Scavare tra gli scarti di un mondo grasso

Ci sono mille e più colori in questo mare solido e maleodorante che si estende per chilometri e chilometri. C’è l’azzurro delle bottigliette d’acqua, il bianco sporco delle borse della spesa, il marrone degli scatoloni, il giallo, il rosa e il verde di camice e pantaloni, il rosso delle lattine, l’argento luccicante delle batterie di apparecchi elettronici, il nero di ciocche di capelli chissà di chi. La ventiseiesima puntata della rubrica “Suture”, a cura di Valeria Andreolli.

Tu li conosci tutti. Ma non sono i colori a cui devi prestare attenzione: è il materiale di cui questi scarti sono fatti che determina il loro valore. La plastica vale cinque rupie, il cartone tre, il metallo quindici, il vetro e la gomma due. È l’incastro di molecole che li compone a stabilire il prezzo di questi oggetti che hanno esaurito il loro scopo originario e di cui i proprietari si sono liberati. Pensi spesso che se tutti passassero qualche ora al giorno con te in questa distesa, forse si farebbero qualche scrupolo in più a dichiarare finita la vita di un oggetto e dimenticarsene per sempre.

Con la spranga di ferro che tieni nella mano destra squarci un sacchetto nero e tutto il suo contenuto emerge in superficie e viene subito aggredito dalle migliaia di mosche che riempiono l’aria. Scorgi un bicchiere di plastica seminascosto tra fazzoletti sporchi e bucce di banana e ti affretti a dissotterrarlo e mettertelo nell’enorme borsa che tieni sulla schiena. I tuoi occhi vispi sono puntati sui due o tre metri attorno a te. Sai che non ha senso spingere lo sguardo troppo lontano, perché devi fare attenzione, oltre che ai reperti preziosi nascosti in questa landa coperta da vegetazione artificiale, anche a dove poggi i piedi. Una volta un ago ti si è infilato nella carne sopra a una caviglia. Non te ne eri nemmeno accorto fino al rientro a casa. La mattina seguente però bruciavi di febbre e avevi dei conati di vomito così forti che anche solo l’idea di ingerire del cibo ti faceva venire la nausea. Eri rimasto a letto con dolori lancinanti per quasi due settimane e il ricordo di quei giorni ti porta ad essere prudente, nonostante siano passati parecchi anni e numerose nuove ferite sui piedi e sulle mani. Questa massa di spazzatura riserva tante insidie quanti sono gli oggetti che ospita, perché non puoi sapere con certezza cosa si nasconda dietro un pezzo di cartone o sotto un sacchetto di plastica fino a che non lo tieni tra le mani. La discarica conosce anche altri modi per preservare la sua integrità dal tuo lento, ma incessante lavorio di cernita: ti acciacca la schiena costringendoti a stare per ore piegato con il volto rivolto verso le sue ricchezze ed esala gas nauseanti che ti entrano nelle narici e si appiccicano alla pelle. È soprattutto quest’odore che ti lascia addosso ad attirare su di te le attenzioni non volute della gente, che sul treno ti guarda con sospetto e disgusto, e dei poliziotti che a volte ti sequestrano il raccolto di una giornata intera di sudore e schiena piegata. È un odore che ti trascini fin dentro casa, dove svuoti il contenuto della borsa in cui hai riposto tutti i tesori raccattati e, nei pochi metri del pavimento della baracca in cui vivi, separi i vari tipi di materiali con l’aiuto paziente e fondamentale delle mani dei tuoi due figli. È tua moglie invece a caricarsi i sacchi di materiali smistati sulle spalle e portarli al commerciante di rottami più vicino, che li pesa, le dà il denaro che le spetta e, attraverso una serie di passaggi che non ti sono molto chiari, fa giungere il materiale che hai raccolto ai centri di riciclo, dove tutta questa materia che sembrava aver fatto il suo corso viene riportata in vita.

In lontananza vedi giungere un camion carico di nuovi rifiuti, che vengono rovesciati disinteressatamente sopra gli altri, andando ad ingrassare questo gigante sempre affamato, che, senza il lavoro, informale e costante, che tu e tante altre persone fate quotidianamente, continuerebbe a crescere, giorno dopo giorno, e presto si espanderebbe tanto da toccare Delhi, una città che non è stata clemente con quelli come te. Quando hai lasciato la campagna per venire a vivere qui, eri convinto che così facendo avresti guadagnato meglio e i soldi non sarebbero più stati un problema. Mai avresti immaginato di ritrovarti in un ambiente che ti rifiutava con tanta ostinazione, che non faceva che ripeterti che non c’era posto per te, che eravate troppi e non sapeva dove mettervi. E una città che non è in grado di dare ospitalità a te non è certo più accogliente con i rifiuti che inevitabilmente le inietti nelle vene con la tua presenza. Così hai cominciato a venire in discarica, per sgravarla dell’ingombro che le causi e perché non servono particolari competenze per setacciare scarti.

Cammini muovendo i piedi a fatica sopra questa montagna di relitti, a cui ti piace pensare come a creature inanimate che hanno esaurito la funzione per la quale sono state create, ma a cui tu stai dando la possibilità di rinascere, salvandoli da un destino di decomposizione spesso centenaria e tossicità per il suolo e l’aria che se ne devono malvolentieri cibare. Perché questa busta di plastica che ha accompagnato qualcuno nel tragitto dal mercato a casa o questa lattina che è stata utile la durata di un pasto sono cibarie che la terra impiega secoli a digerire. Tantissimi dei rifiuti che stai calpestando sopravvivrebbero non solo a te, ma anche ai tuoi figli, alcuni addirittura ai loro figli, se tu non li strappassi a quella sorte, reimmettendoli a forza nel ciclo della vita.

Scorgi un paio di occhiali da sole che sembrano intatti. Potrebbero essere un bel regalo per tua moglie.

LINK UTILI:

https://globalrec.org/ 

https://www.wiego.org/informal-economy/occupational-groups/waste-pickers

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