esperienza che tutti e tutte hanno vissuto: il domandarsi “Cosa succederà domani? Ci saranno persone in piazza?”. La potenza delle narrazioni che dicono: “Noi scendiamo in piazza e ci sentiamo marea”, perché si sentiva solo il grande rumore delle persone che hanno riempito le strade, fa capire come resistenza e conflitto sono parole da introdurre nella narrazione di Genova. Sono immagini che fanno capire che c’è qualcosa di più, che riporta alle persone, e non alla narrazione dei fatti unica, la storia di quei giorni. Questo progetto è iniziato con un titolo: La storia siamo noi. Questa storia è la storia che va restituita alle persone che hanno attraversato Genova e le sue piazze, e che in qualche maniera hanno continuato anche dopo Genova.