di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni *
Qualcosa si muove. Forse perché a scuole aperte la violenza del lasciapassare è più evidente; o perché le piazze del sabato stanno proseguendo e, pian piano, orientandosi; o per l’effetto epistemologico dell’appello dei docenti universitari; o perché i sindacati di base hanno qualcosa da eccepire; o, ancora, perché i collettivi più lucidi hanno unito i puntini e trovato spaventosa la figura che ne esce.
Ai margini dei parchi e delle piazze dove si ci si ritrova per elaborare collettivamente una critica al presente e scambiarsi strategie di resistenza, si avverte anche altro: l’urgenza di fare i conti con una varietà di esperienze intime che molte e molti – e di certo chi scrive – hanno sperimentato negli scorsi mesi e che ora, finalmente, sono dicibili. Spesso sono le donne a parlarne e, riandando al femminismo degli anni Settanta, la cosa non sorprende. In omaggio a quella stagione, proviamo allora a prendere sul serio quel che ci travaglia e leggerlo in termini politici con l’aiuto di una manciata di autori.
1. Sentimenti del presente
Ecco un elenco, erratico e ovviamente incompleto, di queste esperienza:
Paralisi cognitiva. Il lasciapassare è una misura sanitaria o una misura repressiva? Come si calcolano i benefici del vaccino sulle diverse fasce di popolazione? Quali costi ha avuto la didattica a distanza? Cosa dicono, esattamente, i numeri e come vengono raccolti? Perché in alcune regioni la pericolosità del virus è (stata) più alta che altrove? Esistono cure primarie efficaci? Cosa rischio a vaccinarmi, cosa a non vaccinarmi? Qual è l’incidenza del long covid? Cos’è successo alla sanità territoriale nella primavera del 2020? E via dicendo. La continua incertezza epistemologica induce in chi l’affronta un senso di inadeguatezza, un sospetto di asinina ignoranza.
Inceppo critico. Tutti i quadri teorici – marxisti, francofortesi, foucaultiani ecc. – sembrano far acqua. Se è una crisi di crescita del capitale, perché le chiusure? Da dove arrivano i soldi del recovery fund? La salute delle comunità coincide con la politica sanitaria degli Stati? Quali guerre geopolitiche e di capitale stanno dietro le vaccinazioni? Nessun modello sembra riuscire a descrivere il quadro in modo accurato o convincente.
Labilità della memoria. Quand’anche, dopo molte fatiche, l’intelligenza collettiva riesce a imbastire qualche spiegazione, l’urgenza successiva sembra farla subito dimenticare. Come mostra, fra l’altro, la storia dei commenti su questo blog, le stesse argomentazioni – sulle condizioni di scuola e sanità, sul valore politico e non sanitario del lasciapassare, sulla differenza fra vaccino e vaccinazione – hanno dovuto essere ripetute un’infinità di volte e perfino continuamente ricostruite, come se qualcosa intervenisse, ogni volta, a “bucare” il palloncino della coscienza critica.
Incredulità e “rottura del patto”. Dai timbri delle comunicazioni ufficiali alla valanga di dpcm, moduli, certificazioni, regolamenti e decreti attuativi, dall’arbitrio concesso alle FdO all’illogicità delle misure e dei proclama, un’interminabile e inverosimile collezione di idiozie si è rovesciata su di noi, talmente assurda che non ci si poteva credere. In molti qualcosa si è spezzato: il rapporto di fiducia con lo Stato e le sue istituzioni si è fatto problematico.
Spiazzamento politico. Fin dall’inizio, chi ha criticato la gestione della pandemia si è trovato proiettato su posizioni all’apparenza prossime a quelle che la destra portava in piazza, e neppure era chiaro perché. La prossimità a quelle rivendicazioni è stata, per molti, fonte d’inquietudine. A peggiorare le cose, gran parte della sinistra antagonista, anziché interrogarsi sulle ragioni di quella convergenza, l’ha usata contro i dissidenti.
Incertezza pratica ed emotiva. Fino a quale distanza da casa si può passeggiare? chi sono esattamente i congiunti? dove bisogna mettersi per prendere un caffè? con quali treni si può viaggiare senza lasciapassare? quanto dura la quarantena di un positivo, e a chi si estende? chi è autorizzato, e chi no, a chiedere il pass? La mappa del quotidiano è diventata incerta: come nello choc culturale descritto in antropologia, alcuni dei gesti e dei pensieri più scontati devono essere ripensati e riappresi daccapo. Abbondano i gesti mancati, i passi e i movimenti s’inceppano, nelle mappe cognitive si aprono buchi.
Fede superstiziosa nella logica e/o nella Costituzione. A fronte dell’assurdo sistemico si è tentati di aggrapparsi alla logica di base, sperando che la dimostrazione della falsità di un presupposto comporti ipso facto l’abbandono di un discorso fallace. Così, “a sinistra della sinistra”, il discorso critico è stato costruito controllando le fonti con acribia, discettando sulle virgole, usando solo i fili teorici più solidi – fino a sfinirsi di ponderatezza, razionalità e data check. Allo stesso modo, è tale la gravità delle norme imposte che viene spontaneo appellarsi direttamente ai principi costituzionali, come se fossero limiti fisici invalicabili e non dipendessero, invece, da un certo accordo su come si ragiona e come si vive.
Pavidità. Comunicazioni di massa e opinione pubblica hanno imposto una narrazione unica particolarmente aggressiva, che non esita a svilire, ridicolizzare, e perfino criminalizzare, ogni dubbio o esitazione. Per molti, in una varietà di circostanze, è stato quindi preferibile tacere, evitare di esporsi. Quelli di noi che, per professione o per passione, fanno lavoro culturale e di conoscenza, in certi momenti hanno avuto timore di parlare, reticenza nel riproporre discorsi e argomenti che, fino all’altroieri, erano ovvii. L’introiezione dell’impossibilità – o inutilità – di contraddire la versione ufficiale è uno degli effetti paradigmatici della censura.
Lutti silenti. Il dolore per le relazioni interrotte sta travagliando molti. In ballo non c’è solo la strage delle coscienze nella sinistra di movimento, su cui c’è già qualche ottima riflessione (questa e questa ad esempio): la divisione è entrata nei gruppi di prossimità e nelle famiglie, comunque queste siano definite, intossicando la “sostanza comune” di cui sono fatte e mettendo padri contro figli, nipoti contro nonni, amici contro amici, amanti contro amanti. Se a questa descrizione è sotteso un certo “noi”, è bene notare che lo stesso lutto stanno facendo anche gli altri.
Angoscia per l’erosione, nel discorso pubblico e nelle pratiche, della minimale solidarietà fra umani. L’intreccio – solo in apparenza contraddittorio – della “punizione di branco” e del “tutti contro tutti” sembra salito di livello: si pensi all’idea, recentemente circolata, secondo cui è giusto che i non vaccinati paghino le terapie ospedaliere per Covid-19 e che dovrebbe suonare, a sinistra, come una bestemmia.
Cosa indica questa costellazione?
2. I mondi e i loro margini
Facciamo un passo a lato. È stato detto molte volte e dal punto di vista legislativo è un dato di fatto: da un anno e mezzo siamo in stato d’eccezione. Meno chiaro, invece, è che prima di essere uno strumento giuridico, lo stato d’eccezione è una sospensione dell’ordinario che agisce sul tessuto materiale, emotivo, psicologico, sociologico e immaginario della comunità colpita. Ha a che fare con il venir meno di un mondo, con i margini del noto, con la dismisura e con gli effetti che le situazioni liminali producono sulle biografie, i sentimenti, la psiche e la tenuta esistenziale. Ed è proprio qui – a livello di “strutture di sentimento” – che accadono le cose più interessanti e pericolose.
Per comprendere questo punto, riprendiamo l’ipotesi antropologica di una molteplicità di mondi umani costruiti in modi diversissimi fra loro. Indipendentemente da com’è strutturato, ciascuno di essi intesse, volta per volta, una certa trama, delle regolarità che lo rendono abitabile. Non si tratta di certezze granitiche, ma di una provvisoria affidabilità. Poco importa se gli dei che lo abitano sono molti, uno o nessuno; se il regime pulsionale si basa sulla coppia o sul gruppo; se le cure si praticano con molecole chimiche, con piante o con danze. Importa, invece, che garantisca le condizioni minime per abitare sensatamente quella particolare “ecologia umana”: avere di che vivere, organizzare feste, tirar su i bambini, curare chi si ammala, mantenere buoni rapporti con i non-umani, seguire le piste attive di conoscenza e via dicendo. Un “mondo” è appunto questo: una sfera di possibilità esistenziale, pazientemente filata, rimaneggiata e rattoppata, sospesa sopra un reale troppo complesso per essere afferrato con un unico sguardo.
Se immaginiamo ciascun mondo come un fascio di luce che illumina solo una parte del reale, allora ai suoi margini c’è una zona in penombra che media fra il reale, nella sua vastità inafferrabile, e la trama locale, specifica, che viene portata in esistenza. È la regione del non-ordinario, del possibile, del potenziale e dell’inattuale, dove originano le biforcazioni e le alternative; dove gli scarti, i fantasmi e i futuri non realizzati vivono una vita postuma; ed è anche, nello stesso tempo, la zona del caos, del panico, della dissoluzione, dell’orrore, delle forze soverchianti, dei mostri e della tragedia.
Il modo in cui il non-ordinario si manifesta dipende dalle condizioni d’accesso.
I mondi che ammettono la molteplicità – di persone umane e non-umane, di modi dell’esistenza, di forme di conoscenza – sono soliti varcare periodicamente, in modo rituale e collettivo, i confini fra ordinario e non-ordinario. Lo fanno per modificare ciò che nella quotidianità stringe troppo; per cercare soluzione ai problemi che la storia non cessa di porre; per trovare le vie della cura; per seguire piste di conoscenza. Oracoli, divinazione, feste, rituali di possessione, rave, assunzione di piante, danze sono, in questo senso, dispositivi conoscitivi e trasformativi; servono a esporsi consapevolmente al limite, all’ignoranza e alla transitorietà e a prendere contatto con ciò che, comunque, è destinato a restare eccedente. (Tanto per non esotizzare troppo: la psicoterapia può benissimo essere descritta come un affondo controllato in ciò che sta ai margini del noto; e i matematici dicono che le loro scoperte avvengono spesso in uno stato di simil-trance.) Per questo, raccontano gli antropologi, le figure che “ballano sui margini” non devono sbagliare: perché le cose con cui hanno a che fare sono al contempo salvifiche e pericolose, potenti e poco controllabili, e il modo in cui si manifestano dipende dalla perizia, dall’astuzia e dalla sensibilità di chi le evoca.
Ma può capitare, anche, che nel normale funzionamento di un mondo qualcosa arrivi a spezzare la routine, gettando scompiglio: un incidente, una malattia, una violazione di interdetto, una guerra, una pandemia. Quando qualcosa “fa evento” e spariglia le regolarità consuete, il reale torna a rivelarsi in tutta la sua complessità: si apre la crisi. Stato di eccezione non ricercato, la crisi è un momento intrinsecamente pericoloso ma – come sanno terapeuti, insegnanti, genitori e rivoluzionari – anche altamente potenziale e generativo (nella sospensione dell’ordinario è possibile costruire alte forme, diversi modi della tenuta, magari più belli, giusti e felici). Inutile dire che, perché non si risolva in disastro, bisogna saperla navigare – e qui siamo messi male.
Per navigare una crisi, infatti, è necessario ipotizzare che essa abbia un punto d’arrivo diverso da quello di partenza, che sia opportunità di trasformazione e non solo danno. Che, insomma, il suo esito non sia il mero ripristino dello status quo, ma sia aperto al divenire e al molteplice – cose con cui abbiamo un rapporto difficile. Da quattro secoli il mondo unico del capitalismo prevede che nulla esista davvero se non ciò che è già previsto; e da qualche decennio a questa parte – da quando, cioè, il capitalismo ha preso la sua estrema piega neoliberista – interpretiamo ogni crisi come mera deviazione dalla norma, anomalia di funzionamento da riportare il più rapidamente possibile alla condizione precedente. Lo scientismo è la forma ideologica di questa presunzione, che condanna dapprima all’inesistenza, e poi alla distruzione, ciò che eccede le sue categorie interpretative.
Non solo, dunque, abbiamo perso presa sui processi sempre singolari e storici delle crisi, sulla delicatezza delle ecologie relazionali e sulle infinite vie della fisiologia (annullate dalla medicina dei protocolli); ma addirittura, in quanto moderni, siamo tenuti a ignorare l’esistenza stessa dei margini, a tenerci a distanza da ciò che permette di navigarli (i sogni, le intuizioni, le sincronicità, il perturbante e l’analogia), a dimenticare la felicità delle rivoluzioni e degli amori.
Il terror panico della morte e la vita come feticcio sono, da questo punto di vista, sintomatici: perché mai si ha meno paura della morte di quando si è vivi, felici e innamorati. E se pure quei margini li abbiamo conosciuti, siamo tenuti a non farcene mai niente: non teorizzarli, non perseguirli, non ammetterli come veri e attivi. Questo ci priva dell’apertura d’orizzonte indispensabile alla trasformazione del mondo, condannandoci all’eterno presente del realismo capitalista. Inoltre, la sistematica disvisione dei margini ci rende ciechi alla violenza, anche quando siamo noi stessi a subirla: senza un’ipotesi di mondo altro, infatti, la violenza del proprio mondo appare come ordine naturale delle cose, la sopravvivenza come vita.
Qui s’intravede la possibilità di un confronto.
3. Lampi di felicità e rasoiate d’angoscia
A nostra memoria, l’intensità di quel che sta accadendo ha pochi precedenti – e anzi, ne ha uno solo. Nel luglio 2001, a Genova, tutto era sovvertito, il mondo come l’avevamo conosciuto non esisteva più: la geografia urbana era stravolta, la legge in stato d’eccezione, il tempo sospeso. Le relazioni, soprattutto, non erano più le stesse: erano saltati tutti gli automatismi che, nella quotidianità, le velano e le uniformano e questo rendeva visibili le distanze e le prossimità, i rapporti di forza e le alleanze – in breve, la reale struttura del mondo. I campi erano chiari, nitidamente delineati: Stato, polizia, multinazionali – come si diceva allora – e mafie da una parte, con il loro enorme carico di violenza, “noi” dall’altra. Un “noi” provvisorio, problematico e solo aurorale, ma proprio per questo splendido e potentissimo, tutto immerso com’era nella solidarietà spontanea, costitutiva, dei collettivi in divenire.
L’inimicizia fra schiere avverse derivava da interpretazioni opposte di un medesimo panorama di fondo, riassumibile così: economia, finanza e politiche degli Stati canalizzano il flusso della ricchezza mondialmente prodotta in direzione dei paesi del nord e delle classi privilegiate. Gli otto, l’intelligence, i poliziotti e gran parte dei giornalisti erano lì a difendere quello stato di cose, che chiamavano “sviluppo”; noi, invece, eravamo lì per opporci alla violenza sistemica di ciò che chiamavamo “oppressione”. In ciò si ritrovava una classica prassi marxiana: quella di sollevare il velo ideologico che i sistemi di dominio gettano sulle loro malefatte per rivelare la quantità di violenza, repressione, ideologia e crudeltà che continuamente devono applicare per mantenere il vantaggio.
Proprio perché scomodo, e a volte difficile da sopportare, il disvelamento apre una situazione non ordinaria, in cui la consueta lettura del mondo e la disvisione della sua violenza sono interrotte; e in cui si può tornare a porre il problema del mutamento, della giustizia, della buona vita. Momento rischioso e potenziale, in cui si manifesta in modo chiarissimo la potenza dei collettivi umani: la capacità di resistenza, organizzazione e solidarietà fra le cui maglie s’intravede, come un arcobaleno, la possibilità di altri mondi, migliori di quello che in cui c’è toccato vivere. È quel che è successo a Genova vent’anni fa.
Per questo – oltre alle botte, al sangue, al gas, ai traumi, al lutto, alla paura – quei giorni di eccezione hanno evocato in molti anche un paradossale e estatico senso di felicità: nel rivelarsi del mondo, alla violenza degli uni si opponeva la lotta solidale e la capacità immaginativa collettiva degli altri. Per dirla con Benjamin:
«La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo.»
Proprio qui sta il great divide che separa i giorni del G8 dall’infinita crisi pandemica in cui ora siamo immersi. Mentre a Genova lo stato d’eccezione era prodotto dalle abnormi misure repressive come anche dalla resistenza e dalla creatività di un collettivo fisicamente presente e teoricamente orientato, oggi esso cala dall’alto senza trovare alcuna resistenza (o meglio: trovando qualche resistenza solo a destra). Sottoposti a terrore mediatico, infragiliti da confinamento e distanziamento e resi schizoidi dall’immagine dello Stato come unico baluardo contro un rischio mortale, il non-ordinario di cui stiamo facendo esperienza non ha più alcun carattere estatico e si presenta solo come blocco esistenziale, paralisi cognitiva, isolamento, timore e angoscia. Situazione temibile, che si può forse meglio comprendere accostandola ad altre, più estreme e quindi più leggibili.
4. Spazi del terrore
Oltre al non-ordinario consapevolmente praticato e a quello imprevisto della crisi, ne esiste anche un’altra varietà, atroce e difficile da osservare. Shamanism, Colonialism and the Wild Man è un testo straordinario, uscito nel 1987 e ancora mai tradotto in italiano. Intrecciando i disastri coloniali del Sudamerica, lo sciamanesimo, il materialismo di Walter Benjamin, la pratica del terrore, i rapporti di Roger Casement, le carceri argentine del regime di Videla, le proiezioni reciproche di colonizzatori e colonizzati, Michael Taussig indaga gli spazi del terrore e cioè i luoghi dove l’uso sistematico e intenzionale della violenza arriva a creare un contesto allucinatorio.
Sono situazioni tremende – ben esemplificate, al loro estremo peggiore, dalla tortura – la cui logica si applica, tuttavia, anche a molte altre circostanze di minore intensità. Se ne parliamo, non è per paragonarle sic et simpliciter a ciò che stiamo vivendo, ma perché l’analisi del loro funzionamento permette di comprendere meglio alcuni fenomeni cruciali.
Il meccanismo fondamentale è semplice: dove, nella loro normalità, i mondi umani sono attenti a regolare confini, passaggi e relazioni, gli spazi del terrore sono costruiti sulla violazione sistematica dei limiti, sulla distruzione di ogni ordine affidabile delle cose. Sono luoghi di normalizzazione dell’eccesso, che fanno durare nel tempo un eterno presente in cui soglie e differenziali sono cancellati, infranti gli interdetti, recisi gli attaccamenti. In essi non si dà vita ordinaria, tran tran quotidiano o abitudine, perché niente è solido abbastanza da permettere di farci conto: regolazioni, luoghi di scambio, negoziazioni e pluralità sono distrutti, il tessuto stesso della vita comune svapora.
Negli spazi del terrore si trova senz’altro una parte di pura e semplice crudeltà che, ogni volta, è la più difficile da spiegare. È noto, però, che questi eccessi di violenza non dipendono dal sadismo degli aguzzini, ma dalla pura e semplice distribuzione di potere fra gruppi all’interno di uno spazio rigido sottoposto al comando un unico principio d’autorità (v. gli esperimenti degli psicologi Stanley Milgram e Philip Zimbardo). Questo significa che le peggiori atrocità non derivano da un baco della “natura umana” o dal riemergere dell’animale in noi, ma dall’azione di specifiche e malevole strutture di potere.
Lungi dall’essere eccessi occasionali, gli spazi del terrore hanno avuto, e hanno, una precisa funzione nell’espansione dei sistemi di controllo e dominio, e in particolare di quello capitalista. A detta di molti, fra cui Hannah Arendt, le navi negriere, le piantagioni schiaviste, il Congo di re Leopoldo II di Belgio e la raccolta di caucciù nel Putumayo amazzonico anticipano, in terra coloniale, gli orrori che i totalitarismi e le due guerre mondiali porteranno sul suolo europeo. Di fatto, ogni volta che il circuito del plusvalore ha avuto bisogno di nuova linfa, la terapia-choc del terrore è stata lo strumento d’elezione per l’esproprio dei commons e il controllo delle popolazioni.
Notiamo, infine, che senza arrivare agli estremi più terribili, bolle di terrore si aprono anche negli anfratti del quotidiano in regime totalitario, sui fronti bellici, nelle carceri, nelle istituzioni totali, nelle famiglie abusanti, nei contesti di discriminazione. Non è necessario che la violenza sia visibile o facilmente identificabile: condizioni di violenza strutturale (come quelle imposte dall’economia o dal razzismo sistemico, dove gli abusi sono mascherati dal sempiterno “così vanno le cose…”) instaurano regimi sociologici di terrore, al cui interno si registrano alcuni fenomeni sintomatici.
5. Mappa malconcia di un terra infame
La “mappa interna” degli spazi del terrore è stata messa insieme a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti e dalle descrizioni fatte da storici, sociologi, psicoterapeuti, antropologi e giornalisti. Più che una mappa, è un collage incerto di frammenti e spezzoni.
Non potrebbe essere altrimenti: di questi spazi, infatti, non si dà conoscenza in senso consueto, perché la “conoscenza in senso consueto” si basa su una serie di presupposti – separazione fra soggetto e oggetto, stabilità psichica e percettiva dell’osservatore, corrispondenza fra parole e cose – che, qui, sono sistematicamente negati. Vero e falso, soggettivo e oggettivo, hanno corso solo all’interno di un mondo ben strutturato, entro un ordine riconosciuto e abbastanza stabile delle cose. In situazioni estreme, dove la violenza abbia disintegrato ogni punto di riferimento, l’esperienza non è più integrabile e le catene causali si spezzano.
Taussig parla di tenebre epistemologiche: negli spazi del terrore non è possibile stabilire cos’è vero e cos’è falso, cos’è successo a me e cosa ad altri, cos’è davvero accaduto e cosa è stato solo fantasticato. La memoria discorsiva si fa inaffidabile, quella percettiva si acuisce fino all’insopportabile. La produzione di un resoconto fedele è dunque impossibile, mentre la memoria fisica dei luoghi e degli eventi è incisa a fuoco. Da qui la loro strana qualità allucinatoria: quel che vi avviene resta fuori scena, irrappresentabile, osceno. Per questo la testimonianza dei reduci è al contempo così cruciale e così impossibile: gli spazi del terrore non hanno storia documentabile, né narrazione progressiva, né testimoni attendibili. (A chi obiettasse che un osservatore imparziale potrebbe ancora descrivere oggettivamente la situazione, rispondiamo con una banalità di base della ricerca sociale: negli spazi di violenza, crudeltà e terrore, non esistono osservatori imparziali. L’ipotetica imparzialità, infatti, sarebbe già collusione.).
Nell’indistinzione di sé e mondo, di ieri e domani, di vita e morte, di lecito e illecito, la soggettività stessa è in pericolo: gli spazi del terrore sono veri e propri dispositivi di desoggettivazione. Non a caso, le rivolte sono poche, meno di quelle che si ci aspetterebbe a fronte della differenza numerica fra carnefici e vittime. La ragione è presto detta: la violenza del dominio non è solo catena, frusta o filo spinato, ma anche choc, paralisi, blocco, stordimento, obbedienza. È sguardo di Medusa prima di essere spada.
Alcuni autori hanno provato a descrivere le tecniche in uso per spezzare la soggettività dei prigionieri. L’applicazione della paura e, nei casi peggiori, del dolore sono solo le più ovvie. Un trucco assai comune per introdurre le vittime nel regno della dismisura consiste nel rompere il nesso fra le parole e i fatti, minando così la stabilità psichica: si pensi agli effetti schizofrenogeni del doppio vincolo nella relazione fra genitori e figli, alla sistematica negazione delle affermazioni delle vittime durante gli interrogatori – «non ci credo!», «menti!», «dimmi la verità!» – o ai vocabolari eufemistici che spuntano dentro le istituzioni totali (la «domandina» in carcere, la «pastichetta» in psichiatria ecc.).
Una profonda disarticolazione del rapporto fra parole e cose si ottiene, poi, con l’imposizione di regolamenti al contempo arbitrari, mutevoli e vincolanti. In un contesto in cui l’insensatezza delle norme recide il senso esistenziale dei comportamenti, la loro mutevolezza impedisce l’adattamento e le violazioni sono punita con il massimo rigore, la vita è, a tutti gli effetti, impossibile. Detto altrimenti: l’assurdo è una ben rodata tecnica di dominio.
La struttura logico-esistenziale di questi spazi è, ovviamente, quella carceraria. Contro l’esuberanza della vita psicosociale, degli eventi e delle occasioni, contro il continuo emergere di alternative biografiche e storiche, gli spazi del terrore affermano l’assoluta, schiacciante univocità del comando. In modo assai significativo, più che sanzionare ciò che non si può il loro impianto normativo delimita rigidamente ciò che si può. Questo significa, appunto, che tutto ciò che vi accade è pre-visto, pre-determinato, amputato dell’aleatorietà e dell’apertura che caratterizzano la vita.
I legami con il mondo di appartenenza dei prigionieri – diverso da quello istituito dal terrore e quindi prova dell’esistenza di un altrove abitabile – vengono recisi con la massima crudeltà. Uno dei mezzi più comuni per spezzare i prigionieri politici è, notoriamente, quello di isolarli completamente dai compagni di lotta e dall’esterno, e di far loro credere che nessuno più, a casa, si cura di loro; che il loro destino si è fatto irrilevante per quelli che stanno fuori; che nessuno li sta cercando o sentirà la loro mancanza. Si tratta, insomma, di staccarli dai loro attaccamenti fondanti, in modo da annullare in loro anche quel mimino grado di autonomia che consiste nel «sentirsi altro» rispetto a chi comanda. Il trionfo di questi spazi non coincide con la morte dei prigionieri, ma con l’accettazione della verità del carnefice come unica verità possibile. (Notiamo, di passaggio, che l’efficacia della tortura ha fatto un deciso balzo in avanti quando, oltre al medico, nelle stanze degli aguzzini è entrato lo psicologo.)
La forma logica della scelta in regime di terrore è quella dell’alternativa infernale: «se non parli, muori; se parli, muoiono i tuoi compagni»; «per essere fedele al sistema, devi tradire il tuo prossimo; se resti fedele al tuo prossimo, tradisci il sistema». E via dicendo. Le più atroci sono quelle in uso negli spazi concentrazionari, ma gli ultimi quarant’anni di offensiva neoliberista ci hanno ben addestrati alla forma mentis richiesta dalla loro vigenza: «vuoi delocalizzare? aumenterai la disoccupazione!», «vuoi diminuire l’inquinamento? ostacolerai lo sviluppo!» – un modo del ragionamento che, nel vernacolare genovese, è definito come “scegliere tra il marcio e la muffa”. La trappola logica si basa sull’esclusione a priori, e perfino sulla rimozione, di qualsiasi possibilità di una organizzazione del mondo.
Come ha mostrato Françoise Sironi, le emozioni politiche, vissute da chi le prova come reazioni del tutto soggettive, dipendono in realtà da un intricato sistema sociale di detti e non detti, messaggi impliciti ed espliciti, racconti, inflessioni, giudizi di valore e risposte attese (un esempio generazionale: chi ha fatto le scuole elementari prima del crollo del muro di Berlino conserva probabilmente un’immagine curiosamente sfocata dell’Europa dell’est). Già forte nei periodi normali, in quelli non ordinari la plasmazione politica delle emozioni può farsi schiacciante e cancellare ogni altra considerazione o minimale solidarietà.
Gli spazi del terrore sono tali perché aboliscono le condizioni di fiducia che rendono possibile la vita: relazioni, intenzioni, sensibilità, esperienza, scambio, cognizione, corrispondenza fra linguaggio e mondo. La fiducia – fatta di relazioni affidabili, linguaggio significativo, affetti solidi – non segue il soggetto, ma lo rende possibile; è la condizione indispensabile di qualsiasi pienezza e felicità. I luoghi di violenza intenzionale la annientano in modo consapevole e sistematico, sono veri e proprio laboratori di inveramento del peggio. La loro presa comincia con la manomissione dell’immaginario: prima di essere agite, certe cose devono innanzi tutto essere pensate; e prima di essere pensate, devono essere pensabili. Due o tre secoli di irrisione e squalificazione dei “selvaggi” hanno reso possibile il Congo e il Putumayo; un decennio di propaganda anti-ebraica ha reso tollerabili i campi; un paio d’anni di realismo capitalista hanno strozzato la Grecia. Ogni volta, nella narrazione egemone qualcosa proprio non torna, ma guai a dirlo ad alta voce.
Nel terrore a largo raggio dei totalitarismi la delazione è ubiqua. Promossa dai regimi, scopo dichiarato della tortura e a volte entusiasticamente abbracciata dagli zeloti, più che atto specifico di una singola persona essa può essere vista come una “struttura di sentimento”, come una delle emozioni politiche che attraversano coloro che si trovano a vivere in questi spazi. Vicini che denunciano i vicini, mariti o mogli che denunciano il coniuge, figli che denunciano i padri e le madri: gli esempi abbondano in letteratura e producono un’angoscia sorda e ostinata. Testimoniano, infatti, che tutto ciò che diamo per certo e scontato, le fondamenta di fiducia su cui la nostra vita di basa, non sono date una volta per tutte e possono, in certe circostanze, rovesciarsi.
Un’ulteriore caratteristica, quasi impronunciabile, degli spazi del terrore è la loro ambiguità, fatta di una tremenda complicità di fatto fra dominatori e dominati: un teatro del terrore che riverbera, nelle vittime, come indicibile vergogna. Essa istituisce un crinale emotivo e cognitivo assai particolare, difficile da comprendere per chi osserva la situazione dall’esterno, e che si può riassumere così: quel che vi succede è talmente estremo, che non può essere vero nel senso consueto del termine (la verità essendo, appunto, ciò che ha una misura). Il luogo della dismisura assume quindi il carattere di rappresentazione e la vergogna affligge le vittime perché hanno pur sempre avuto una parte – per quanto involontaria – in quel reale e materialissimo “teatro della crudeltà”.
6. La vita invivibile
È possibile pensare la configurazione psicosociale nella quale ci troviamo come uno spazio del terrore? È lecito paragonare quel che ci sta accadendo, le esperienze intime che ci travagliano, agli effetti della violenza intenzionale? Non lo sappiamo e forse, dal luogo in cui ci troviamo, neppure possiamo saperlo. A tutto quanto segue premettiamo allora, per salvarci l’anima, il classico si parva licet componere magnis e consigliamo di leggerlo come se fosse il racconto di una strana avventura, fra l’inaudito e il déjà-vu.
Comincia con un nutrito mazzo di carte che scorrono a velocità vertiginosa. Ciascuna porta un’immagine che descrive, in modo iconoclasta, qualcosa di assurdo o di eccessivo, impensabile fino a due anni fa, e che pure abbiamo vissuto.
Sulla prima carta ci sono le sacre libertà dei moderni, sancite dalla Costituzione, annullate dalla sera alla mattina. Gira la carta e si vede la vita quotidiana irreggimentata in spazi in cui è tutto vietato, tranne ciò che è permesso. Gli istituti fondamentali dell’umano vivere sono sospesi: un popolo di confinati campa per mesi in solitudine, senza sorrisi e gesti d’affetto, senza assistere i propri malati, senza salutare i morti né dare il benvenuto ai nuovi nati. Dai luoghi del maggior contagio – RSA, carceri e fabbriche – non si può uscire; nei parchi, nei teatri, sulle spiagge, per boschi, nei musei non si può andare. Timbri mediatici fuori controllo, il terrore viaggia nell’aria molto più del virus, dilaga la pornografia della paura. Un po’ più tardi, ogni notizia avrà un curioso retrogusto di aspartame. Generazioni in rivolta le une contro le altre: nonni contro nipoti untori, genitori rompiballe in telelavoro contro figli rompiballe in DAD. Passeggiatori solitari inseguiti dai droni, nel dileggio del pubblico TV. La distruzione della sanità pubblica, già pagata dai più a vantaggio dei pochi, produce nuovo plusvalore tramite royalties sui vaccini.
Il tempo di girare una carta, e il più grande filosofo italiano vivente si trasforma nella peggior canaglia che il Belpaese abbia prodotto nel dopoguerra. Spettrali vampiri di notorietà brandiscono in tv una Scienza indistinguibile da qualunque altro fondamentalismo. Le responsabilità svalangano verso il basso, parte la caccia al capro espiatorio. Qualcuno l’ha detto veramente: amuchina sulle strade, banchi a rotelle, app di tracciamento, diametri da casa, aperitivi on line. Un senso di straniamento coglie chi vede, nei film pre-2020, scene in cui le persone stanno vicine senza mascherina. La placca tettonica giapponese svalica verso ovest: migliaia di adolescenti non vogliono più uscire dalla loro stanza. Un miliardario va nello spazio con un razzo privato proprio mentre un sacco di gente, per una ragione o per l’altra, crepa. Ospedali da campo in mezzo alle città. La mediazione cibernetica diventa la normalità del vivere, il cordone ombelicale da cui succhiamo socialità alienata. Messa in onda periodica di un varietà governativo di grande successo. Rituale quotidiano dei numeri (i morti, gli infetti, quelli in isolamento, quelli in terapia intensiva) e mai che un numero sia affidabile (morti di/con covid, autopsie sospese, il ballo dei tamponi, la farmacovigilanza passiva…). A città deserte, la burocrazia continua a richiedere moduli, form, autocertificazioni, giustificazioni, preventivi, consuntivi, adempimenti.
Al fante di picche hanno dato il bonus vacanze, ma gli hanno detto che se va in vacanza è un untore. La donna di fiori si è iscritta al cashback di Natale, ma i giornali la descrivono come irresponsabile. Su un lato della carta c’è l’agiografia dei sanitari che rischiano la pelle in reparto, sull’altro la diffamazione di quelli che si lagnano per l’obbligo vaccinale: i due gruppi, però, sono indistinguibili. Al comando di una campagna sanitaria c’è un generale. Grande confusione sotto il cielo fra salute e non-infezione, fra salute collettiva e salute di Stato, fra medicina e ospedale. La scuola chiude i battenti, bambini e ragazzi danno di matto più di prima (e già prima non si scherzava). L’università sparisce e nessuno se ne accorge.
Gira la carta e viene la guerra: quella fra bande capitaliste, giganti informatici e farmaceutici contro turismo e PMI. L’industria militare è disegnata su una carta diversa, e non ha nemici. Confinamento. Coprifuoco. Lasciapassare. Distanziamento. Trambusto nelle coscienze e nelle percezioni: la neolingua della malattia, del sintomo e del contagio sovrascrive i sentimenti di salute, di malanno, di cura di sé e degli altri. Una strega brucia sul rogo: severa ma giusta punizione per chi, davanti alla salvezza vaccinale, non s’inchina abbastanza rapidamente. Il data mining scava l’intero delle nostre vite. La guerra civile fra parenti, amici, compagni.
Nell’ultima carta, non si sa come, il verso di una canzone; dice: la maggioranza sta come una malattia.
Adesso uniamo qualche puntino. Gestione autoritaria o apertamente militare della pandemia; terrore a mezzo stampa; assurdità di misure, norme e discorsi; prolungato isolamento dei soggetti; destrutturazione degli istituti di base della vita umana; streghizzazione del dissenso: è possibile che tutto ciò abbia configurato uno spazio del terrore a bassa intensità?
Se (ripetiamo: se) così fosse, allora si potrebbe ipotizzare che la nebbia cognitiva non si sia alzata per l’ignoranza o la stupidità dei singoli, ma come conseguenza dell’instabilità del mondo; che ansia, insonnia, irrequietezza e aumento del malessere psichico arrivino in risposta alla durevole esposizione a un regime d’arbitrio; che l’oppressione epistemologica di una narrazione unica incessante, onnipresente e aggressiva possa incrinare il nesso fra le parole e i fatti; che la strategia euristica di normalizzazione dell’eccesso induca una sorta di paralisi etica in cui – come da manuale – non si riesce a reagire all’insopportabile; che delazione e sospetto reciproco non vengano dalla miseria etica dei singoli, ma dalla miseria etica dei tempi; che ciascun per sé e Dio contro tutti che il neoliberismo inculca da diversi decenni non sia la verità di base dell’umana natura, ma l’effetto delle condizioni inumane che esso stesso continuamente crea. E di certo si può ipotizzare che il prolungarsi indefinito dell’emergenza-covid sia una terapia-choc particolarmente ben assestata, un gol a porta vuota per il capitalismo digitale della sorveglianza.
Qualche parola in più serve per la vergogna. Gli inni dal terrazzo, la caccia al runner, gli anziani lasciati a morire, i bambini abbandonati allo schermo, la paura di ammalarsi, la fobia per il prossimo, i mantra preceduti da hashtag sono arrivati in risposta alla paura e in quanto tale lo si può ben comprendere: capita, nella vita, di sbagliare mira, di dire qualcosa di cui poi ci si vergogna, di scegliere la strada più comoda.
A passare e ripassare sull’erba della psiche, però, si scava un sentiero, le piccole collusioni diventano adesione. Una volta tracciato il sentiero della gregarietà, diventa difficile – sia come individui che come organizzazioni – cambiare idea senza passare per una dolorosa frattura con se stessi. Quanti fantasmi infesteranno nei prossimi anni la nostra coscienza collettiva? Come riprendere il filo dell’internazionalismo se, per consolarci, abbiamo cantato in coro l’inno di Mameli? Come rimettere in discussione l’informazione mainstream se su di essa abbiamo basato scelte esistenziali cruciali? Prendersela con un capro espiatorio è, a breve termine, un’efficace scorciatoia psichica per evitare il dolore.
Stiamo cominciando solo adesso – e solo parzialmente – a uscire dalla tenaglia che ci ha immobilizzati per un anno e mezzo e a renderci conto che in nome di un feticcio di salute, ci è stato tolto il tessuto comune che rende possibile la vita. È l’ennesimo esempio di accumulazione primitiva capitalista: separare gli umani dall’ecologia delle loro relazioni e mettere a profitto quel che, in tal modo, si produce: individui isolati e quindi bisognosi di senso, terre di nessuno, forza lavoro ecc. Dopo quattro secoli di stermini coloniali spacciati per esportazione del progresso, di istituzioni totali spacciate per cura, di fascismi sempre in cova spacciati per natura umana, di guerra di tutti contro tutti spacciata come legge naturale, il plusvalore ha trovato un nuovo modo – geniale, nella sua semplicità – per fomentare il terrore e l’esproprio facendo finta di perseguire il bene comune.
7. Danzare l’ignoto
Intrinsecamente ambigue, le situazioni di sospensione dell’ordinario portano con sé terrore ed estasi, fine del mondo e promessa di nuovi inizi, annientamento del noto e modi altri della conoscenza. Dopo aver descritto gli spazi del terrore, il testo di Taussig offre un’interpretazione poetica del curanderismo sudamericano e del nesso che esso crea fra esperienza sensibile, canti, stati non ordinari di coscienza, relazioni di potere, immagini e cura. Nella perdurante e totale incertezza esistenziale, sottoposti all’incessante e atroce crudeltà dei mercanti di caucciù, questi popoli avrebbero imparato a navigare il buio epistemologico con una varietà di mezzi; a basare scelte e movimenti più sul con-sentire con altri che sul costruire modelli; a inanellare (anziché dedurre) piste di cura; a contare sulla sincronicità, sul potere trasformativo della relazione con altri viventi, sulla conoscenza sociale implicita che permette di continuare a vivere come umani in un contesto strutturalmente de-umanizzante.
A differenza del modello conoscitivo occidentale, che separa soggetto conoscente e oggetto conosciuto ed esclude ogni perturbazione dovuta all’azione del potere, «il modello relazionale guaritore-paziente include nei “dati sensibili” dell’esperienza grezza anche le impressioni sensoriali delle relazioni sociali, in tutta la loro umorale ambiguità di fiducia e dubbio». Questa forma di conoscenza include, quindi, il brodo stesso dell’esistenza umana, le relazioni di potere o dominio, di fiducia o inimicizia, di vicinanza o distanza. Inoltre, essa non ha bisogno di un soggetto a tutto tondo, nel pieno della sua maschia, bianca e coloniale Ragione, ma è praticabile anche nelle circostanze più difficili, quando la soggettività è fragile, parziale, fantasmatica, oppressa, incerta, dubitante – e cioè, quando più ce n’è bisogno.
Qui c’è un’indicazione preziosa. Quando a venir meno sono le condizioni stesse dell’esistenza in comune, la conoscenza più utile non ha a che fare con dati oggettivi o modelli universali, ma con ciò che accade dentro le relazioni. È analogica più che deduttiva, qualitativa prima che quantitativa. Più che sulle somme e sulle mediane, si basa sui timbri e sulla lettura di segni; non si risolve in una tabella piena di cifre ma nella possibilità, anche minima, di trasformare il contesto e (ri)costruire le condizioni di fiducia.
In questa impresa servono tutti.
Servono le scienze, o quantomeno molte di esse: quelle lente, che si prendono il tempo di raccogliere dati e ragionare; quelle marginali, che non si sa bene cosa studino; quelle gentili, che per conoscere non hanno bisogno di fare vittime.
Serve una filosofia che sia, per dirla con Bonnefoy, «un grande realismo, che aggravi anziché risolvere». Poi servono anticorpi contro la tendenza al pensiero totalizzante, alla semplificazione, all’eliminazione della molteplicità: i racconti e le pratiche dei non moderni, quelli di chi alla modernità resiste, quelli di chi la fugge da dentro.
Servono lavorazioni collettive, intelligenti e sensibili, di quel che è accaduto: riti di lutto, per cominciare, la possibilità di saluto collettivo alle parti di noi che abbiamo perduto, come anche a tutti coloro che in questi mesi, in un modo o in un altro, se ne sono andati. E momenti di festa, di vicinanza, di condivisione.
Serve un allenamento, rigoroso e spericolato, ad altri modi di narrare e di pensare. Questo un esempio, potente e straziante, apparso nella primavera del 2020; oppure le magnifiche pillole di Mariano Tomatis; o ancora il breve, densissimo testo pubblicato da Taussig all’inizio della pandemia, le lettere zapatiste, e quel che arriva dai piccoli collettivi che, proprio ora, cominciano a organizzarsi per una vita meno impaurita.
Poi servono marinai, danzatori, epidemiologhe, musicanti, sciamane, infermieri, maghi da palcoscenico, cartografi, ecologhe, esploratrici della psiche, pupari, medici di base, poeti, cuochi, levatrici, contadini, topi di biblioteca, perdigiorno, pastori; e anche – per chi sa come contattarli – spiriti, ninfe, animali, persone non umane, cieli, piante, venti, lari&penati, montagne. Il contrario di “terrore” è “molteplicità”.
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* Stefania Consigliere è ricercatrice all’università di Genova, dove insegna Antropologia e Antropologia dei sistemi di conoscenza, e dove coordina il Laboratorio Mondi Multipli, luogo di ricerca e di sperimentazione delle conseguenze ontologiche, epistemologiche, etiche, politiche ed esistenziali che derivano dal precetto antropologico di «prendere gli altri sul serio». Altre informazioni e articoli su: www.stefaniaconsigliere.it.
Cristina Zavaroni, antropologa culturale ed etnologa africanista, ha una lunga esperienza di ricerca presso i Bakonzo del Rwenzori in Uganda. Specializzata in antropologia cognitiva ed etnopsichiatria, lavora da diversi anni come consulente per l’Associazione Mamre Onlus di Torino. Dal 2013 fa parte del Laboratorio Mondi Multipli.
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