Un report dall’ultimo viaggio in Bosnia fatto da attiviste/i della Campagna Lesvos Calling, che hanno raggiunto il campo di Lipa, dove vivono centinaia di persone bloccate alla frontiera tra Bosnia e Croazia.
La necessità di un punto di vista autonomo, su ciò che succede lungo la “rotta balcanica“, ci ha spinto a scendere nuovamente in Bosnia Herzegovina con le staffette coordinate dal Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, nell’ambito della sinergia e della relazione tra le varie componenti della Campagna LesvosCalling.
La presenza di persone in movimento lungo il cantone di Una Sana è sicuramente minore rispetto ai mesi estivi, complici le fredde temperature e la conseguente difficoltà a tentare il Game.
Nei vari squat sono presenti alcune centinaia di migranti, mentre la maggior parte è andata a riempire il campo di Lipa, a qualche decina di chilometri da Bihać. A ridosso della città si trovano dislocate diverse strutture abbandonate, in cui le persone in movimento hanno trovato rifugio.
La speranza di tutti è naturalmente quella di stazionarvi solo temporaneamente, ma balza subito all’occhio la cura e l’atmosfera ospitale e “familiare”, che si concretizza nella condivisione di chai e parata e in grandi partite di cricket.
Ci si toglie le scarpe per entrare in casa, le stanze non hanno porte ma dei tappeti appesi per separarle dal corridoio; con una scala a pioli si può accedere alla mansarda bassa e buia probabilmente adibita a dormitorio. Il soggiorno nel quale si viene accolti è confortevole e luminoso, ci sono divani e morbide coperte sulle quali sedersi, una minuscola stufa a legna e una finestra di compensato che è stata di recente costruita. Non si può fare a meno di notare però i muri, neri, a causa del rogo causato dalla polizia. Accadde qualche mese fa, nel tentativo di costringere gli abitanti dello squat a rifugiarsi nel campo di Lipa, nel quale sarebbero stati schedati e fermati per tempo indeterminato. Su quelle pareti, su quella fuliggine qualcuno ha inciso il suo nome, disegnato una faccina con le X al posto degli occhi, una B e una S con in mezzo un cuore spezzato.
Le parole spese in quella stanza sono inizialmente pesanti, ripercorrono in sintesi i passaggi della rotta dal Pakistan alla Bosnia, e gravano sui presenti come un fantasma persecutorio, una storia sentita e raccontata in tanti simili modi da tante persone diverse passate per le stesse difficoltà, violenze e ingiustizie. L’umore cambia dirottando la conversazione su usanze, lingua, musica, sport e addirittura tifoserie che trapassano ogni confine: Lazio merda!
Si riscopre il piacere delle chiacchiere da salotto e ci sentiamo i benvenuti dai nostri ospiti che col sorriso ci avevano avvertito:
“If you come visit us, you have to stay at least 3 hours, we don’t have time for a quick talk”.
Da questo rifugio sono passati diversi giovani uomini, che hanno trovato sostegno e consiglio da chi prima di loro si era messo in viaggio ed ora si è fermato ad aspettarli, perché non si sentano persi.
Il lavoro delle reti informali di attivist* si divide in diverse attività, tutte tese a ad agevolare la vita negli squats, unici posti in cui le persone in movimento sono libere di gestire il proprio tempo e spazio e di tentare il game per giungere finalmente in Europa. La distribuzione di acqua e cibo e il supporto igienico-sanitario sono attività che necessitano di uno sforzo continuo e quotidiano.
In una manciata di ore ci si rende conto di come sia presente anche un altro attore in questo scenario, ossia la polizia bosniaca, divisa nelle differenti unità. Dai racconti e dalle testimonianze, l’azione degli agenti risulta meno brutale rispetto a quella dei loro colleghi croati o greci, ma alcuni recenti interventi fanno suonare un potenziale campanello d’allarme. Negli ultimi giorni si è assistito infatti ad un aumento del controllo nei confronti degli attivist* delle realtà informali, sempre passabili di espulsione dalla Bosnia Herzegovina per le loro attività. Se la repressione diretta contro di loro sia da inscrivere nel programma di “deportazione” dei migranti a Lipa, solo i prossimi eventi lo confermeranno o meno. Ancora una volta traspare chiaramente come le vicende bosniache vengano (sovra)determinate da attori internazionali, come l’Unione Europea, che nel campo delle migrazioni, come in altri, interviene più o meno direttamente in Bosnia Herzegovina.
La rotta balcanica può essere compresa appieno solo se la si considera da una prospettiva in grado di leggere e interpretare i principali eventi della geopolitica internazionale. Le vicende tra Bielorussia e Polonia, le tensioni tra Grecia e Turchia, il ruolo della Serbia e della Russia sono tutti fenomeni che si possono cogliere nelle strade di Bihać e tra i fuochi degli squats.
Il campo di Lipa, con i nuovi containers montati dopo l’incendio, rappresenta concretamente l’azione dell’Unione Europea. La struttura è situata letteralmente “in the middle of nowhere”, circondata solo da alberi e montagne. Incrociando alcuni residenti del campo veniamo a conoscenza che i servizi di Lipa sono reputati soddisfacenti, e ad un semplice sguardo gli interni dei fabbricati risultano ordinati e puliti. Dopo queste considerazioni però il pensiero non può che non andare ai racconti delle persone che vivono negli squats, e ci si domanda tra di noi se il cibo e un posto caldo, ma l’impossibilità di muoversi, bastino a garantire la dignità di un essere umano.
Noi crediamo che questi siano aspetti necessari ma non sufficienti, poiché le moderne strutture di questo campo rappresentano l’altro lato della medaglia, ossia la politica europea di esternalizzazione delle frontiere e i continui pushbacks illegali che ogni giorno avvengono lungo la rotta balcanica.
Per questo motivo continueremo a tenere alta l’attenzione su ciò succede in questi territori e su tutte le zone di confine, riportando un punto di vista autonomo nelle nostre città e impegnandoci a de-costruire materialmente e concretamente i confini di questa Europa “fortezza”.