Vapori di mercurio, di Andrea Benati Romagnoli

di Mauro Baldrati

Segnalo questo romanzo – o meglio, “racconto” – uscito nel 2020, scritto da un autore esordiente bolognese. Mi sento di definirlo non adatto a chi cerca una trama che fila, con un inizio, uno svolgimento e un finale; a chi predilige la narrazione lineare, con una melodia consolidata. Invece è raccomandato a chi è interessato alle scritture avventurose, o forse avventuriere, o addirittura irregolari, alle atmosfere oniriche, ma sempre fieramente materialiste. E’ consigliato a chi ama i testi “ambientali”, ovvero in cui i luoghi, gli oggetti, il paesaggio con le sue suggestioni “entrano” nel climax narrativo come veri e propri personaggi che sembrano parlare con voci proprie. A chi ama lasciarsi affascinare dal mistero.

Infatti il Narratore è una voce abbastanza misteriosa, un’entità introversa che si muove in un territorio di montagna, come potrebbe esserlo l’Appennino tosco-romagnolo, anche se potrebbe essere qualunque Appennino del pianeta. Forse è in cerca di qualcosa, o di qualcuno. Si muove nello spazio, o forse nel tempo, entra nei bivacchi di montagna, luoghi dove lasciano tracce i viandanti in transito, puntualmente registrate dalla steady-cam letteraria che combina chimicamente le immagini con le parole, il reportage con la poesia in prosa.

La scrittura è calibrata, senza un aggettivo di troppo, un flusso che trascina con sé il lettore nel suo viaggio psichico materialista. Anche la veste grafica è precisa come un codice miniato, stampato su robusto supporto semicartonato, con un’immagine di Rocco Lombardi.

Il libro, composto da 191 pagine, non è più disponibile, né in libreria né sul web. Per complicati motivi editoriali l’autore è rientrato in possesso dei diritti e dispone ancora di un piccolo numero di copie. Se qualcuno fosse interessato può scrivere a questa mail:
andreasantasofiaATgmail.com

Di seguito pubblichiamo alcuni estratti, scelti a caso aprendo il libro qua e là.

* * *

 
Città di notte. Tutte le finestre ancora spente. Adesso anche le tue.
Giù dalle scale, la luce dell’atrio filtra fra le stecche d’alluminio sul vetro temperato del portone e va a spezzarsi sopra il marciapiede.
In strada solo muri e asfalto. Riflessi di lampioni sulle lamiere delle auto in sosta. Le poche che girano sottolineano il silenzio che si lasciano dietro. Nessuno che ti possa domandare dove vai, dove andrai mai, dritto oltre la fermata, deserta, con quel sacco sulle spalle. Ha altro da pensare chi esce a quest’ora. E chi rincasa probabilmente non vuol più pensare a nulla.

Sere fa una ragazza africana in attesa di clienti sulla panchina all’incrocio del viale, a sollevare le voci indignate del vicinato, vadano altrove i parafulmini della vergogna. Tutto per una sentinella che era minaccia giusto per se stessa.
Il traffico aumenta, piano. Quando puoi passi dai giardini pubblici, per tenere lontane le nenie delle ambulanze. È all’alba che schiantano le coronarie.

Ha occhi verdi la barista, e la pelle chiara. Forse è meno giovane di come ti appare. È alta, e non soltanto per la pedana di legno: la stessa che hai calcato nelle tue estati in gelateria, convinto che quei dieci centimetri in più servissero a incutere deferenza. Poi ti hanno detto che il legno era lì per alleggerire il mal di schiena di una giornata alla macchina del caffè.

Attende la tua ordinazione, con garbo, il capo reclinato di fianco. Prima di lei, al bar del bivio caffè e cortesia erano del genere che non si nega nemmeno ai clienti difficili da inquadrare. Non fa caso a ciò che hai addosso, o non lo dà a vedere. Al riparo di un banco, o di un ruolo, è più facile limitarsi a un contegno piuttosto che esercitare il fascino insidioso di un gesto, come quello delle donne che allineano i piedi uno avanti all’altro. Lo percepisci che quel contegno, o quel fascino, se lo stiano confezionando: ma resistere o no è un problema che ti devi porre ugualmente.

Si mostra sereno il cielo stamattina. E rimane tale, ma il sole è ancora troppo fiacco per asciugare la guazza di una notte di bonaccia, mentre insisti, ottuso, avanti e indietro fino ai Ronchi, alla ricerca di un accidente di sentiero, forse estinto, che scenda a Traverseta.
Devi accontentarti di un semplice varco fra cespugli, oltre cui si apre una dorsale di strati di roccia esposta a sud, fra chiazze di boscaglia.
Lo imbocchi. Cammini lento, a scatti.
Osservi intorno, quasi a ogni passo.
Su un terreno esiguo è normale che crescano a stento le querce.
Ma qualcuno ne ha segato i rami più bassi, nei punti di intersezione: c’è di che esplorare pure dove ci si sente di casa. La presunzione è la vertigine di chi crede di non soffrirne.
Fermi la tua discesa sul ciglio di una bancata di arenaria, più massiccia di quelle che ti sei lasciato alle spalle. Cerchi il modo di proseguire. Guardi in giro. E di sotto. Fra le chiome degli alberi c’è un tetto. Integro, rivestito di un telo di pvc trasparente, fissato con un sistema di ciottoli e fil di ferro: il pallore lontano e indecifrabile di dieci giorni fa. Era un riflesso di pioggia.
Fra una cortina di ginestre accedi al falsopiano su cui posano i muri. Alla base si ispessiscono “a scarpa”: un espediente per renderli solidi, e che qui ha retto al tempo. Manca il consueto assedio dei rovi.
Gridi un “C’è nessuno?” per prevenire un impatto imbarazzante. Nulla.

Con un amico riflettevo sabato che, almeno per cipolle e patate, avere o no un frigorifero non fa differenza. E, comprate o coltivate che siano, non costringono a eccessivi andirivieni. Ho imparato come si conservano: al buio, al fresco e all’asciutto (di sotto andrebbero benissimo, tenute lontane da terra) separate fra loro, in cassette a strati singoli, coperte da carta di giornale, ma in modo che in mezzo circoli un po’ d’aria. Non vanno lavate. Le cipolle, piuttosto, andrebbero asciugate appena raccolte. E comunque basterebbe controllare ogni due o tre settimane che non germoglino.

Da una panca a ridosso di un tavolo di faggio sbilenco, piazzati chissà quando alle spalle della statale, ogni tanto si sente il rombo di una moto che scende dal valico. Preme, sopra, un cielo pesante che sembra non tenersi più, e brontola. Ma se pure si mettesse a piovere in venti minuti saresti al coperto.
Un sorso d’acqua e un ripasso alla mappa, per riconoscersi fra montagne percorse quasi a memoria. Salvo Traverseta.

Sfiori con le dita il freddo della stufa. Somiglia a quella a cui si scaldavano tua madre e i suoi fratelli. Non erano lontani dalla bassa, ma non ne percepivano gli umori. Non immaginavano che le loro colline fossero destinate all’arroganza dei lanzichenecchi che, di lì a pochi anni, sarebbero saliti a predare coi loro mastini, per estendere periferie che gli andavano strette, spinti dal bisogno di sentirsi signori di un territorio che, prima dell’occupazione, era campagna quanto questa, senza abbaini, videocamere e recinzioni schermate da siepi di cipresso americano.

Che effetto ha un luogo simile sugli occhi di un bimbo? Che magari non ne ha mai visto uno dove non ci sia anima viva, non ci siano strade, edifici in piedi, funivie, pali della luce, campi coltivati o rumori di motore, se non i ronzii di aerei nascosti dal cielo. Un contesto che appare troppo grande per poterne fuggire, in cui chissà se gli rimane poi la voglia o la paura di tornare.
Nora avrà avuto in mente una cosa del genere mentre ti salutava, confessandoti di non aver mai trovato il coraggio di domandarti come mai, prima di lei, in casa tua non fosse mai entrato un bambino, e tu non avessi mai nemmeno ipotizzato di condividere l’abitare.
Così non avete avuto modo di discuterne: posare ogni sera la propria testa su un cuscino, e accettare insieme l’arrivo della notte, non lo si può fare a semplice titolo di cortesia.
Questo, giusto questo, per quella medesima cortesia, siete riusciti a dirvelo?

Serata di caldo feroce oltre il portone.
In piedi sull’asfalto, ferma, una donna anziana ansima in un vestito spiegazzato di tela celeste, da cui spuntano due gambette divaricate infilate in ciabatte di plastica. Tiene in mano un guinzaglio, allentato, con un bastardino, anche lui immobile e perplesso. Cercano nel tuo sguardo una qualche via di fuga dall’assedio di quei muri, in cui si è accumulata la vampa di un sole che ancora non vuol saperne di tramontare.
Abbassi gli occhi e sali in auto.

Tutta la notte dovrai tenere spalancato il capanno delle Lastre.
A quello ti sei dovuto adattare, oggi.

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