Riprendiamo una recensione del libro di Franco Palazzi “La politica della rabbia, per una baliatica filosofica” (Nottetempo 2021) scritta da Silvia Gola e originariamente pubblicata su Rivista Flanerì. Il libro verrà presentato il 27 gennaio a Venezia (Laboratorio Occupato Morion), il 28 a Schio (Centro Sociale Arcadia) e il 29 a Padova (Centro Sociale Pedro, all’interno di Sherbooks Winter Festival).
Per una volta cedo anche io alla tentazione di parlare di un tema partendo con uno spaccato auto-narrativo. Non più tardi di una sera di questa estate, ho avuto un confronto acceso con un caro amico che, a proposito di Black Lives Matter, si è messo a dire che sì, lui capisce le rivendicazioni, e sì, sa benissimo che negli Stati Uniti c’è un problema sistemico di razzismo, e ancora che sì, la rabbia è una modalità di azione comprensibile davanti ai soprusi subìti. Comprensibile ma non legittima, sembrerebbe: spesso a sinistra ci si ritrova infatti a disquisire se, invece che scendere in piazza e rinfocolare il proprio dissenso, non sarebbe meglio fare rappresentanza nelle istituzioni, parlare pacificamente, far valere con calma i propri diritti inviolabili. Abbiamo interiorizzato l’ossessione di tenere un profilo basso e una voce pacata per non passare dalla parte del torto, dando per assunto che il torto stia nel “come” e non nel “cosa”.
Sebbene mi fosse chiaro che la risposta alle questioni sollevate del mio amico fosse un assertivo “No”, credo di aver farfugliato qualcosa di contrariato, dicendo che no, non mi importa del buon senso quando la parte politica avversaria, ossia chi sta agendo oppressione, non usa le maniere cortesi, per così dire. E proprio perché mi rendo conto che, vissuto personale a parte, questo è un grosso tema sociale – ovvero che, nell’agone politico, «non tutti i tipi di rabbia vengono trattati ugualmente» –, quando ho iniziato a leggere il libro di Franco Palazzi ho sentito tanto una familiarità concettuale quanto un vero potenziale combattivo.
La politica della rabbia, infatti, è un proiettile diretto contro l’insidioso adagio propugnato da quanti credono che «[…] all’interno di un regime rappresentativo che garantisce una serie di diritti fondamentali, puntare sull’uso politico della rabbia costituirebbe una “mossa obsoleta”».
In questo senso non è casuale l’immagine del proiettile: è il sottotitolo stesso – Per una balistica filosofica – a indicare che una lettura possibile è quella che accomuna il contenuto del libro alla sua funzione, cioè sbaragliare il tradizionale tavolo di gioco.
Muovendo da una vera e propria “genealogia della rabbia”, in cui è palese fin da subito l’intreccio tra “rabbia-patologia” e “rabbia-sentimento” – «La rabbia è stata sin dall’inizio sia malattia che metafora, un groviglio di significati e rimandi dove medicina e politica, sapere e potere sono avviluppati irrimediabilmente […]» –, l’autore enuclea il senso profondo di una condizione dell’umano che dà problemi e che si trascina fino al nostro presente: cosa farne di queste folle rabbiose e arrabbiate?
Ancora oggi, nel contesto di un sistema politico (post)democratico, la rabbia appare come quell’indicibile sporco che si auspica possa essere annientato da una forclusione collettiva e potentissima. Ciò sembra essere vero solo per quanto riguarda la moltitudine – «la folla non è un gruppo di persone qualunque: essa è bassa tanto nell’estrazione sociale quanto nella morale» –, è di ben altra natura la risposta sociale alla rabbia di chi occupa posti di comando nelle varie gerarchie di potere: chi mai si sognerebbe di additare come illegittima l’arringa irata di un politico contemporaneo? Nessuno; sembra, anzi, esistere una sorta di patentino della rabbia a cui ha accesso chi si trova in una posizione da cui la sua voce è già udibile e tonante, mentre, ad esempio, «dai manifestanti immigrati ci si aspetta che ricoprano […] il ruolo delle vittime passive e silenziose».
Eppure è proprio quando la rabbia viene «dal basso come un pugno sotto il mento» – prendendo in prestito il titolo della raccolta di poesie di Alice Diacono – che si può sperare in una aleturgia: manifestazione di verità.
In questo passaggio, Palazzi si appoggia alla lettura di Pierre Hadot e Michel Foucault della tradizione dei cinici, i filosofi-cani della Grecia Antica, e in particolare di Diogene di Sinope, la cui esistenza riluce di un’inscindibile coerenza tra vita e pensiero. Nei cinici, infatti, «coraggio della verità e coraggio della rabbia diventano tutt’uno: la verità cinica poteva venir detta solo rabbiosamente»: la pretesa veritativa non emerge perciò da un concetto assoluto e universale di verità, ovvero non c’è qualcosa di univoco da comunicare. Al contrario, è il fatto stesso che questa verità venga urlata dal basso verso l’alto a rappresentare l’unica risposta credibile per combattere la subalternità perché le feste «non si guastano sul serio se non si è nella condizione adatta, se il nostro grido non è squillante e la nostra risata fragorosa».
Proprio contro questa subalternità – che, traslata all’oggi, è spesso subalternità tanto culturale quanto politica nei confronti della rabbia “legittima” delle destre – il libro di Palazzi ribadisce la necessità del conflitto tra blocchi socio-politici, e lo fa, da una parte, attraverso la programmatica elaborazione di una balistica della rabbia che sappia rendere conto dell’efficacia dei movimenti collettivi in atto; dall’altra, una filosofia politica della rabbia che guardi ai fenomeni in potenza e che aiuti a mettere a fuoco perché sia giusto esercitare un certo tipo di rabbia.
In un testo in cui la volontà è far sì che la filosofia illumini gli eventi del mondo senza la pretesa di arrivare per prima a dettare la linea – «In filosofia politica è di certo più frequente chiedersi cosa un movimento dovrebbe fare piuttosto che quali lezioni, anche teoriche, esso possa insegnarci» –, è lineare il fatto che venga dato ampio spazio a figure notevoli di un’ipotetica fenomenologia della rabbia.
La Seconda prte si occupa dei “franchi tiratori” e segue da vicino le vite e le opere di Valerie Solanas, Malcolm X e Audre Lorde: se la prima «predicò il proprio verbo in solitudine, restando spesso inascoltata e quasi sempre incompresa» e il secondo – rinominato da più parti “il nero più arrabbiato d’America” – mieteva consensi con il crescere della sua fama anche in quanto recepito come voce complementare a Martin Luther King Jr., è Audre Lorde a rappresentare il caso di studio più elettrizzante (nell’opinione di chi scrive, va da sé).
Lorde, infatti, non solo si esprime sulla rabbia diretta verso l’alto – «La rabbia è esattamente il tipo di strumento politico che vale la pena espropriare al padrone» – ma nel perimetro del suo ragionamento rientra anche l’idea di una rabbia orizzontale “erotica” agita nei confronti di alleate e compagne.
“Erotico” ha in Lorde un suo peso concettuale specifico; è una sorta di “radicalizzazione femminista della potenza”, un sentire parente alla gioia e nemico dell’oppressione, ed è in questo contesto che per la prima volta vediamo come la rabbia possa essere impugnata non solo contro qualcosa, ma anche in favore di qualcuno: una volta espropriata al padrone, la rabbia può cambiare di segno e diventare forza creatrice e pedagogica.
Volendo poi chiudere il cerchio per tentare di rispondere a un quesito antico e fondante come “Che fare?”, nella terza e ultima parte del saggio Palazzi analizza le pratiche e le iniziative del movimento Non Una Di Meno con riferimento alle esperienze di Argentina e Italia. Al netto della specificità del movimento transfemminista, è chiara una cosa: nel sistema sociale che delle disuguaglianze ha fatto il perno del proprio potere, per non soccombere alle cupe vampe «avremo bisogno della nostra rabbia migliore».