di Dario Paccino
Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura. Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino, Ombre corte, Verona, 2021, pp. 235, € 20,00
[Torna in libreria il volume di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, pubblicato originariamente nel 1972 da Einaudi, con una nuova edizione curata da Ombre corte che, nella scheda di presentazione, ricorda come alla sua uscita il testo accogliesse «quelle istanze sociali che dagli anni Sessanta cominciavano a denunciare con forza il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Al centro del lavoro di Paccino vi è la dimostrazione che il rispetto dell’uomo e della natura è strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo capitalistico, con un’economia di mercato che produce a prezzi sempre più bassi beni di consumo sempre meno utili e con una obsolescenza programmaticamente sempre più breve. Denunciando la contraddizione fra l’apparente e improvviso amore per l’ecologia dei paesi ricchi e industriali, esploso nei primi anni Settanta, e i devastanti inquinamenti, guerre, distruzione delle foreste – inevitabili conseguenze del successo economico dei ricchi e che colpiva e rendeva più poveri i due miliardi di abitanti poveri del pianeta –, Paccino ribadiva con forza che l’ecologia pensata e tradotta politicamente senza aver presenti i rapporti di produzione e di forza sociali, rappresentava ipso facto un imbroglio. È quest’uso ideologico e mistificato della natura che l’autore contesta e problematizza in tutto il suo lavoro teorico e militante, cercando di mettere al centro del dibattito i rapporti di potere ed i meccanismi socio-economici che determinano lo squilibrio, con l’obiettivo di dare vita a una ecologia conflittuale finalizzata a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura. Non c’è dubbio che quanto era già chiaro cinquant’anni fa, oggi appaia ancora più drammaticamente evidente, in epoca di pandemie, riscaldamento globale e sfruttamento illimitato delle fonti energetiche» – Dalla scheda di presentazione di Ombre corte].
Dario Paccino (1918-2005), partigiano nella Resistenza, è stato giornalista e saggista oltre che militante del movimento antinuclearista, anche attraverso la direzione delle rivista Rossovivo. Tra le sue numerose pubblicazione ricordiamo: Arrivano i nostri (1956); I colonnelli verdi e la fine della storia (1990); L’ombra di Confucio. Uomo e natura in Cina (1976); La guerra chiamata pace (1992); Gli invendibili (1994). È stato responsabile del periodico Natura e Società.
[Di seguito si pubblica un saggio sulle tematiche trattate dal libro scritto da Dario Paccino per la rivista Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996. I riferimenti al testo riguardano ovviamente la sua prima edizione – ght]
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Naturalismo verde fine millennio
di Dario Paccino
Ovvio, a prima vista, l’attributo di naturalista a chi si qualifica come verde. Ovvio infatti lo è, ma non nel senso che suggerisce l’aggettivo naturalista in connubio col verde (col suo rappresentarsi la vita, il suo mestiere di ambientalista).
Ogni parola, si sa, è un poliedro, sicché immancabilmente necessita – nel discorso scientifico – un’indicazione preliminare circa il lato del poliedro prescelto.
Sia consentito in questo caso, nell’intento di fornire l’indicazione richiesta, un richiamo all’Imbroglio ecologico, nel quale si esplicita, fin dalle prime battute, l’intenzionalità liquidatoria del naturalismo ambientalistico, che per altro nel ‘72 – quando uscì il libro – ancora non s’era degradato all’attuale trasformismo politico.
L’Imbroglio apre con un’Avvertenza scandita in quattro brevi capoversi, di cui il primo così articolato: “Questo libro è dedicato a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitat, che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: gli operai delle fabbriche e dei cantieri”.
Assunto dell’opera, si dichiara nel capoverso che segue “la proposta di mettere l’ecologia con i piedi sulla terra, la terra che tutti gli uomini, e perciò anche delle loro verità e ideologie: il sistema dei rapporti di produzione. E ciò in polemica sia con gli ecologi che si librano al di sopra delle parti, sia con quei materialisti storici che accolgono la riduzione idealistica della storia naturale alla storia umana”.
Pretesto della documentazione, tendono ad allargare il discorso sulla parzialità della scienza e sul disarmo teoretico di quei materialisti storici – ufficiali e no – che lasciano la natura agli scienziati”.
1. Non casualmente quel primo capitolo, che può essere saltato da chi “sappia tutto di ecologia”, ha come titolo Storia naturale, e si prende – fra testo e note – 24 pagine del libro. Ciò per spiegare come ecologia altro non sia che un ramo della storia naturale, inconcepibile astraendo dall’uomo, che è sì natura come tutti gli altri viventi, ma anche altro dal momento che ha coscienza della natura e di sé, e produce – attraverso un incessante ricambio organico con la natura – le proprie condizioni di vita, fondate sulla triade lavoro-guerra-discorso, donde il concretarsi e fluire della storia sociale. Storia che, in quanto tale, diviene incessantemente altra col divenire incessantemente altreo di uomo e natura, da lui senza tregua trasformata per le proprie esigenze di sopravvivenza materiale e di elaborazione culturale.
Puntuali, in proposito, i due capoversi finali di quel primo capitolo (p.25): “Vita, uomo, ecc., risultano (…) concetti astratti, oltre che nel discorso logico, anche in natura, dove vita è in realtà vita-ambiente, uomo è in realtà l’insieme degli uomini e degli elementi biotici e abiotici che consente agli stessi uomini di vivere, generare, stabilire rapporti di produzione”.
“Astratte, conseguentemente, sono biologia (che ci dà uno spaccato della vita tanto opportuno per l’apprendimento scientifico, quanto inadeguato per la conoscenza dei nessi ambientali) ed ecologia (che considera prevalentemente l’ambiente). Solo con la ricerca bioecologica (storia naturale) si può conoscere la natura vivente, fatta di inerte, organismi, ecosistemi. Senza peraltro trascurare storia umana, economia politica, sociologia, se si hanno di mira uomini ed ecosistemi, che non possono più identificarsi, dopo millenni di civiltà, con quelli della storia naturale”.
2. Biasimevole imbroglio, dunque, il naturalismo ambientalista alla luce di un marxismo critico anni settanta (che cercai di far mio nella redazione dell’Imbroglio), e che non può, non deve più essere quello di oggi, ma col quale non può non avere in comune il paradigmatico “umanesimo” marxiano riflesso nel concetto “uomo radice dell’uomo”.
Di qui la perdurante validità del dilemma rappresentato nell’imbroglio fra umanesimo nel senso del citato concetto marxiano, e naturalismo ambientalista, lo stesso, nella sostanza, di quello imposto al mondo dal capitalismo a partire dal diciottesimo secolo.
Parole – va da sé – che richiedono un’esauriente articolazione, che rimandiamo però al paragrafo che segue, premendo qui rilevare come, per focalizzare il biasimevole naturalismo verse, si possa partire, oltre che dall’umanesimo marxiano, anche dall’universo teologico del cristianesimo.
Esemplare, in questo caso, il testo del teologo Chrisstoph Turcke, Quanto è morale la difesa dell’ambiente?, pubblicato in Germania nel 1985, e tradotto in Italia (pp. 52-58 in Violenza e tabù, Garzanti editore) sei anni dopo.
Coerentemente con quanto dovrebbe essere di rigore nel discorso scientifico (e cioè quel che si è già rilevato: precisare preliminarmente il lato prescelto del “poliedro”), il Turcke dice di voler “chiarire subito quale sia la vera origine del concetto ‘ambiente’”. Esso, scrive, “proviene dalla biologia e indica il limitato ambito vitale di cui un organismo ha solitamente bisogno per conservare se stesso e la propria specie”.
Nel caso dell’uomo, però, l’ambiente è il pianeta, oltre che da un punto di vista naturale, anche sociale, visto che nell’epoca moderna il mondo antropologicamente abitato “è stato reso un tutto articolato dal colonialismo europeo che, nel corso della sottomissione pianificata del cosiddetto Terzo Mondo, ha tessuto intorno al globo una rete di commerci, cultura e sfruttamento, e ha così finito per rendere gli essere umani cittadini del mondo, creando un mercato universale del quale da allora siamo dipendenti. E mentre diventa sempre più chiaro che è soltanto questa interrelazione mondiale costruita negli ultimi secoli che minaccia prima o poi di spezzarsi, tutto il mondo parla di ambiente minacciato”.
Una semplice “trascuratezza di linguaggio, priva di importanza?”
In realtà trattasi di una “trascuratezza dalla quale si può desumere che gli uomini, che non sono padroni del proprio linguaggio, non lo saranno neppure delle proprie condizioni di vita. Se per definire un problema globale, del quale sono responsabili unicamente un determinato modo di produzione e un preciso tipo di economia, viene impiegato un concetto che appartiene al regno animale e vegetale, già nella scelta di questo vocabolo si nasconde una manovra diversiva”.
C’è di più. C’è il fatto che, grazie all’ambiguità linguistica del temine ambiente, non si considera natura quella “modificata dall’uomo”. Si “distilla” così il concetto, “finché diventi così puro come lo vuole l’uso linguistico odierno”.
Il risultato allora è che “l’ambiente è un contesto naturale fatto di acqua pura, ricche materie nutritive tratte dalla terra e grande varietà di piante e animali, che costituì un pacifico equilibrio biologico fino al momento in cui la grande industria vi portò lo scompiglio”.
“Così, non potendosi riesumare l’era preindustriale, e apparendo del tutto utopistico voler comandare a chi decide della produzione, si richiede “un mutamento sostanziale del modo di pensare, un cambiamento radicale nel rapporto con la natura”.
Si richiede “una nuova etica ecologica”, fondata su questi principi: a) rispetto per la vita, b) considerazione preventiva dei rischi e coscienziosa valutazione dei vantaggi e dei danni in caso di interventi umani in natura”.
Il secondo di questi principi “non riguarda affatto la morale: richiede solo un calcolo dei costi e degli utili (…). Quanto all’altro, all’apparenza lo è molto (morale, ndr), in quanto per rispetto per la vita non si intende solo quello per la vita umana: ogni vita dovrebbe essere considerata sacra”.
È Albert Schweitzer, osserva Turcke, “che rese popolare questa concezione”, senza però prenderla tanto sul serio, se è andato nella foresta vergine a Lambarenè per pianificare l’annientamento della vita di innumerevoli agenti patogeni”. Sicché “in quanto medico ha dato alla vita umana quella precedenza che le negava come moralista. Ha agito in modo umano, non restando fedele alla propria morale”.
Donde la conclusione che “prendere in parola il rispetto per la vita significa da un lato morte sicura (…); dall’altro significa lasciare tutto com’è: anche quella di chi vegeta nella fame e nella miseria è vita, e quindi sacra. E alla fine significa puro egoismo, in quanto si vuole sacra anche la propria vita. In tal modo questo tipo di etica rende impossibile ciò che essa stessa postula, e si annulla da sé”.
Parole apparentemente più grevi di macigni, ma che rispecchiano in realtà quell’istanza materialistica donde è necessario muovere mirandosi ad un’autentica conciliazione di uomo e uomo e uomo e natura, istanza che è tanto del razionalista Spinoza (che irrideva la fede nei miracoli in ragione della ferrea materialità della legge naturale) quanto del materialismo dialettico di Marx (sarcastico schernitore d’ogni filantropismo compatibile col naturalismo capitalistico).
Si richiede, osserva infatti a questo punto Turcke, “una maggiore connessione degli uomini con tutti gli altri esseri viventi, cose se la storia umana non ne avesse mostrata abbastanza, cose se gli uomini non avessero trattato reciprocamente se stessi e anche la natura in modo bestiale, come se non avessero impiegato contro la natura – quella umana e quella non umana – mezzi desunti dalla natura stessa: come quello spietato e brutale del divorare ed essere divorati (…) quale oggi (…) viene nobilitato attribuendogli il titolo di equilibrio biologico”.
E qui si dispiega la salutare contrapposizione da noi più sopra contraddistinta come umanesimo e naturalismo.
“Il cieco progredire della natura sopra i cadaveri dei suoi figli, che non è assolutamente così pacifico come vorrebbero i propugnatori dell’equilibrio ecologico, scrive infatti Turcke, è stato in passato, per gli antichi, la quintessenza dell’orrore mitico. l’etica dovrebbe sottrarre gli esseri umani a questo orrore. Che non vi sia mai riuscita, non dipende dal fatto che essi fossero troppo poco legati alla natura, ma dal fatto che lo erano troppo. Nel dominio di pochi uomini su molti, dei liberi sugli schiavi, sulle donne e sui bambini, la violenza naturale trova la propria prosecuzione; nelle guerre e nelle carneficine assume dimensioni ignote alla creatura priva di ragione, e in queste circostanze la violenza contro gli esseri umani è sempre stata accoppiata a quella contro il resto della natura. Gli abusi che si commettono sulle creature sono soltanto il rovescio della sottomissione alla natura della società umana”.
Si deve al mistificante concetto di ambiente dei verdi, se si è ormai così volenterosamente soggetti al dominio della natura, da ritenersi apodittica la mancanza di alternative al naturalismo, sicché “le leggi del mercato mondiale passano come leggi di natura in modo cieco e spietato sopra tutto ciò che è loro sottomesso; che ancora esse abbiano reso necessità economica l’avvelenamento delle acque, l’inquinamento dell’aria e lo sterminio degli animali allo stesso modo delle crisi di mercato, della disoccupazione di massa e della catastrofe della fame…”
Quel che i Verdi lamentano è che “gli esseri umani stanno per distruggere la natura, quando invece stanno in realtà sottomettendosi ad essa, in quanto stanno per estinguere se stessi e produrre un equilibrio naturale fatto di acque marine, paesaggio lunare e forse qualche ameba…” Il tutto non già per un ineludibile operare di industria e tecnica, non essendo problema industriale e tecnico “quello di impedire che il petrolio si disperda in mare, le automobili scarichino gas, e che gli esseri umani vengano rovinati alla catena di montaggio. La concorrenza costringe a calcolare ciò che è più vantaggioso, e in tale calcolo le materie prime, la forza-lavoro e gli acquirenti sono ridotti a meri numeri. È la concorrenza economica (la naturalistica guerra di tutti contro tutti, ndr) che costringe ad un costante logoramento di cose ed esseri viventi per mantenere attiva la macchina della produzione, che non può procedere senza continuare a gonfiarsi, ma che minaccia di morte tutte le creature appena non sia in grado di correre o si fermi. Un capitalismo senza plusvalore è come un cattolicesimo senza papa”.
Sicché “la morale della difesa dell’ambiente è fondamentalmente d’accordo con il corso attuale (il naturalismo capitalistico, ndr) del mondo. (…) Il nuovo rapporto con la natura di cui tanto parla (l’ambientalismo verde, ndr), potrebbe instaurarsi soltanto se venisse intrapreso qualcosa di serio contro la sottomissione della società umana alla natura”.
3. Qualcosa di serio, in buona sostanza, per l’abrogazione della produzione capitalistica, che segna l’avvento del naturalismo della modernità, la cui fenomenologia digiungla a dimensione planetaria è irrefutabilmente dimostrata dal grafico che va sotto il nome di Coppa di Champagne.
Grafico di cui ha la paternità la sezione delle Nazioni Unite per lo sviluppo, che ha condotto una ricerca, a livello mondiale, sulla distribuzione del reddito.
Grafico, riprodotto in Cuba e la ragione cinica di Heinz Dieterich (la piccola Editrice, Cellano, 1994), che raffigura stilizzata una coppa con un gambo che si va via stringendo dall’alto al basso.
Nel concavo della coppa figura il reddito del 20% della popolazione mondiale più ricca: nel gambo si indicano via via (un 20% dopo l’altro) i restanti quattro quinti. dal che risulta che il 20% della popolazione più ricca dispone dell’82,7% del reddito mondiale, mentre al 20% più povero tocca l’1,4. Fra il concavo della coppa e la fascia più bassa, il primo dei tre quinti incamera l’11,7%, il secondo il 2,3, il terzo l’1,9.
Percentuali che danno ragione ben al di là di quanto immaginasse a Karl Polanyi della grande trasformazione.
Polanyi, esule ungherese rifugiato a Londra nel 1933 dopo l’avvento di Hitler al potere, pur attingendo all’opera di Marx, ne prese le distanze in conseguenza della propria concezione storiografica, nella quale non c’era posto per la dialettica nei processi della storia, donde l’assurdità, ai suoi occhi, di pensare che dal male del capitalismo possa venire il bene della futura liberazione dell’umanità: il marxiano passaggio dal regno della necessità naturalistica del capitalismo al regno della libertà dell’uomo radice dell’uomo.
La grande trasformazione vide la luce a Londra nel 1944, e fu poi tradotta dall’Einaudi trent’anni dopo con aggiunta del sottotitolo Le origini economiche e politiche della nostra epoca.
Occupava la scena del mondo, nel ‘44, la seconda guerra mondiale con i suoi due fronti contrapposti fascista e antifascista, quest’ultimo sostituitosi dopo che l’Urss aveva arrestato, nell’inverno ‘41 – ‘42, quella che era stata fino a quel momento l’invincibile armata tedesca. Ed è dunque più che naturale che Polanyi abbia cercato di spiegare, alla luce del passato, il fenomeno fascista, specie quello in veste nazista, ch’era il nemico da battere.
“Per capire il fascismo tedesco, scriveva Polanyi (p. 39, ed. italiana), dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana”, l’Inghilterra della “economia classica” di Ricardo, appunto, e di Adam Smith, fondamentali teorizzatori della “società di mercato”, nata in Inghilterra con l’affermarsi del capitalismo.
Sempre, nel corso storico, prima del capitalismo, i mercati, rammentava Polanyi, erano stati “un elemento accessorio del sistema sociale regolato e controllato dall’autorità politico-amministrativa”. È quando il capitalismo s’impone, dapprima con l’accumulazione originaria frutto di un’espropriazione su scala mondiale che può ben dirsi nazista ante litteram, e poi con la rivoluzione che ha spalancato le porte al moderno, che il mercato diventa centrale, sicché tutto ha un prezzo, compresi “uomo, terra (la natura, ndr), moneta”.
Come dunque pensare, se questa è l’origine del capitalismo, che la società di mercato possa mai produrre effetti benefici? Non era il fascismo, nella Germania sconfitta della prima guerra mondiale, frutto dell’estrema violenza di un capitalismo come quello tedesco, proteso alla rivincita per ridare alla Germania il ruolo di potenza egemone nel continente europeo?
D’altra parte, se la centralità del mercato tutto riduce a merce, uomo e natura compresi, come non dedurne che il capitalismo, oltre che come promotore di guerra permanente, opera pure come processo distruttivo del sistema socio-naturale?
“Permattere al meccanismo di mercato (Polanyi, pp.94-95), di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale, e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto, porterebbe alla demolizione della società. la presunta merce ‘forza lavoro’ non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano, che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre (come avviene attualmente nell’universo della “flessibilità”, ndr) della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale ‘uomo’ che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali (come avviene nella presente “mondializzazione”, ndr), gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione”.
Quanto alla natura “essa verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta. Infine, l’amministrazione da parte del mercato del potere d’acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrose per il commercio quanto le alluvioni e le siccità nelle società primitive”.
4. La grande trasformazione, s’è visto, è del ‘44. L’anno prima c’era stata, con Stalingrado, la svolta decisiva della guerra, e Roosevelt e Churchill s’erano affrettati a Teheran (novembre-dicembre) per incontrarsi con Stalin col quale firmare il comunicato (1 dicembre ‘43) nel quale è detto fra l’altro (Da Teheran a Yalta, ed. Riuniti, 1965, pp. 81-82): “La perfetta intesa cui siamo giunti è sicura garanzia che la vittoria sarà nostra. Nei riguardi della pace, abbiamo la certezza che la nostra concordia la farà durevole”.
Dopo aver garantito che “i nostri attacchi non conosceranno tregua e andranno aumentando d’intensità”, Churchill, Roosevelt e Stalin, firmatari del Documento, annunciamo al mondo: “Alla fine di questi nostri cordiali colloqui, guardiamo con fiducia al giorno in cui tutti i popoli della Terra potranno vivere una vita libera, non oppressa da tirannide e conforme ai desideri e alla coscienza di ciascuno”.
Il compimento dei minacciati attacchi alleati, che non conosceranno tregua, e andranno aumentando d’intensità, si concretò l’anno seguente con i due eventi che non lasceranno sussistere dubbio alcuno circa la disfatta tedesca: lo sbarco in Normandia e l’inizio dell’offensiva sovietica che avrebbe portato l’Armata Rossa a Berlino (rispettivamente 6 e 23 giugno 1944).
È in questa atmosfera di sicura vittoria sull’imperialismo tedesco e di altrettanto sicuro sradicamento del fascismo dal mondo, che l’11 febbraio ‘45 sarà firmato da Churchill, Roosevelt e Stalin il Comunicato di Yalta (pp.189-196), nel quale campeggia la solenne promessa al genere umano di “distruggere il militarismo tedesco e il nazismo, e far sì che la Germania non sia mai più in grado di turbare la pace mondiale”.
Ciò nel quadro di “una organizzazione generale internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza”. In particolare, per quanto concerne il nostro continente, si dichiarava “La fondazione dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale (dei vari paesi, ndr) devono essere perseguite mediante procedimenti che mettano in condizione i popoli liberati di distruggere le ultime vestigia di nazismo e di fascismo, e di creare istituzioni democratiche di loro propria scelta”.
Scopo dichiarato dei tre firmatari: “Un ordine mondiale retto dalla legge e rivolto alla pace, alla sicurezza, alla libertà e al benessere generale del genere umano”.
In conclusione (i due capoversi finali): “Solo attraverso una continua e sempre maggiore collaborazione e comprensione tra i nostri tre grandi paesi e tra tutte le nazioni amanti della pace si potrà realizzare la più alta aspirazione dell’umanità: una pace sicura e duratura che, secondo le parole della Carta atlantica “garantisca a tutti gli uomini di tutti i paesi di vivere liberi dal timore e dal bisogno”.
“Si ritiene che la vittoria in questa guerra e la costituzione della progettata organizzazione internazionale creerà la maggiore opportunità che si sia mai avuta di creare negli anni futuri le condizioni essenziali della pace”.
5. È in questa temperie che Polanyi, pur cogliendo l’essenziale verità dell’essere il fascismo generato dal capitalismo, si illuse che si trattasse di parto non inevitabile.
Non combattevano “democrazie” e “comunismo” la stessa guerra contro il mostro nazista, assicurandone l’irreversibile estinzione? E non si impegnavano per una pace di compromesso fra “libero mercato” capitalista ed economia dirigista sovietica?
E’ il teologo Leonardo Boff che rileva, ai nostri giorni, che quel dirigismo, qualunque sia la valutazione che par giusto darne circa la sua natura (socialismo, capitalismo di stato, ecc.), ha realizzato, in Urss e nei paesi del “Terzo mondo” nei quali s’è affermato, la “rivoluzione della fame”, lo scorporo dal mercato dei bisogni primari dell’uomo, cosa che il capitalismo non potrà mai fare, anche se, per assurda ipotesi, se lo proponesse.
Non si può dire, naturalmente, se Polanyi avrebbe condiviso questo giudizio di Leonardo Boff. Certo, in ogni caso, che non può non aver influito sul suo pensiero la prospettiva d’una pace di compromesso fra la giungla “democratica” del mercato e l’”umanesimo” sociale sovietico concernente i bisogni primari della comunità. Donde la liceità, per cosìdire, della sua illusione circa la non inevitabilità della filiazione del fascismo dalla matrice capitalistica.
Non si illuse invece sulla fondatezza di quel compromesso Klaus Fuchs, figlio, informa Robert Jungk (Gli apprendisti stregoni, Einaudi, 1958, pag. 196) “di un pastore evangelico tedesco (esule in Inghilterra, ndr) che si professava quacchero socialista religioso”. Fisico nucleare, era considerato “uno dei membri più intelligenti del team inglese” (dell’organizzazione tecnico-scientifica del Progetto Manhattan, ndr).
Giunto negli Usa alla fine del 1943, e a Los Alamos (dove si lavorava alla megabomba) nel dicembre 1944, “aveva stretto molte amicizie, e col suo modo di fare quanto mai timido aiutava come poteva i suoi colleghi”.
Fu proprio in quel dicembre ‘44 che venne la resa dei conti di scienziati e tecnici del Progetto con la propria coscienza. È in quel mese infatti che il fisico di Liverpool Joseph Rotblat fece le valigie tornando in Inghilterra.
Era stato Einstein a garantire a Roosevelt, in forza della propria autorità scientifica, il “miracolo” di una bomba contro la quale non si dà difesa, determinando la scissione dell’atomo. L’aveva fatto (un suggerimento del fisico ungherese Leo Szilard) per il timore che gli scienziati tedeschi, rimasti in patria nonostante l’avvento al potere di Hitler, stessero preparando l’arma che avrebbe permesso al nazismo di impadronirsi del mondo.
Quando però alla fine del ‘44, l’intelligence americana poté accertare senza ombra di dubbio che la Germania non stava costruendo la bomba, si impose a scienziati e tecnici il che fare in coerenza con i propri principi morali.
L’unico a decidere lì per lì fu Joseph Rotblat, che oggi, ottantacinquenne, motiva la propria scelta dichiarando: a) d’aver appreso che lo scopo del Progetto era di “sottomettere i russi”, b) d’aver sempre pensato che la scienza “debba lavorare per il benessere dell’uomo, e non per la sua distruzione” (Repubblica, 21-6-95).
(Inciso che non par esagerato definire pedagogico: due mesi prima, il 21 aprile, l’Unità aveva stimato opportuno pubblicare un’intervista di De Felice a Norberto Bobbio, che, alla domanda dell’intervistatore se lui l’avrebbe buttata la bomba su Hiroshima, aveva risposto: “Probabilmente sì. Gli americani furono costretti a costruire una bomba atomica e a buttarla”).
Invece, Klaus Fuchs, altrettanto “umanista” di Rotblat, ma più politico di lui, restò presenziando (per lo più in silenzio) al dibattito nel quale si affrontavano tre correnti: a) quella dell’estremista (“ipernaturalista”) Edward Teller, deciso fin da allora a passare, una volta realizzata la bomba con la scissione, a una incomparabilmente più distruttiva, risultante dalla fusione nucleare; b) quella moderata di Leo Szilard, che si rivolse nuovamente a Einstein per convincerlo a spiegare, in una lettera a Roosevelt che, dileguatasi la paventata prospettiva dell’atomica tedesca, l’eventuale uso dell’atomica americana avrebbe aperto un’apocalittica corsa agli armamenti atomici, non potendosi pensare che l’Urss non avrebbe a sua volta realizzato questo strumento di sterminio irreversibile; c) quella opportunista di Oppenheimer, prono, con Fermi e gli altri suoi pari (la grande maggioranza di scienziati e tecnici), ai voleri dell’esecutivo.
Esecutivo che il 12 aprile ‘45 cessò di essere impersonato da Roosevelt, morto improvvisamente, sicché le due lettere (quella di Einstein e quella di accompagnamento di Szilard) “giacevano ancora inevase sulla sua scrivania” quando Truman gli succedette alla Casa Bianca (p.188).
Invano Szilard cercò di avvicinare Truman, dovendo infine accontentarsi di parlare con un suo collaboratore, James Byrnes, esponente del partito democratico al potere, che, ascoltato l’autorevole postulante “con la cordialità ‘routiniere’, cole l’hanno innata i politici di professione”, commentò “Non sarà che lei si preoccupa troppo senza motivo? A quel che so io, in Russia non esiste uranio”. (p.189).
Così Fuchs, al corrente come Rotblat, che il vero obiettivo della superbomba era la Russia, con minaccia di mortale pregiudizio, in ragione delle contaminazioni, per un’area ben più vasta (comprensiva fra l’altro del nostro continente), non vide alternativa all’applicazione dell’aurea massima naturalistica della realpolitik: essere l’equilibrio militare necessari, anche se non sufficiente, per garantire la pace.
Massima che fece propria nell’unico modo che gli era possibile: “Rivelando all’agente sovietico Raymond (…) tutto quel che sapeva della bomba atomica”. (p. 196)
Impossibile dire, per quanto ne sappiamo, se questa rivelazione sia giunta ai sovietici come informazione determinante per la costruzione della propria superbomba, o se invece, come pare, stessero già costruendola dal momento che passarono solo quattro anni da Hiroshima all’esplosiaone dell’atomica “rossa”, e che arrivarono prima di Teller alla bomba nucleare.
Più che probabile comunque che le motivazioni di Klaus Fuchs siano riflesse in queste parole del padre (pp. 197-198):
“Mi rendo conto del suo (di Klaus, ndr) grande sgomento dal momento in cui s’accorse di lavorare alla bomba (destinata alla Russia, ndr). Se avesse detto ‘Non ci sto’, tutto il pericolo sarebbe continuato a incombere sull’umanità. Così trovò la via d’uscita da una situazione senza uscite. Né lui, né io abbiamo mai rimproverato al popolo inglese di averlo condannato. Egli sopporta la sua sorte coraggiosamente e decisamente e chiaramente. Secondo la legge inglese è giustamente condannato. ma ci saranno sempre uomini che si macchieranno di una simile colpa e sopporteranno le conseguenze con forza e volontà, pensando di vedere più chiaramente dei potenti che per il momento decidono. Non dovrebbe già essere chiaro che anch’egli ha agito nell’interesse del popolo inglese più chiaramente del suo governo? Ha messo a repentaglio una splendida posizione lautamente pagata e un futuro ancora più splendido. Io non posso che chinarmi rispettosamente dinanzi alla sua decisione…”.
6. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a promuovere nel breve periodo un equilibrio atomico, che ha scongiurato l’annientamento nucleare dell’Unione Sovietica, e, per effetto delle contaminazioni (come può inferirsi da Cernobil), del resto d’Europa, annientamento che era nei piani di Truman e Churchill, perfettamente al corrente che il governo giapponese aveva già chiesto la resa ben prima di Hiroshima, sicché la stessa Hiroshima non può intendersi altrimenti che come minaccia di morte all’alleato sovietico, se Stalin non avesse rinunciato a quanto, in forza dell’epica difesa e controffensiva dell’Armata Rossa, gli era stato riconosciuto a Yalta. Abbia o no contribuito Klaus Fuchs a scongiurare questo disegno (che per altro per Churchill sarebbe stato un suicidio), va preso atto che con Hiroshima e Nagasaki s’è determinata una cesura nella storia del mondo.
La cesura tra il tempo della guerra come calamità “naturale” inidonea ad arrestare il cammino dell’umanità, e il tempo della guerra come sterminismo totale e irreversibile, donde non si vede come non possa non venirne la fine del mondo, sia che l’atomica e lo sviluppo tecnologico militare che ne è conseguito (come s’è visto nel Golfo) valgano a sottomettere ogni antagonista del sistema raffigurato nel grafico della Coppa di Champagne, sia che il livello di scontro (Sud-Nord, Est-Ovest) porti ad un’inarrestabile generalizzarsi del terrorismo che fanno presagire, per un verso, la formula del Pentagono (operante attualmente nei Balcani) “Guerra dal cielo, pace in terra”, e, per l’altro la metodica serie di attentati nella Francia di Chirac, vindice di musuln-bosniaci e fascisti croati nello stesso tempo che dissemina la morte atomica nel Pacifico.
Ciò sul piano militare: l’altra faccia – abbinata con quella sociale – della stessa medaglia, pervenuti come siamo a quella che David Harvey (La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993) definisce “l’accumulazione flessibile”.
L’accumulazione del tempo in cui la disoccupazione, da “fisologica” (operante col cosiddetto esercito di riserva), s’è fatta di massa, su scala planetaria, con la conseguenza di un’organizzazione del lavoro che Harvey chiama del centro e delle due periferie: il centro dato da una sorta di task-force d’élite, garantita e ben remunerata, con una prima periferia costituita dalla truppa, malpagata, comunque con possibilità di accasermamento, e la seconda (la più numerosa) del caporalato (istituzionale e no) e dell’emarginazione, marca di confine tra lavoro legale e criminalità diffusa.
Invendibilità e malvendita, planetaria e irreversibile della forza-lavoro, condizione che costituisce la materialità sociale di quella che, negli Invendibili (Datanews, Roma, 1994) si presenta come la quarta guerra mondiale, dopo le prime due fra il ‘14 e il ‘45, e la terza, “fredda”, conclusa con l’egemonia mondiale degli Stati Uniti.
Quarta guerra esplosa nel ‘90-’91 nel Golfo, e ora in atto nei Balcani in un conflitto che, comunque vada a finire, ridurrà il numero dei “grandi” da sette a due: Usa e Germania, gerente (quest’ultima) di un’Europa in via di libanizzazione, e sottoposta a un’organizzazione del sistema finanziario mondiale in condizioni di teleguidare anche gli Stati più potenti (non importa se di sinistra o di destra), dei quali si avvale come di altrettanti bracci armati nella quotidiana rapina planetaria.
Cosa che Harvey documenta col più scrupoloso screening scientifico, ma che basta avere occhi per coglierne fattezze e operare, a incominciare dal nostro paese, dove il “dilemma” elettorale è ormai fra un centro-sinistra con sponsor la trimurti Agnelli-Cuccia-Bundesbank, e un polo di destra condizionato dalla Fininvest, diversa, politicamente, dalla “galassia nordica” solo perché finanziariamente meno poderosa, e, quanto a cultura, meno “illuminata”.
7. Non dispera tuttavia David Harvey, come si può dedurre dalla parole che seguono: “Anche se la attuali condizioni sono molto diverse sotto svariati aspetti, non è difficile notare come gli elementi e le relazioni invariabili che Marx riteneva fondamentali per ogni modo di produzione capitalistico siano ancora ben evidenti, in molti casi più evidenti che nel passato, sotto la spuma superficiale e l’evanescenza – caratteristiche dell’accumulazione flessibile. E allora l’accumulazione flessibile è semplicemente una versione più vivace della stessa vecchia storia del capitalismo? Questo sarebbe un giudizio troppo semplicistico; vorrebbe dire considerare il capitalismo in modo astorico, come un modo di produzione non dinamico, mentre tutto sembra dimostrare (anche le argomentazioni espresse da Marx) che il capitalismo è una forza costantemente rivoluzionaria nella storia del mondo, una forza che rimodella eternamente il mondo in configurazioni nuove e spesso inattese. l’accumulazione flessibile, quindi, sembra essere quanto meno una nuova configurazione, e perciò è opportuno analizzare le sue manifestazioni, utilizzando, tuttavia, gli strumenti teorici ideati da Marx”.
Parole nelle quali sarebbe bello poter avere assoluta fiducia, se non l’impedissero: a) il fatto che l’accumulazione flessibile avviene nel quadro della quarta guerra mondiale diretta, oltre che contro il Sud e l’Est, anche contro il nostro continente; b) il quadro tracciato dallo stesso Harvey di sussunzione reale del mondo da parte del capitalismo finanziario al punto che oggi non fa più differenza fra destra e sinistra, l’una e l’altra funzionali, quanto ai verdi, al naturalismo del mercato.
Ma allora, si chiederà, come non disperare? E, in tal caso, perché continuare, da parte del sottoscritto, a redigere articoli, saggi, libri?
Quesiti pertinenti in generale, ma non è di questo – nello specifico – che si tratta.
Non è ammissibile, evidentemente, non si dice disperazione, ma semplicemente scoramento sul piano rivendicativo in questo nostro tempo in cui l’espropriazione capitalistica tende – al pari del nazismo – a un utilizzo del lavoro a costo zero. Niente dunque è da tralasciare (sempre che si tenga fede ala propria coerenza) per arrestare, e, possibilmente, capovolgere il processo in atto.
Ma guai se ci si nega alla consapevolezza di trovarci in una situazione analoga a quella che indusse Klaus Fuchs al “tradimento”. Come dire, in concreto, che se veramente si opta per una speranza non semplicemente autogratificante, s’ha da porre a discrimine tra la nostra politica e quella del nemico il più fermo impegno di lotta per liberarci dal naturalismo, umanizzando la natura, nello stesso tempo che si naturalizza noi stessi, prendendo atto del nostro fondamento naturale, donde la necessità del ricambio organico con la natura attraverso un lavoro non più salariato.
Concetto, chiaramente, che esigerebbe un testo ben più diffuso e argomentato del presente sul naturalismo verde fine millennio, che è tanto dei Rambo di Greenpeace quanto dei revenants (fantasmi) “comunisti”, fabulatori di una decisiva riscossa sociale sulla base del concluso accordo elettorale col centrosinistra inteso a “battere la destra”. Evidente però che sarebbero necessari altro tempo, altra carta, nonché appelli alla pazienza dei lettori, donde la necessità di un rinvio – per chi ci sta – a un’altra “puntata”.
Vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe n. 4, 1996