“Pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica” che “trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza”.
Con queste parole si apre e si chiude una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org dal linguista e scrittore Massimo Arcangeli, sostenuto dallo storico Angelo D’Orsi e da altri nomi della cultura italiana tra cui spicca, con dolore, anche Ascanio Celestini. Uno scenario apocalittico descritto con una nota nemmeno troppo velata di razzismo anti-meridionalista che prova a squalificare uno degli strumenti messi in campo negli ultimi anni per provare a dare risposte alla necessità di un linguaggio inclusivo.
Al di là del fatto che la petizione, lanciata da oltre due settimane, ad oggi ha raccolto ventidue mila firme, poco più di quella volta a salvare la colonia felina del porto di Livorno e immensamente meno di quella che punta a bloccare la strage di delfini alle isole Faroe, non possiamo nascondere che essa abbia sollevato dibattito e livori, fatto tornare a discutere sul tema caro a tantə di noi. Eh sì, lo scriviamo con la ə, per scelta ma – a questo punto – anche per provocazione.
La petizione parla dell’utilizzo del simbolo /ə/ come principio di un crollo delle regole della lingua italiana: una “deriva” che porterebbe non si sa bene a quale scenario, ma che evidentemente è meno grave di alcune convenzioni od orrendi neologismi ormai completamente sdoganati nell’uso corrente della lingua italiana e che meno spaventano i grandi nomi dell’Accademia: “spesse volte”, “apericena”, come ci ricorda Michela Murgia. O, perché no, l’espressione “mammo” (questa sì, una vera scelta sessista che colloca la figura maschile, per cui esiste un’ampia serie di termini in grado di definire le funzioni paterne, in una posizione transitoria di accudimento indicata come propria solo della mamma, tanto da divenire, appunto, una “mamma con la o”). Oppure ancora, tutta la serie di anglicismi utilizzati ormai nel linguaggio comune, anche quando la lingua italiana prevede termini o espressioni assolutamente adeguate a esprimere un concetto.
Ci sentiamo in dovere e nella posizione di poter dire qualcosa sul tema perché, come casa editrice, da poco meno di un anno abbiamo deciso di introdurre nelle nostre pubblicazioni l’utilizzo dello schwa, il fonema incriminato /ə/. Anatema!! Libri all’indice e rogo in piazza! Cancellateci dalla mappa dell’editoria italiana, siamo pericolose sovversive! E lo scriviamo al femminile perché noi siamo tutte donne – la sottoscritta, titolare della casa editrice, e le sue collaboratrici con cui la decisione è stata presa – che si riconoscono in quel genere. Allora vi raccontiamo brevemente com’è maturata la scelta, quali sono le nostre motivazioni, e quali gravissime e irrimediabili conseguenze essa ha provocato nellə nostrə cattivissim lettorə (che, lo premettiamo, purtroppo non sono ancora milioni).
Nei nostri libri – per adesso sono tre quelli in cui l’abbiamo utilizzata – spieghiamo in varie formule così:
“Negli ultimi anni in Italia si è sviluppata un’ampia discussione sulle possibili soluzioni volte a ideare un linguaggio più inclusivo. Soluzioni che non sono ancora definitive e nemmeno determinate da regole, ma che possono diventare un’opportunità per decostruire il discorso patriarcale. In quest’ottica, Capovolte ha introdotto nelle proprie pubblicazioni l’utilizzo dello schwa: ə. Un simbolo che nel sistema fonetico identifica una vocale intermedia, il cui suono si pone esattamente a metà strada tra le vocali esistenti, e che può aiutare a superare sia il binarismo di genere, sia il maschile sovraesteso. Anche in questo volume, dunque, vi offriamo questa possibilità di lettura e interpretazione, consapevoli che sia essa stessa, più che una soluzione definitiva, un’opportunità di analisi del nostro presente”.
Consapevoli dunque che stiamo offrendo una possibilità e in qualche modo anche una forma di sperimentazione, il nostro obiettivo è chiaramente lontano dal voler imporre una regola. Quello che invece ci interessa è utilizzare lo strumento libro per ragionare sul potere – e sottolineo la parola POTERE – che porta con sé una lingua.
Allora facciamo un piccolo passo indietro e proviamo ad argomentare e contestualizzare. La nostra decisione nasce durante la traduzione del libro Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, dell’autrice portoghese Grada Kilomba, un’artista interdisciplinare che pone al centro delle sue produzioni il tema del colonialismo e degli effetti che la storia coloniale ha ancora sul nostro presente. Il libro fu pubblicato la prima volta in lingua inglese oltre dieci anni fa in Germania – dove l’autrice ha conseguito il dottorato e dove attualmente risiede – ed è stato tradotto solo pochi anni fa in portoghese, quindi in francese e, a settembre scorso, qui in Italia proprio da Capovolte.
Grada Kilomba, in occasione della traduzione in lingua portoghese, ha deciso di scrivere una introduzione ad hoc spiegando il perché di alcune scelte linguistiche, passando da un testo pubblicato in un contesto come quello tedesco e una lingua come quella anglosassone, a una versione in una lingua neolatina di un paese – il Portogallo – con una importante e dolorosa storia coloniale. Scelte che portano a un testo dal linguaggio decoloniale per nulla scontato – che evita l’utilizzo dei termini di matrice esplicitamente razzista e coloniale, anche quelli entrati nell’uso comune su cui non ci si interroga più – e il più possibile inclusivo con l’uso di alcuni espedienti, come la desinenza a/o invece che il maschile sovraesteso. Un esempio su tutti: l’importante concetto di alterità, se riferito a una persona, nel testo in portoghese viene scritto con la desinenza a/o: Outra/o. In un passaggio, riferendosi al termine “soggetto” (che in inglese è neutro – subject – mentre nelle lingue neolatine viene utilizzato solo nella forma maschile senza prevedere una forma femminile o non binaria), l’autrice scrive:
“È importante comprendere cosa significa il fatto che un’identità non esista in una lingua scritta o parlata, o che venga identificata come un errore. Si svelano così le problematiche legate alle relazioni di potere e violenza insite nella lingua e l’urgenza di incontrare un nuovo lessico”.
Una considerazione attenta che viene applicata a molto altro oltre che al solo termine “soggetto”.
Da qui nasce la nostra decisione, condivisa peraltro con l’autrice Kilomba, a cui abbiamo presentato le possibilità emerse nel dibattito italiano in termini di linguaggio inclusivo. E la scelta è ricaduta sull’utilizzo del simbolo /ə/ (per altro, al momento utilizzato da noi solo nella forma /ə/, non nella forma plurale з, lo schwa lungo).
Grazie all’importante lavoro condotto dalle traduttrici dell’edizione italiana di quel libro, Marie Moïse e Mackda Ghebremariam Tesfau’, l’edizione italiana di Memorie della piantagione è un testo per certi versi sperimentale. Che pone delle basi di forte decolonialità, fondamentali a nostro avviso per riflettere su un passato cancellato ed eliso dalla storia italiana, ma che ancora incide sul nostro presente, sia dal punto di vista delle dinamiche sociali sia sulla lingua che utilizziamo. Ed è al tempo stesso – proprio anche grazie all’utilizzo dello schwa – un testo che offre un’opportunità di lettura e analisi critica. E non soltanto con l’obiettivo di superare il binarismo di genere. Tra l’altro la differenziazione tra maschile e femminile permane, nessuna identità propria o riconosciuta viene messa a rischio, come millantato dalla petizione degli esimi professori. Anche perché Capovolte rimane una casa editrice decisamente attenta a utilizzare i termini al femminile quando necessario, anche scontrandosi con istituzioni e contesti che in questi anni ancora non si sono dimostrate pronte a farlo. In un dei nostri titoli utilizziamo (anche qui azzardando?) la formula “difensora indigena per il pianeta”, riferita alla straordinaria figura di Berta Cáceres. Ma, tornando allo /ə/, obiettivo è anche quello di andare oltre l’utilizzo obbligato nella lingua italiana del maschile sovraesteso.
Avremmo potuto fare scelte diverse? Sicuramente. Avremmo potuto iniziare a utilizzare il femminile sovraesteso, ad esempio. Fare come le femministe cilene che parlano di corpe, anziché corpi, quando il termine è riferito alle donne o alle soggettività non binarie (peraltro in un nostro libro tradotto manteniamo questa espressione, per restituire il senso di quell’utilizzo, collocandolo nel contesto di riferimento). Avremmo potuto scegliere altre soluzioni diverse dallo /ə/, magari a/o come nell’edizione portoghese di Memorie della piantagione, il che comunque avrebbe confermato un forte binarismo, limite che Kilomba riconosce a quell’espediente, definendolo non esaustivo. Oppure avremmo potuto evitare di occuparci del problema. No, questo probabilmente non avremmo potuto farlo.
Ed è proprio su questo punto che sconcertano il testo e il motivo alla base di quella petizione. In cui nemmeno in un passaggio si fa riferimento alla questione in sé. Al POTERE determinante che porta con sé una lingua. Si può essere d’accordo o meno sulla soluzione individuata, che può piacere o no, essere più o meno funzionale, più o meno orecchiabile, più o meno comprensibile. Che può determinare problemi come quello della lettura nei dispositivi per persone ipovedenti, forse risolvibile con un aggiornamento alla base degli stessi software, o difficoltà per chi ha problemi di dislessia.
Ma non si può prescindere dal perché si sia iniziato finalmente a ragionare sul tema. E poi, soprattutto, vogliamo sfatare il mito dell’imposizione. Ecco, questa proprio non ci appartiene. Ci appartiene la pretesa di porci di fronte una questione o un’ingiustizia sociale e provare ad affrontarla. Ci appartiene la pretesa di chiedere diritti per tuttə e batterci contro il mondo ancora sessista e profondamente razzista del lavoro e, aprite le orecchie, dell’Accademia (e su questo, ancora una volta vi invito a leggere la narrazione di Grada Kilomba sul suo inizio del percorso di Dottorato), questo sì. Ma di imporre una regola linguistica, proprio no. Effettivamente non siamo nessuno per farlo e non lo pretendiamo.
Quello che vorremmo è far sì che le lettrici, i lettori, lə lettorə di Capovolte abbiano uno strumento in più per ragionare sul presente, anche attraverso l’utilizzo della lingua. Strumento che non ha ancora provocato mutazioni, disforie di qualche sorta, pericolosi rischi sociali, ma su cui stiamo ricevendo riscontri più o meno positivi, ma anche molti consensi.
Quello che invitiamo ogni persona a fare è provare a soffermarsi sulla questione, non del simbolo ə, ma delle motivazioni che hanno portato alcunə a scegliere lo ə o altre possibilità. Forse questo sì che potrebbe essere un bel momento di confronto. Un confronto che sicuramente però fa più paura della paventata deriva linguistica che le persone ignoranti come noi potrebbero provocare.
Chiudiamo con altre parole di Grada Kilomba, che ringraziamo ancora una volta per averci accompagnate con la sua arte e la sua profondità di pensiero anche in questa riflessione.
“Non posso evitare di scrivere un ultimo paragrafo per ricordare che la lingua, per quanto poetica possa essere, detiene una forte dimensione politica capace di creare, fissare e perpetuare relazioni di potere e di violenza, dato che ogni parola o termine che usiamo definisce il posto di un’identità. In ultima analisi, attraverso le parole e i termini, la lingua ci dice costantemente chi è normale e chi può rappresentare la vera condizione umana”.
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** Ilaria Leccardi Giornalista, autrice, mamma di Bianca e Daniele. Nel gennaio 2019 passa dall’altra parte, fondando la casa editrice Capovolte, con l’obiettivo di raccontare storie di donne, da una prospettiva diversa.