Di Laura ti colpiscono subito la folta chioma riccia, il carisma dello sguardo. La diresti una donna africana, etiope per l’esattezza. “Eh, qualcosa deve essere successo…”: si schernisce.
Lascia intendere che la mescolanza sia la chiave di tutto, della sua vita senz’altro. Quindi della sua arte.
Perché Laura Cionci è un’artista, una di quelle che crede che l’arte debba “essere una missione, non un lavoro o uno stile di vita alla moda”, come scrive sul suo libro autobiografico “Stato di grazia”, edito nel 2020. L’ho conosciuta ai primi di settembre durante il workshop alle Murate Art District di Firenze “Incubazioni oniriche”: un viaggio introspettivo alla ricerca del proprio animale-guida, poi sfociato in una serie di raffigurazioni affisse lungo le strade della città.
Ne è nata quest’intervista, mossa dai miei interrogativi sugli intrecci tra dimensione personale e pubblica delle proprie scelte di vita e sul ruolo dell’arte in questi tempi sfidanti.
“L’arte, come la cultura e gli intellettuali, dovrebbero andare in un’unica direzione per cercare non più di sensibilizzare, visto che il tempo è scaduto, ma di accelerare questo cambiamento, di accendere la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è più che l’inizio della fine”: scrivi a pagina 17 del tuo libro. Cosa vuol dire in concreto? Tu come fai?
«Vivendo il nostro presente ci accorgiamo delle deformazioni che ci circondano: ambientali, sociali, politiche. La costrizione che abbiamo di dover accelerare il nostro movimento e le nostre faccende, che siano di natura professionale o personale, superficializza i risultati, li rende scadenti e poco efficaci allo stato attuale delle cose. La cura di cui parlo non è intesa solo come cura volta a guarire un male già esistente ma anche a insistere nel prendere il tempo necessario per assaporare o restituire, per completare e assorbire. Se non partiamo dalla consapevolezza del nostro gesto (qualunque esso sia), mi sembra altamente improbabile che ci possa essere una ristrutturazione al costante massacro, alla scarnificazione a cui stiamo assistendo/agendo. I cambi drastici sono sempre complessi e lunghi nel tempo da compiersi, soprattutto, hanno bisogno di scosse per essere attivati. Per quanto mi riguarda, questi scuotimenti sono sempre traumi che nella sofferenza mi conducono alla riflessione e cambiano costantemente le mie priorità. Il nostro sguardo è troppo lontano. È vero che bisogna guardare avanti e non dietro ma è qualcosa che si trova di fronte a noi: non è avanti ma davanti. Non possiamo osservare la cima della montagna dal fondo valle e vivere il pensiero della vetta. Un passo alla volta, focalizzando la forza nel momento del suo utilizzo, la famosa concentrazione sul qui e ora. Credo nelle piccolissime attivazioni intime, cioè quelle fragili intuizioni che nascono da un’esperienza diversa dal solito, l’avvicinarsi a uno spazio sconosciuto che può risultare scomodo e condividerlo anche con altre persone che vivono magari lo stesso spazio. Se in uno scambio si accende un attivatore intimo è già in atto una modifica. L’urgenza è nell’impostazione, nella ricezione e quindi in questa attivazione intima da cui scaturisce il cambio».
Cos’è lo stato di grazia, che dà il titolo al tuo libro? E che legame intercorre tra sofferenza e arte?
«Lo stato di grazia non è altro che la trasformazione. La nigredo, il punto più oscuro, sembrerebbe impenetrabile. Questo stato lo si vive in forma incosciente e si decifra solamente molto dopo averlo vissuto. Come l’estasi, l’illuminazione, l’incontro con i tuoi peggiori mostri. Penso che tutti hanno avuto o avranno la possibilità di vivere uno stato di grazia. La questione è rendersene conto. Trovo sempre divertente questo immaginario collettivo sulle parole illuminazione, estasi come le migliaia di iconografie che conosciamo: il senso di pace e la tranquillità arrivano solo dopo, la “luce” esiste proprio perché è immersa nell’oscurità. L’oscurità, il trauma, è lo stato di grazia. Prendete le rappresentazioni religiose dei martiri, quelle sono raffigurazioni di stati di grazia, di estasi ed illuminazioni, è Cristo nella Via Crucis mentre la sua risurrezione ne è il risultato. Quando per qualche ragione hai uno sfogo fisico, che sia cutaneo, un dolore preciso, un’infiammazione, in realtà questo è un bene, perché tutto il tuo corpo e la tua psiche stanno lavorando affinché venga espulso il problema e tu possa agire a riguardo. L’arte è quello sfogo. Come un’esplosione quasi incontrollata all’inizio, prende la forma e i connotati del trauma vissuto. Da un lato c’è l’espulsione e dall’altro lato la realizzazione fisica dell’artista al di fuori dell’artista, riconoscibile, che possa essere finalmente visibile, analizzabile e infine riutilizzabile per l’apprendimento personale e condiviso. Non siamo altro che canali: assorbiamo le circostanze, le storie, il tempo vissuto e le persone per poi rielaborarle e “sfogarle” fuori, guardandole modificate con la nostra visione, il nostro DNA modificato. L’arte ci racconta chi siamo e crea empatie fortissime, movimenti collettivi generati da un sentimento d’origine comune».
Quando, tra il 2015 e il 2018, hai scoperto di avere un cancro, hai intrapreso un tuo personale percorso di cura. Dove ti ha portata e cosa hai scoperto?
«Ho scoperto che mi sta ancora portando. Non posso rispondere alla domanda, probabilmente la risposta è alla fine di questa vita. So che ha amplificato le mie scelte, le ha rese più drastiche, ha tolto veli che nascondevano ed edulcoravano alcune realtà. Lo scuotimento per me è fondamentale, questo shakeraggio mi sposta fisicamente alla ricerca di territori e scambi. Incontri inaspettati che deviano e deviano il mio percorso. Io rimango a farmi sorprendere, rimango per cambiare ogni volta, viaggio leggera per trovare la radice».
Durante i tuoi viaggi, sei stata anche in Australia, ripercorrendo le famose “vie dei canti”, care alla cultura degli aborigeni. Esiste quindi un legame tra le energie del cosmo e quelle degli esseri viventi? Si può essere sani in un mondo malato? Raccontaci la tua esperienza.
«È veramente molto difficile per noi oggi credere alle “energie del cosmo”. Non si vedono, non si toccano, non hanno una reazione istantanea come quelle che ci aspettiamo ormai da tutto. Non siamo disposti a lavorare e vivere l’attesa sul nostro intimo invisibile, oppure non ci crediamo abbastanza. È uno sforzo essere “esseri viventi” come lo si intende nel senso più organico e naturale del termine. Non siamo come gli animali, non siamo come le piante. Abbiamo dentro di noi delle informazioni ancestrali che costruiscono la nostra essenza (fauna) e abbiamo delle informazioni cellulari, fisiche, che costruiscono la parte più fisica (flora) ma siamo prepotentemente dissociati da queste. Mentre prima della rivoluzione industriale era più spontaneo il modo di stare dentro all’ecosistema, oggi bisogna lavorare duramente per poterci rimanere in contatto, avendo comunque un impatto non sostenibile. Viviamo nell’infiammazione. Questa infiammazione si ripercuote sul nostro copro fisico e su quello eterico, sulla psiche. La natura, per miliardi di anni, ha trovato il modo di assecondare l’ambiente circostante e quindi di sopravvivere a una infiammazione globale per poi potersi sicuramente rigenerare. Noi no. Non abbiamo ancora questa conoscenza. Siamo in auto-combustione senza esserne pienamente coscienti. La mia esperienza è in continua discussione, in contrasto perenne. Trovare un punto di equilibrio tra la cura, la ricerca di questa connessione con il cosmo e gli esseri viventi e la vita con gli altri esseri umani, le mie relazioni, il lavoro, le burocrazie. Ibridare questi contenuti per sopravvivere è quello su cui impiego la maggior parte del mio tempo. Non ci si può slegare da nessuno dei due emisferi. Non si può scegliere se essere anima o animus. Devono vivere entrambi, coabitare».
Si avverte, leggendo il libro, la sensazione di solitudine che ti ha accompagnata durante il tuo viaggio iniziatico. A un certo punto, scrivi: “Mi domando: meglio annegare felici senza consapevolezza o sopravvivere vivendo da sola su una spiaggia deserta?”. Ti sei risposta? È possibile risvegliarsi senza sentirsi degli outsider?
«Credo che la risposta precedente sia anche quella a questa domanda. Sono ancora sulla spiaggia che cerco di capire come fare per far convivere l’annegamento felice con il deserto. E per ora posso dirti, no, non è possibile svegliarsi senza sentirsi degli outsider».
Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
«L’indagine che affronto ha lo stampo che ha preso dal libro in poi, dunque dalle esperienze che mi hanno coinvolta dal 2015 . Le parole-chiave sono cura, identità, radici, rito. Per ora sto lavorando su alcuni progetti qui in Italia che riguardano sempre questa condivisione della ricerca e sullo scambio di esperienze, linfa vitale per il mio lavoro e il mio percorso personale. In ballo ci sono molti spostamenti all’estero che si stanno a poco a poco concretizzando. Il mio lavoro lo prendo come un processo evolutivo, scandito dagli incontri con gli altri e dai diversi contesti e territori in cui mi trovo. Se invece la domanda era più specifica su dove e come, non posso risponderti, sono particolarmente scaramantica!».
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