di Marco Bertorello e Danilo Corradi, Cadtm Italia*
*articolo pubblicato sulla Rubrica Nuova Finanza Pubblica su il manifesto del 2.10.2021
Su questa rubrica abbiamo espresso dubbi su una tesi che va diffondendosi e sostenuta con enfasi dall’economista Marco Fortis, secondo cui la ripartenza italiana sarebbe prevalentemente strutturale e non frutto di un rimbalzo. Torniamo sul tema non per fare i «pessimisti seriali» come pensa Fortis, ma per leggere gli elementi di novità e per capire se fanno intravedere una trasformazione profonda dell’economia nazionale. Andiamo per punti:
1) Pil: la ripresa è indubbiamente in corso, ciò che non ci convince è che sia il frutto del superamento di limiti più che ventennali. L’Italia nel 2020 cade più di altri a causa della pandemia e nel primo semestre 2021 recupera più di altri, ma sommando i due dati non si vede nulla che entusiasmi: Italia -4,1%, Germania -3,6%, Francia -3,3%. Se allarghiamo lo zoom temporale abbiamo un risultato ancora più netto: nell’area euro dal 2008 al 2020 l’Italia è il paese con la seconda peggiore performance (-11,5%) e lontanissima da Germania (+8,7%) e Francia (+2,3%).
2) Deficit: il recupero su Francia e Germania nel primo semestre del 2021 non va sottovalutato, ma va anche detto che è ottenuto a fronte di un deficit superiore per il nostro paese che nel 2020 è stato pari a -9,5% mentre in Francia si è fermato a -9,2% e in Germania a -4,2%. Nel 2021 (previsioni Eurostat) in Italia si attesterà a -11,7%, in Francia a -9% e in Germania a -8,9%. Il sostegno pubblico, assolutamente necessario, va però inserito nel conto.
3) Export: la bilancia commerciale con l’estero è in surplus e ci posiziona al quarto posto dopo Cina, Germania e Russia. Il dato fa emergere che non veniamo travolti dalla globalizzazione, ma non possiamo rimuovere che il peso relativo dell’export italiano si è ridotto, stabilizzandosi poi negli ultimi dieci anni al 2,9%. La Germania arretra di un paio di decimali, ma attestandosi su un ben più alto 7,9%. L’avanzo commerciale italiano è frutto anche di una riduzione dell’import, che di per sé non costituisce un elemento positivo. Anzi le importazioni sono talvolta indice di relativa salute.
4) Salari: Prima della pandemia l’Ocse evidenziava come dal 2000 al 2017 i salari italiani fossero rimasti inchiodati attorno ai 36.000 dollari annui. Nello stesso periodo Francia e Spagna, che partivano da livelli simili, superavano rispettivamente i 44.000 e i 38.000 dollari, mentre la Germania passava da circa 42.000 a quasi 48.000 nello stesso arco temporale. Forse questo dato può contribuire a spiegare il miglioramento della bilancia commerciale, ma difficilmente può essere considerato un segnale di svolta, piuttosto di collocazione produttiva del paese.
5) Produttività: fermandoci alle rilevazioni Istat non ci pare si possa gridare al miracolo. La produttività del lavoro è stata inferiore a quella di Francia e Germania per tutto il periodo 2014-2019, con un calo proprio l’anno prima della pandemia. La produttività del capitale, con un andamento negativo dal 1995 al 2019, fa segnare una timida ripresa dal 2014 che si conclude con un -0,8 proprio nel 2019. Alla luce di questi dati confermiamo il nostro giudizio di fondo. Indubbiamente in questa fase potrebbero registrarsi novità importanti, la crescita degli investimenti nel comparto industriale è un dato interessante, ma ritenere che ci sia un’inversione di tendenza, o addirittura di ciclo, dopo che strutturalmente la nostra economia è stata il fanalino di coda in Europa per 25 anni, ci sembra francamente precipitoso. Dubitiamo anche che una tale potenziale discontinuità possa essere spiegata come l’effetto del piano industria 4.0, la dinamica del settore edilizio o con un evanescente fattore Draghi. Se, come temiamo, il miglioramento dell’export è favorito principalmente dai bassi salari, allora non ci farà recuperare terreno sulla Germania e non ci farà superare, di per sé, i limiti emersi finora. In assenza di una vera strategia industriale e di un nuovo ruolo pubblico l’Italia patirà ancora le debolezze dei suoi assetti produttivi, forte in alcuni comparti, ma debole in altri a partire dai servizi e dal suo congenito nanismo industriale, finendo per approfondire una società duale, in cui c’è chi cresce e si ammoderna (pochi) e chi vive un contesto stagnante o in declino (i più).