Più o meno ignorata dalla narrazione pubblica, martedì 5 aprile si è consumata al Senato una votazione molto significativa.
Con 189 voti a favore, un astenuto e nessun contrario è stato approvato il disegno di legge (già approvato alla Camera dei Deputati il 25 giugno del 2019) che prevede l’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.
Il Senato ha inoltre confermato la scelta della data proposta, il 26 gennaio.
Partendo dal presupposto che vi sia qualcosa di molto inquietante nella volontà e nella priorità conferita dal Parlamento, attraverso le sue due camere, di istituire una giornata dedicata alla memoria di un corpo armato, vi sono ulteriori elementi che rendono questa scelta preoccupante in termini storici.
Questo disegno di legge si delinea come un’ulteriore accelerazione, un passo avanti in quel processo di annacquamento e svuotamento degli eventi del recente passato su cui poggia la faziosa ricostruzione storiografica che le istituzioni nazionali ed europee portano avanti da tempo e su più livelli. Per fare due esempi, è sufficiente segnalare la risoluzione prodotta dal parlamento europeo nel settembre del 2019, nella quale, al fine di sottolineare l’importanza della costruzione di una memoria europea condivisa, viene elaborata una versione storiografica tesa ad equiparare nazifascismo e comunismo, sfumando la narrazione degli eventi, delle responsabilità e dei ruoli avuti all’interno della Storia e poi nel secondo conflitto mondiale.
Sullo stesso paradigma, come secondo esempio, nasce la Giornata del Ricordo nostrana, ne sono la riprova le annuali strumentalizzazioni da parte di gruppi neo fascisti, il clima di intimidazione e censura che grava sugli storici che fanno ricerca sul tema e, di fatto, il suo essersi costituito come baluardo delle tesi revisioniste sulla Resistenza.
Su questa medesima linea programmatica si inserisce quindi la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini” e lo fa innanzitutto per due ragioni molto chiare che attengono entrambe alla data scelta.
La data del 26 Gennaio infatti chiude il metaforico accerchiamento portato alla scomoda Giornata della Memoria che si celebra il giorno seguente e, assieme al Giorno del Ricordo il 10 febbraio, completa questa compulsiva maratona della memoria. Questo incalzare e susseguirsi di eventi istituzionali nell’arco di due settimane, catalizza la narrazione pubblica con la pretesa di assolvere e semplificare, in qualche giornata di eventi formali o di attività nelle scuole, temi storici e sociali profondamente radicati nella memoria del paese. L’unica conseguenza di questo approccio semplificante e banalizzante è la confusione. Una confusione molto pericolosa e per nulla neutrale. In questo clima hanno da sempre cercato legittimazione le contro narrazioni di partiti e movimenti fascisti o velatamente tali, ma questo disegno di legge conferisce un’ulteriore legittimazione istituzionale a questa tendenza.
Ecco quindi la seconda ragione per la quale diviene centrale il ruolo della data scelta e per chiarirlo sono sufficienti le parole stesse del testo che ascrivono la motivazione dell’istituzione della giornata “…al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano.”
È così che nella nebbia storiografica, nella confusione della memoria, la battaglia di Nikolajewka smette di essere una delle più sanguinose battaglie della ritirata italiana in Russia, emblema del disastro politico/militare del fascismo. È così che un avvenimento che vede l’Armir (Armata italiana in Russia), con le sue tre divisioni alpine Julia, Tridentina e Cuneense, nel ruolo di oppressore ed occupante, dal 1941 al fianco della Werhmacht nell’invasione dell’Unione Sovietica, viene manipolato, distorto al punto di farne un simbolo dell’eroismo del Corpo d’armata alpino. Una battaglia, è importante ricordarlo, in cui l’immane sacrificio in termini di vite umane compiuto dai soldati italiani servì a consentire alle forze dell’Asse di uscire dalla morsa in cui erano state rinchiuse dall’Armata Rossa. Su due livelli dunque la data e le motivazioni si rivelano irricevibili dal punto di vista storico. In primo luogo, si tratta di celebrare probabilmente uno dei momenti storici più bassi della storia militare del corpo degli Alpini sia sul piano politico che militare, in cui i soldati loro malgrado si sono trovati a combattere e morire dalla parte sbagliata della storia, peraltro male equipaggiati, abbandonati a stessi dal regime fascista e dileggiati dagli stessi alleati tedeschi. Secondariamente vi è poi il totale controsenso nel “…promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale…” facendo riferimento ad un episodio che vede gli alpini nel ruolo di invasori, a meno che non si intenda suggerire che sia legittimo invadere altri paesi nel nome dell’interesse nazionale.
È così che inizia l’oblio della storia, quando la memoria dei protagonisti viene sovrascritta dalla volontà politica dei potenti di turno di narrare in veste ufficiale i fatti. La confusione è un grandissimo alleato in questo, quando vanno scomparendo i detentori della memoria diretta degli eventi, allora si fa avanti l’istituzione che catalizza e formalizza la memoria collettiva. La smussa, la rende adatta ai significati ed alle contingenze del presente. Così il 26 gennaio si celebrerà la memoria dell’eroismo del Corpo di armata alpino, e poco importa se sarà in occasione di una ricorrenza che li vedeva combattere a fianco dei nazisti. Come spiega esultante il governatore del Veneto Luca Zaia “I caduti della guerra, sulle trincee della Marmolada o del Lagazuoi, ci hanno tramandato esempi fulgidi di eroismo e di attaccamento alla libertà; in tempo di pace non c’è stata una sola situazione di pericolo e difficoltà per la gente, terremoti, alluvioni, crisi di ogni genere, nella quale un gruppo di Alpini non sia stato il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via.” È possibile così sguazzare come fa il governatore in una dimensione che mischia Prima e Seconda guerra mondiale, operazioni di supporto ai civili e chi più ne ha più ne metta.
Sulla stessa linea si pone il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà che riferendosi alla giornata istituita afferma essere “…un segno di riconoscenza nei confronti degli Alpini, per il loro sacrificio, per il coraggio e per i valori che da sempre portano alle nostre comunità: parliamo di impegno, solidarietà, volontariato e fratellanza”. La domanda che emerge lampante è quale sia il nesso tra questi valori che caratterizzano il corpo degli alpini e questo particolare episodio scelto per la commemorazione e perché invece non si sia deciso di celebrarla proprio in una data in cui ricorrono queste numerose imprese civili che entrambi i politici enumerano. Sembra esserci la volontà più o meno conscia di celebrare in realtà quella congerie confusa di nazionalismo, patriottismo tossico, ricerca di gloria e onore attraverso pulsioni guerrafondaie che non possono essere espresse apertamente e che quindi trovano copertura in quei “valori positivi” che il corpo ha poi personificato in altre occasioni. A questo proposito sarebbe utile per tutti coloro che hanno preso parte a questa decisione leggere le centinaia di testimonianze e memorie di soldati italiani che hanno partecipato alla campagna ed alla successiva ritirata dalla Russia, dalle quale emerge potentissimo il rifiuto della guerra, l’improvvisa consapevolezza di essere dalla parte dei brutali conquistatori, la disillusione dovuta allo sgretolarsi della propaganda fascista di fronte alla realtà dei fatti, la rabbia per l’impreparazione e la corruzione del regime che si era tradotta in una tragedia militare. Non a caso a tutti coloro che tornarono fu intimato con le minacce di non fare parola con nessuno di quanto visto, non a caso moltissimi di questi soldati decisero poi di unirsi alla Resistenza.
Questa è la memoria che dovremmo coltivare, che ci restituisce la complessità piuttosto che semplificare, che illumina quei coni d’ombra della storia che non sono ancora stati elaborati e compresi piuttosto che tracciarvi una linea sopra passando oltre.
Sempre di più si rende palese l’uso politico e strumentale che può essere fatto della memoria e della storia per legittimare le decisioni governative odierne, dalle scelte attinenti al modello economico sino a quelle militari. La lezione che possiamo trarre è che sia sempre più necessario prescindere dal ruolo dello Stato come costruttore di una memoria condivisa e pacificata. Diviene quindi prioritario articolare nuovi cammini, luoghi e momenti per costruire la memoria a partire dalle comunità ed in funzione di esse, prescindendo dagli eventi imbalsamati dei contesti istituzionali, rimettendo al centro una prospettiva, un filtro di lettura degli eventi storici che pone al centro la dicotomia tra dominati e dominanti, tra potenti e popoli.