Uberizzazione del lavoro e trasformazioni del lavoro

di Francesco Barbetta
lacittafutura.it

Le tecnologie digitali ripropongono l’intreccio tra rapporti di lavoro arcaici e moderni con il supersfruttamento del lavoro che articola plusvalore assoluto, plusvalore relativo e bassi salari. L’uberizzazione del lavoro permette la sussunzione del lavoratore cognitivo, del lavoratore uberizzato e del consumatore al processo di valorizzazione del capitale.

Dalla Rivoluzione industriale, lo sviluppo capitalistico si basa sul binomio scienza e tecnologia, cioè la conoscenza scientifica trasformata in tecnica è focalizzata sulla produzione di beni. Dal punto di vista tecnologico, la Prima Rivoluzione Industriale si è basata sull’utilizzo di macchine a vapore e sulla meccanizzazione. Nella seconda, il fiore all’occhiello è stato l’uso massiccio dell’elettricità e, nella terza, l’uso di computer e automazione. È nella Terza Rivoluzione Industriale che abbiamo visto anche lo sviluppo delle Tecnologie dell’Informazione, che sono alla base dei cambiamenti tecnologici odierni, in cui gli esseri umani hanno un’interazione ancora maggiore con le macchine, cioè l’interazione tra gli esseri umani è mediata da un apparato tecnologico, come per esempio l’uso di computer e telefoni cellulari. I cambiamenti dello standard tecnologico a cui stiamo assistendo si basano su tecnologie informatiche basate sulla microelettronica che hanno avuto inizio negli anni 70, che includono apparecchiature automatizzate e informatizzate da parte della microelettronica e la cui pietra miliare è la creazione del primo computer elettromeccanico nel 1944. Da allora, la tecnologia dell’informazione ha avuto la sua crescita strutturata in quattro periodi distinti: elaborazione dati (1960), sistemi informativi (1970), innovazione e vantaggio competitivo (1980) e integrazione e ristrutturazione aziendale (1990).

In relazione all’organizzazione del lavoro, l’informatica fornisce un nuovo impulso che, insieme all’accumulazione flessibile, intensifica i livelli di precarietà e informalità. Anche se il modello flessibile ha la sua matrice organizzativa rivolta alla produzione industriale, la sua logica si allarga anche al settore dei servizi che, a causa dei cambiamenti in atto, assume una rilevanza crescente per numero di posti di lavoro e partecipazione al Prodotto interno lordo.

Gli attuali cambiamenti in atto fanno parte della cosiddetta Industria 4.0 o Quarta Rivoluzione Industriale, che combina gli elementi delle tecnologie dell’informazione basate sulla microelettronica, in particolare Internet, e l’interazione tra i domini fisico, digitale e biologico.

Anche se siamo solo all’inizio dello sviluppo di Industria 4.0, è già possibile individuare alcune innovazioni riguardanti i suddetti domini – fisico, digitale e biologico – che, in comune, si basano sull’informatica. Per quanto riguarda i domini fisici, abbiamo già veicoli autonomi senza la presenza di un conducente, come camion, droni, aerei, barche e automobili; robotica avanzata, in cui l’uso dei robot non è limitato allo spazio della fabbrica e l’uso di nuovi materiali che sono autoriparanti e autopulenti. Per quanto riguarda i domini digitali, abbiamo l’Internet delle cose (IoT), in cui ogni oggetto è ora connesso a Internet; piattaforme virtuali, come applicazioni che collegano domanda e offerta di servizi e big data che contengono grandi volumi di dati. E, infine, i domini biologici che includono il sequenziamento genico e la biologia sintetica. Tuttavia, le trasformazioni tecnologiche non si limitano solo ai dispositivi tecnologici o ai prodotti sviluppati, poiché i cambiamenti in questo ambiente modificano profondamente sia i rapporti sociali che il rapporto con la natura, cioè i rapporti di produzione, quando alterati, cambiano anche le dimensioni culturali e ideologiche, soggettive, nonché le dimensioni politica e giuridica. C’è ancora un’altra dimensione all’interno di questo quadro su cui abbiamo sempre poco riflettuto, ma che è una parte significativa della nostra vita e dell’espropriazione nel sistema capitalista: il tempo. In questo contesto esiste un’intensificazione dell’espropriazione del tempo con le tecnologie dell’informazione, un’espropriazione che inizia con la prima rivoluzione industriale nella sfera del lavoro, ma che oggi si estende a tutti gli ambiti della vita. Se con il fordismo è stato possibile mantenere la divisione tra tempo di lavoro e tempo libero, gli ultimi cambiamenti tecnologici rendono questa divisione non più possibile.

Tuttavia, espropriare il tempo di vita ha un rapporto diretto con il controllo del tempo altrui. Cioè è impossibile produrre più tempo, ma è possibile appropriarsi del tempo altrui, cosa che avviene per mezzo delle più svariate strategie quali la flessibilizzazione del lavoro, che altro non è che l’allungamento della giornata lavorativa e il ritorno a forme di sfruttamento in cui prevale il plusvalore assoluto, il trasferimento di aziende in altri paesi e continenti, dove possono essere sottoposti vasti contingenti di lavoratori a ritmi infernali e prolungati di sfruttamento quotidiano (orario di lavoro di quindici ore o più) e, soprattutto, l’uso delle tecnologie elettroniche e digitali. Sebbene i cambiamenti tecnologici siano imponenti e non abbiamo una dimensione della loro profondità, mi sento di affermare che tali mutamenti fanno parte di una strategia contemporanea di ristrutturazione produttiva del sistema capitalistico che cerca una maggiore estrazione di valore, e tale strategia non è nuova per noi. In questo senso, le trasformazioni tecnologiche portano con sé anche tecniche e modalità organizzative che mirano a rinnovare i metodi tradizionali di controllo sul lavoro. Se guardiamo al passato, il successo della fabbrica non è legato alla sua superiorità tecnologica, ma alla necessità per i lavoratori di perdere il controllo del processo produttivo, facendo un paragone con l’uberizzazione del lavoro, di cui parleremo in questo saggio, il lavoratore che lavora per le app non ha il controllo sul principale strumento di lavoro, l’applicazione. La ristrutturazione produttiva, quindi, si presenta come una delle risposte alla crisi della produttività, e non a caso Industria 4.0, per esempio, apparve come una strategia del governo tedesco nel 2010, quando i paesi stavano ancora provando a reagire alla crisi del 2008. Questa risposta è una ristrutturazione produttiva articolata, da un lato, da una costante svalutazione del capitale attraverso lo sviluppo tecnologico e, dall’altro, da un supersfruttamento del lavoro anche quando prevale il plusvalore relativoformando una nuova sintesi storica dell’accumulazione.

Secondo l’economista Ruy Mauro Marini, la categoria di supersfruttamento del lavoro descrive l’espropriazione del lavoro nei paesi a capitalismo dipendente, in cui vi è un maggiore sfruttamento dei lavoratori attraverso l’intensificazione e l’estensione della giornata lavorativa, aggiunta al fatto che il lavoratore non ha le condizioni necessarie per sostituire l’usura della forza lavoro, a causa dei bassi salari. Dato il basso sviluppo tecnologico, vi è una predominanza del plusvalore assoluto, a differenza dei paesi sviluppati, dove vi è l’egemonia del plusvalore relativo. Con la Quarta Rivoluzione Industriale, che non si limita solo alle trasformazioni tecnologiche di Industria 4.0, ma porta con sé un nuovo modo di produrre, segnato da una nuova forma di sfruttamento del lavoro, in cui bassi salari (quasi schiavitù) si mescolano ad alti salari nei settori di punta dello sviluppo capitalistico, la categoria del supersfruttamento del lavoro assume nuovi contorni. C’è ancora una volta nella storia del capitalismo, l’intreccio tra rapporti di lavoro arcaici e moderni, ma ora con il supersfruttamento del lavoro che articola plusvalore assoluto, plusvalore relativo e bassi salari.

Fatta questa doverosa introduzione, analizzeremo un caso particolare di modello di business creato per rispondere alla crisi dell’accumulazione subito dopo il 2008, ovvero l’economia delle piattaforme, facendo riferimento in particolar modo al caso di Uber.

Quando parliamo di piattaforme stiamo descrivendo un punto di produzione distinto e digitale in quanto le piattaforme reindirizzano e isolano le relazioni sociali coinvolte nel lavoro e le trasformano in relazioni di produzione. Come in un luogo di lavoro tradizionale, in cui i lavoratori timbrano il proprio cartellino all’inizio e alla fine del turno, i lavoratori dell’economia delle piattaforme si collegano a un’applicazione e, nel farlo, sono soggetti a un’autorità esterna che organizza la domanda dei consumatori, determina quali compiti devono essere eseguiti, dove, quando, il prezzo e ne controlla direttamente o indirettamente l’esecuzione. Quindi, le piattaforme, grazie ai propri algoritmi, sono responsabili della gestione e dell’organizzazione del lavoro.

Possiamo fare delle distinzioni tra le varie piattaforme ma ai fini del nostro lavoro ne tratteremo solamente due:

1. Piattaforme di lavoro digitali: piattaforme clickwork di microlavoro digitale come Amazon Mechanical Turk, in cui chiunque abbia accesso a Internet può registrarsi, far parte di una linea di produzione digitale (locale e globale) ed eseguire microlavori, sottoprodotti dell’informazione, in gran parte incentrati sulla produzione e il miglioramento dell’intelligenza artificiale.

2. Piattaforme di organizzazione del lavoro in loco: società-piattaforma che controllano e organizzano i lavoratori sul posto come autisti, elettricisti, guardie giurate, infermieri, bidelli, tra i tanti, come Uber.

L’uberizzazione del lavoro è il termine usato per rappresentare la stragrande maggioranza del lavoro offerto dalle aziende nell’economia delle piattaforme. Ha la stessa funzione del lavoro in outsourcing della aziende toyotiste, ovvero, grazie a un lavoro intermittente e informale, i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono imposizioni del capitale sul lavoro, senza più alcun conflitto sindacale. L’uberizzazione è una nuova forma di organizzazione, gestione e controllo del lavoro, adatto per un lavoratore just-in-time, sempre disponibile e scartabile.

Il termine uberizzazione del lavoro si riferisce al successo di Uber nell’utilizzo di piattaforme per controllare e organizzare il lavoro di milioni di lavoratori in tutto il mondo.

I fan di Uber e simili attribuiscono il successo di queste aziende alla tecnologia e all’efficienza nel collegare passeggeri e conducenti. Tuttavia, le ricerche già mostrano che la vera differenza di queste compagnie di trasporto rispetto alle compagnie di taxi, che hanno già una tecnologia simile, è il mancato o parziale pagamento di tasse e oneri stabiliti per il settore, la soppressione dei diritti dei lavoratori come le ferie e la tredicesima e l’intensificazione del lavoro.

I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), nel 2018 hanno svolto un ampio studio sulla remunerazione del lavoro degli autisti Uber e Lyft. Hanno intervistato 1.100 conducenti negli Stati Uniti, concentrandosi sui costi e sui guadagni legati allo svolgimento di questa attività lavorativa. I risultati mostrano che il profitto medio del conducente è di 3,37 dollari l’ora al lordo delle tasse e che il 74% dei conducenti guadagna meno del salario minimo nel loro stato. Il sondaggio ha anche rivelato che il 30% dei conducenti sta effettivamente perdendo denaro. Il reddito lordo medio del conducente è di $ 0,59 per miglio percorso (circa 1,6 km), ma quando si aggiungono le spese operative del veicolo, il profitto effettivo del conducente scende a una media di $ 0,29 per miglio.

Stanford, nella sua indagine sui conducenti Uber e tassisti australiani, suggerisce che il reddito orario netto effettivo dei conducenti Uber, dopo aver dedotto i costi totali di funzionamento del veicolo e altre spese, sia inferiore alla metà del salario minimo medio specificato per i lavoratori del trasporto passeggeri. Stanford conclude, nella sua ricerca ampia e dettagliata, che se Uber pagasse ai suoi autisti l’equivalente del salario minimo (senza modificare il suo margine) eliminerebbe completamente il suo vantaggio di costo rispetto ai taxi convenzionali. Impiegando lavoratori precari e informali, il capitale può produrre beni con un valore inferiore al loro valore sociale medio perché i loro costi salariali sono inferiori a quelli pagati per lavori formali. Di conseguenza, i beni prodotti contengono meno capitale variabile, ma sono comunque venduti ai prezzi di mercato in modo da poterne ricavare un extraprofitto.

Le società-piattaforma sono responsabili della produzione e riproduzione dell’uberizzazione del lavoro e contribuiscono al processo di impoverimento dei lavoratori. Simboli dei modelli precari di lavoro post-fordisti del recente passato, aziende come Toyota, WalMart, McDonald’s, tra le tante, cedono il passo ai modelli di gestione e controllo del lavoro di società-piattaforma come Uber, Amazon Mechanical Turk, Glovo, TaskRabbit, tra i tanti possibili esempi.

L’uberizzazione del lavoro rappresenta il movimento di espansione della produzione e circolazione delle merci attraverso piattaforme digitali di intermediazione del lavoro, comprendendo nuove contraddizioni nella riproduzione sociale e mediazioni nel movimento del valore. Data la molteplicità di varianti associate al fenomeno tuttora in atto, che già comprende impatti rilevanti in molteplici ambiti, in particolare nei settori del trasporto urbano, del trasporto di prodotti, della sanità pubblica, degli alberghi e del turismo, dei servizi finanziari, dei servizi domestici, dei servizi di bellezza…, infinita sarebbe l’indagine che spiegherebbe tutti i suoi effetti sociali.

Se vogliamo trovare una conclusione di questo lavoro e su questo punto aprire una discussione collettiva è la seguente: l’uberizzazione del lavoro è una sintesi della sussunzione del lavoratore cognitivo, del lavoratore uberizzato e del consumatore attivo al processo produttivo e all’appropriazione privata di valore, facendo parte di un movimento di riarticolazione del capitale che è prodotto e produttore di nuove socialità di rete.

di Francesco Barbetta

FONTE: https://www.lacittafutura.it/dibattito/uberizzazione-del-lavoro-e-trasformazioni-del-lavoro

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