di Giovanni Iozzoli
C’era una volta un reame felice e pacifico, guidato da un presidente-giullare. Un giorno un re-orco, che dominava su un vicino regno barbarico, decise di invadere il paese felice…
Dentro il contesto terribile che stiamo attraversando, la cosa più importante è cercare di cogliere e interpretare le correnti sotteranee che orientano la coscienza collettiva – soprattutto su una webzine che si occupa di politiche dell’immaginario. Lo schieramento pro-Nato e anti russo, in Italia, è stato particolarmente solerte, univoco e organizzato, fin dall’inizio delle ostilità: praticamente tutte le testate giornalistiche e le agenzie di coumicazione hanno abbracciato simultaneamente – a mò di stormo – la stessa versione farlocca e ipersemplificata dei fatti di Ucraina. Il simpatico comico con elmetto, il dittatore pazzo, la barbarie asiatica contro la civiltà europea: una specie di favola post-moderna, raccontata mediante cospicui investimenti in termini di uomini e mezzi. Un flusso potentissimo di immagini, commenti, invettive, inchieste, emozioni a distanza, che non ha molti precedenti.
Alla base di questa onda di comunicazione unidirezionale, c’è l’osso di una schema narrativo che gli italiani stanno subendo da 2 mesi, nel quadro di una strategia di infantilizzazione del cittadino-spettatore, che ormai è diventata prassi collaudata. Quando si parla di “infanzia abbandonata” non si dovrebbero compiangere solo i piccoli ucraini preda di trafficanti al confine polacco, ma anche i destini dello spettatore italiano medio, ridotto ad una condizione puerile, senza guida, privato di ogni capacità di giudizio, senza quei minimi elementi di conoscenza che possono permettere l’esercizio delle prerogative dell’età adulta. Anche al confine delle nostre coscienze si sono installati trafficanti di ogni genere – conduttori, editorialisti, politicanti, esperti vari – che si impongono come i guardiani della soglia del politicamente corretto: una volta stabilito il limes invalicabile, neutralizzano e infangano qualsiasi tentativo di “problematizzare” una vicenda geopolitica oggettivamente complicata.
Inutile dire che si tratta del medesimo schema comunicativo usato in due anni di governo pandemico della società, traslato pari pari – dalla sera alla mattina, come se nulla fosse – dal terreno dell’emergenza sanitaria a quello della guerra. Così come con la stessa nonchalance si è passati dalla chiusura di uno stato di emergenza all’apertura di quello successivo, senza alcun dibattito parlamentare, ostentando un doveroso distacco da sentimenti e opinioni del paese reale. Dentro la crisi democratica dei sistemi tardo-liberali, chi è al governo assume la guida solitaria del paese, in totale indipendenza dalla società civile, dai suoi corpi intermedi e persino dal parlamento repubblicano. Questo è ormai il paradigma della governance in Italia – piena autonomia delle funzioni esecutive, rivendicata e giustificata da condizionalità poste come dogmi: ce lo chiede l’Europa, ce lo chiede la scienza, ce lo chiedono i mercati, ce lo chiede il “sistema di alleanze in cui siamo inseriti”.
Ridurre un popolo allo stato puerile è effettivamente la migliore strategia di dominio possibile. I bambini a volte sono capricciosi – magari dentro le urne –, ma alla fine restano sempre consapevoli del loro status di minorità: anche il bimbo più disobbediente non si sognerebbe mai di prendere il posto degli adulti e spodestarli; poi si accontentano di poco – qualche favola ben raccontata, qualche premialità occasionale. Un bambino è sempre un bambino: non dispone delle competenze e delle informazioni necessarie a mettere in discussione ciò che gli adulti fanno e dicono per il suo bene. Da questo punto di vista gli ultimi anni sono stati devastanti, per la nostra società, i peggiori dell’epoca costituzionale. Anni che hanno rappresentato un autentico laboratorio per la governance delle crisi future, più che per la gestione delle emergenze sanitarie presenti. La vita di decine di milioni di italiani presa in carico a mezzo Dpcm.
Quando è cominciata questa regressione nel rapporto tra media e opinione pubblica? Indietro, molto indietro, già ai tempi della crisi della vituperata prima repubblica – gli anni in cui eravamo un popolo litigioso, casinista, mediamente informato. Lo schema “onesti contro corrotti” fu forse la prima applicazione del “canone semplificato” che l’intellettuale massa delle comunicazioni è chiamato ad applicare nella formazione della pubblica opinione. Il risultato è stato l’avanzare di un paio di generazioni senza memoria, senza capacità di giudizio critico, in grado solo di sbottare periodicamente nelle urne, che diventano la valvola di sfogo di un sistema bloccato.
Oggi, trascorsi i primi due mesi di guerra, possiamo trarre qualche elemento di bilancio sui risultati di questa campagna ideologica, in termini di risposta della “pubblica opinione”. L’impressione è che dentro la società italiana gli elementi di criticità, di renitenza o di refrattarietà, rispetto ad un coinvolgimento del paese dentro la crisi ucraina, siano largamenti prevalenti. Il “bombardamento umanitario” dei nostri TG non ha raggiunto i suoi scopi. Nei luoghi diffusi della socialità urbana, i toni di intransigenza bellicista sono inesistenti e restano sempre distinti dalla legittima solidarietà umana verso le vittime civili. Campeggia ovunque la preoccupazione e la sensazione oscura di un precipitare degli eventi fuori controllo. Nelle (poche) assemblee operaie tenutesi in giro per l’Italia, la presenza di lavoratori stranieri, spesso provenienti da paesi sconvolti da altre guerre, ha immesso nella discussione punti di vista alternativi che nelle sedi ufficiali non troverebbero spazio. Molti italiani sembrano aver capito che questo è uno scontro tra America e Russia e l’onnipresente leadership ucraina ha una funzione meramente decorativa ed eterodiretta; molti si interrogano sul senso e le ragioni di una rottura economica sanguinosa, con il nostro principale fornitore di materie energetiche; molti intuiscono che le prime vittime delle sanzioni non saranno “gli oligarchi” ma i conti correnti degli italiani; molti hanno capito che la faccenda potrebbe realisticamente degenerare in conflitto mondiale. Tutti hanno la percezione, vaga eppure insistente, che si sta entrando in un’era di miseria di massa, razionamenti energetici, cicli economici stravolti da inflazione e guerre.
Che il clima nel paese sia improntato alla sfiducia è abbastanza evidente per chi ha le antenne dritte e un minimo di pratica sociale. L’effetto di compattamento intorno alla suggestione di un neopatriottismo euro-atlantico, è solo un auspicio, un accorato appello di politici e giornaloni, che cade ormai nel vuoto. Contemporaneamente si va sgretolando il blocco di potere che si era costituito intorno alla figura di Draghi – così come l’abbozzo di blocco sociale che il suo intervento pareva evocare. Confindustria, che aveva salutato il premier come un messia, comincia a rumoreggiare: il PNRR sarà tutto da riscrivere e saltano quindi previsioni, prospettive, accordi e relative cordate. I gruppi dirgenti continuano a recitare le loro farse più o meno istituzionali – fermezza antirussa e fiducia nella ripresa -, ma le chiacchiere e i giochi di prestigio non reggono molto, davanti alla brutale caduta del reddito medio, in un paese in cui la struttura del salario è rimasta sostanzialmente quella del 1993.
Ma la cosa più difficile da far digerire alle opinioni pubbliche occidentali, è la giustificazione storica di questo clima di mobilitazione bellica. Contro chi dobbiamo riarmarci e in nome di quali valori? Gi interessi geo-politici su quali armamentari ideologici possono contare?
Il conflitto in corso non si può rappresentare, come ai tempi della guerra fredda, tra due sistemi alternativi e in competizione. Quella contraddizione epocale la potevi spiegare e gli schieramenti dei partiti, dei sindacati, della stampa, della cultura popolare, prefiguravano chiaramente questo scontro tra campi. Oggi siamo dentro la contesa classica tra potenze capitalistiche e pur di differenziarsi tra loro, i due nemici devono sbandierare vessilli fittizzi: il Gay Pride contro il Patriarca Kirillos – questo offre il menù, queste sono le varianti possibili all’interno del medesimo modello capitalistico.
Dentro questo nuovo mondo, senza ideologie e senza speranze, nel teatrino delle ombre a cui è ridotta la politica, il profitto resta l’unica misura, l’unico parametro, l’ultimo elemento di senso che le nostre società possono esibire, per ribadire la propria razionalità. È evidente che se l’”american way of life” è il senso di tutto, un premier che dice “condizionatori o pace”, sta segando il ramo su cui è seduto. Difficile chiedere sacrifici di guerra, se prometti che degraderai lo stile di vita occidentale che è l’unico stendardo patriottico di cui disponi: nelle condizioni attuali, crei solo un cortocircuito valoriale nella testa della gente. Quella che la sociologia borghese ha definito in questi anni “la faglia populista”, cioè la dissonanza cognitiva tra “popolo ed elite”, è ben lungi dal ricomporsi: la guerra trasformerà la faglia in una voragine.
Questo dentro una tempesta potente che sta investendo le società occidentali: la destrutturazione ulteriore dei mercati del lavoro, con nuovi massicci esuberi di forza lavoro in ogni settore; la transizione energetica, che sarà lunga, dolorosa e inevitabile; la riconfigurazione dei consumi e dell’idea stessa di proprietà diffusa, cardine del vecchio mondo: una sequenza violenta di crisi/ristrutturazioni che si sovrapporrano per ridisegnare gli assetti di sopravvivenza del sistema capitalistico.
Dentro questi processi epocali, i più sbandati sembrano i vecchi sindacati. La CGIL – che pure conserva ancora una poderosa macchina organizzativa con migliaia di delegati piantati in ogni angolo della produzione sociale – è semplicemente sparita dall’agenda politica, in un incredibile dinamica “retrattile” che l’ha resa nel giro di pochi anni, un ente inutile. Poi gli apparati manifestano delle loro leggi di sopravvivenza – ecco, qua ci sta bene la famosa “resilienza”: la resilienza burocratica che ti fa tirare a campare anche se non servi più a un tubo -, ma il destino è comunque segnato, Il gruppo dirigente costruito intorno a Landini è quello dal profilo politico più basso in assoluto nella storia confederale: epidemie, guerre, esplosione inflattiva, non c’è niente che possa indurre la tartaruga a tirare fuori la testa dal guscio. I primi a essere convinti della avvenuta disintermediazione, sono proprio loro.
Eppure è facile immaginare che la grande onda inflattiva, innescherà inevitabilmente il confitto di classe. Non è questione di coscienza: classi, ceti e corporazioni saranno gettati nell’agone e costretti a competere per riguadagnare terreno ed evitare il proprio disastro. Da questo punto di vista, l’inflazione esprime perfettamente la nuda verità del conflitto distributivo. E fa giustizia della vecchia idea per cui gli Stati, attraverso una saggia politica dei redditi, possano “contenere” la bestia della lotta di classe.
Quanto alla politica, non serve più neanche parlarne. I ceti politici europei sanno che potranno governare i loro popoli solo dentro una dimensione di eccezionalismo permanente. Ma la guerra sta rivelando il bluff della dialettica fasulla destra/sinistra, progressisti/populisti. Negli anni scorsi la contrapposizione tra europeisti e sovranisti è stato il leit motiv di ogni confronto: e adesso ci ritroviamo, nel dramma in corso, con gli europeisti che non difendono l’interesse europeo e i sovranisti che non difendono la sovranità nazionale. Era tutto finto: anni di contrapposizioni, appelli al voto, pensosi dibattti su Ventotene – tutto fumo. Europeisti e sovranisti lavorano tutti per il re di Prussia, che sta dall’altra parte dell’oceano. Da questo punto di vista, l’attuale scenario di guerra assume le forme di un salutare disvelamento.
Certo, vedere i nostri politici sdraiati sul più duro oltranzismo euro-atlantico, fa ancora impressione a qualcuno, ricordando una storia di strategie e alleanze internazionali democristianamente più dignitosa del presente. Ma erano davvero altri tempi. Adesso possiamo paragonare Di Maio & C. ai gruppi dirigenti insediatisi nelle repubbliche baltiche e nei paesi ex sovietici: la fedeltà alla Nato è considerata non un vincolo ma una garanzia di sopravvivenza, nella consapevolezza delle fragilità del proprio insediamento, delle proprie storie politiche, delle proprie pallide biografie.
Insomma, chi pensa alla guerra come strumento di disciplinamento sociale ed acceleratore dei processi di ristrutturazione, non sta facendo bene i suoi conti. Come il malcontento, la sfiducia, la fine della acquiescenza di massa, possano trasformarsi in un nuovo movimento di opposizione sistemica, questo è un altro discorso. Non esistono al momento soggettività mature e credibili, che siano in grado di presentarsi – al di là di pochi orticelli – davanti a pezzi consistenti di società italiana, candidandosi come vettore di direzione politica. Manca un approccio, una postura, un linguaggio e una consapevolezza “popolare e di massa”. Basti vedere il rifiuto a relazionarsi (ed esercitare egemonia) rispetto alle sacche di opposizione già esistenti, che in modo spontaneo (a loro merito) sono passate dalle tematiche no green pass ad un deciso schieramento anti-Nato. Si preferisce recitare a copione, sui pochi terreni ancora praticati. In questi due anni le occasioni per rompere con il minoritarismo politicista e neo sindacale, non sono state colte. Da questo punto di vista, la guerra e le sue terribili minacce, potrebbero obbligare ad un salutare ripensamento. Su tutto.