Ambientato in Montana, ma girato in Nuova Zelanda. Collocato nel 1925, ma presentato in anteprima alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia. I principali protagonisti sono uomini e non le figure femminili – spesso “fuori dalla norma” – che ci saremmo aspettate da Jane Champion, che ritorna sul grande schermo dopo 12 anni dal suo ultimo film.
“The power of the dog” si basa sul romanzo di Thomas Savage del 1967, la storia di due fratelli, Benedict Cumberbatch e Jesse Plemons nei panni, rispettivamente, di Phil e George Burbank, allevatori benestanti con personalità, carattere e anche fisici tra i più disparati tra loro.
Uno è elegante, l’altro non si toglie la divisa da rancheros; uno si lava e l’altro no; uno si sposa, con Rose – interpretata da Kirsten Dunst – e immediatamente l’altro esplode in un coacervo di emozioni – rancore, gelosia, disprezzo. E quando entra nella scena un ulteriore personaggio, il figlio di Rose, l’adolescente Peter – a cui presta il volto Kodi Smit-McPhee, attore australiano – ecco che la violenza repressa di Phil comincia a manifestarsi non più solo a sprazzi.
È il west selvaggio ad essere il catalizzatore di tutte le vicende, dove il nuovo – ad esempio, le prime automobili – si incunea nel vecchio – ossia la vita patriarcale dei ruvidi allevatori.
La regista si concentra più nei dettagli, da scovare minuziosamente quasi fosse una caccia al tesoro, che nella trama in sé. C’è una contaminazione di temi e un’attenzione particolare a calarli nel contesto e negli anni in cui è ambientato il “Potere del cane”.
La solitudine è tangibile, tutti i personaggi sono isolati e intrappolati nei propri sentimenti, la maggior parte delle volte in contrasto tra loro che porta i quattro protagonisti a condurre la propria battaglia personale.
Nel riquadro degli anni ’20 le differenze di classe e quelle di genere le fanno da cornice, così c’è Rose che vive di tormenti e sogni, e c’è Phil che maschera la sua voglia di essere completamente libero reprimendo la sua omosessualità, trasformandola in vile machismo e malcelata omofobia.
Ogni personaggio vive un conflitto assordante, dove le pulsioni diventano ossessioni e la felicità appare irraggiungibile.
Jane Champion ha diretto western psicologico di anime perse, che non sanno dove stare ma che sanno cosa desiderano e lo respingono, perché come si legge tra le righe il processo di accettazione – nel Montana post anni ’20 come ai giorni nostri – deve passare in primis da sè stessi e poi dagli altri.