Di Timothée Parrique – tradotto dal Gruppo Internazionale
E’ un fatto di portata storica: per la prima volta dal primo rapporto del 1990 il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) fa riferimento al concetto di decrescita (degrowth). Il termine è stato menzionato 15 volte (più 12 menzioni in bibliografia) all’interno del rapporto che consta di 3.675 pagine del secondo gruppo di lavoro “Impacts, Adaptation and Vulnerability” (impatti, adattamento e vulnerabilità) pubblicato il 28 febbraio del 2022. In questo articolo descriverò i riferimenti in questione e darò chiarimenti riguardo alle note bibliografiche presenti nel rapporto (note finali).
Decrescita come alternativa alla crescita verde
Il primo riferimento al concetto di “decrescita” compare nel Capitolo 1: “Point of Departure and Key Concepts” (Punto di partenza e concetti chiave) all’interno di una sezione minore intitolata: “Understanding Transformation” (Comprendere la trasformazione). Il termine appare in una rassegna di letteratura sul tema: “narrative che descrivono percorsi per il perseguimento di trasformazioni intenzionali” (narratives [that] describe pathways for pursuing deliberate transformations).
In questa sessione, in seguito a una breve dissertazione riferita al significato di trasformazione, si descrivono: “due contrastanti scuole di pensiero definite: ecomodernismo (ecomodernism) e decrescita (degrowth)”. [1] L’ecomodernismo, è scritto: “è teso a disaccoppiare le emissioni di gas serra, e le altre pressioni sull’ambiente, dalla crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo).” In contrasto, si rileva che: “coloro che invece propongono la decrescita mettono in dubbio la fattibilità di tale disaccoppiamento nella scala e nella dimensione sufficiente a rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi” [2] (Cap. 1, p. 67). La stessa affermazione viene ribadita nel paragrafo successivo: “gli studiosi della decrescita enfatizzano che il disaccoppiamento globale non stia attualmente procedendo con la velocità necessaria per il raggiungimento dei target dell’Accordo di Parigi” [3] (Cap. 1. p. 68).
Il paragrafo continua spiegando che: “usando misure precauzionali, radicate su argomentazioni di principio [4], la decrescita mira a un decremento intenzionale, sia del PIL che delle emissioni di gas serra ad esso collegate [5]: e ciò attraverso l’uso di meccanismi di policy rientranti nel quadro del “cap and share”. Quest’ultimo prevede la distribuzione dei permessi per le emissioni in maniera decrescente anno per anno, affiancata da una legislazione che proibisce il superamento delle quote prestabilite nei budget di carbonio [6]. La decrescita vuole anche minimizzare il ricorso a tecnologie per l’assorbimento in negativo delle emissioni di carbonio come l’applicazione su larga scala della BECCS (Bioenergy with Carbon Capture and Storage, bioenergia ottenuta attraverso la rimozione e lo stoccaggio dell’anidride carbonica). Piuttosto si vuole generare un progresso nella direzione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs, Sustainable Development Goals) dando priorità alla redistribuzione piuttosto che alla crescita del PIL. Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs), nell’ottica potenzialmente affrontata dalla decrescita, includono: un reddito di base universale (SDGs 1 e 10), la condivisione del lavoro per garantire la piena occupazione (SDGs 8 e 10) e la ridistribuzione dei carichi fiscali derivanti dall’estrazione di risorse e dell’energia (SDGs 8 e 12)” (Cap 1, p. 67-68).
Si può poi trovare un accenno alla decrescita nel sommario del Capitolo 1: “Percorsi alternativi per il perseguimento di una serie di trasformazioni intenzionali focalizzate sulla modernizzazione di settori come: energia, agricoltura e uso delle risorse naturali, sino a proposte per la decrescita che hanno come obiettivo la riduzione intenzionale di entrambi: del PIL e delle emissioni di gas serra a esso collegate (Cap. 1, p. 6).
Decrescita come prospettiva dello sviluppo
La seconda menzione di decrescita si trova nel capitolo finale del rapporto (Capitolo 18: Climate Resilient Development Pathways, Percorsi di sviluppo resilienti al clima). Dapprima nel paragrafo intitolato: “Linking Development and Climate Action” (Collegare sviluppo e azione climatica). La sezione inizia con l’osservazione che: “alcune modalità di sviluppo osservate sono inconsistenti con lo sviluppo sostenibile,” per poi condurre verso una sezione minore intitolata: “Understanding Development in Climate Resilient Development” (Comprendere lo sviluppo nella definizione di sviluppo resiliente al clima) in cui si fanno una serie di affermazioni riguardo a quale sia il tipo di sviluppo più compatibile con la resilienza al clima.
La sezione apre con una definizione allargata di sviluppo definito come: “degli sforzi, sia formali che informali, per migliorare il benessere dell’uomo” (Cap. 18, p. 19). A questo si aggiunge un commento critico sugli approcci che considerano le misure dell’attività economica come indicatori di benessere: ”il livello del prodotto interno lordo (PIL) viene spesso equiparato ai livelli di benessere sociale benché, in quanto misura della produzione di mercato, possa essere considerato una metrica non adeguata per misurare il benessere dell’uomo” (Cap. 18, p. 19).
Il paragrafo successivo continua a considerare problematiche le visioni centrate sulla crescita economica: “il concetto di sviluppo, legato alle modalità passate e attuali di crescita economica, costituisce una sfida significativa se applicato alla questione di sviluppo resiliente al clima (CRD, Climate Resilient Development). Questo implica che i processi reali che hanno contribuito alle sfide climatiche attuali – che includono la crescita economica e il conseguente uso delle risorse e i regimi energetici che la sostengono – siano anche dei percorsi per il miglioramento del benessere dell’uomo. Il ché pone la resilienza al clima, e lo sviluppo, in contrapposizione l’una con l’altro” (Cap. 18, p. 19).
Il paragrafo successivo delinea i cinque pilastri dell’Agenda 2030: “People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership” (persone, pianeta, prosperità, pace e partnership). La questione più interessante per l’argomento in questione è che il pilastro economico è descritto nel seguente modo: “l’attenzione sulla prosperità è dato dal benessere fondato su l’unanimità della condivisione degli obiettivi e delle risorse, in contrapposizione all’individualismo, e si trova nel progresso economico, sociale e tecnologico basato sull’amministrazione responsabile (stewardship) e sulla cura, invece che sullo sfruttamento” (Cap. 18, p. 20).
Questo ci conduce a un’ulteriore sezione del paragrafo dove viene menzionata la decrescita. La sezione inizia affrontando il tema delle prospettive legate allo sviluppo (Development perspectives) e ripercorre l’analisi dei numerosi indicatori utilizzati per definire il concetto di sviluppo stesso. A seguire, però, si ribadiscono le affermazioni, fatte in precedenza, riguardanti la questione della crescita economica e la problematicità di una crescita economica per uno sviluppo resiliente al clima: “Misurazioni alternative dello sviluppo, benché numerose, cercano generalmente di delineare le sfumate interconnessioni tra crescita economica e benessere dell’uomo. Queste conservano in tal modo intrinseche nozioni come quella di progresso e, in alcuni casi, quella di crescita economica costituendo parte di modelli convenzionali di sviluppo; di conseguenza, incidono in misura minore nella spinta trasformativa e costituiscono, in effetti, continuità d’azione e di pensiero” (Cap. 18, p. 20).
Di seguito, il rapporto presenta una tipologia di cinque “prospettive sullo sviluppo”, ciascuna delle quali associata con un lasso temporale: (1) sviluppo come crescita economica (dagli anni Cinquanta in poi), (2) sviluppo come miglioramento nella redistribuzione (dagli anni Settanta in poi), (3) sviluppo come partecipazione (dagli anni Ottanta in poi), (4) sviluppo come espansione delle capacità umane (dagli anni Ottanta in poi), (5) sviluppo come post-crescita (post-growth) (dal 2010 in poi). In riferimento all’ultimo punto, gli autori indicano che la crisi finanziaria del 2008: “ha portato molti studiosi, economisti ambientali e, in particolare, scienziati sociali dell’ambiente a sostenere la tesi del mondo della post-crescita.” “Post-crescita, decrescita e altri studi in campo ambientalistico”, scrivono, “prendono ispirazione dalla critica al concetto di sviluppo come nel caso di quello che si definisce post-sviluppo (post-development) [7]. Nelle argomentazioni non viene auspicato un miglioramento delle misurazioni ma uno sforzo di immaginazione, e di lavoro, nella direzione di un cambiamento sistemico al sorgere della crisi climatica” (Cap. 18, p. 21).
Il paragrafo finale di Development perspectives (prospettive di sviluppo) inizia con la seguente affermazione: “Raggiungere uno sviluppo resiliente al clima richiede una formulazione del concetto di sviluppo che si allontani dai paradigmi lineari di sviluppo che sono legati al progresso inteso in senso materiale. L’attenzione va invece focalizzata sulla diversità e sull’eterogeneità, sul concetto di benessere e sull’uguaglianza, non solo nelle pratiche contemporanee ma anche come percorsi di cambiamento che si producono nel tempo” [8]. Questi “diversi paradigmi di benessere” (di cui si citano come esempi: il “buen vivir”, il buon vivere, l’ “ecological swaraj”, l’autogoverno ecologico, e l’Ubuntu, umanità verso gli altri) “sono connessi da rapporti con la natura radicalmente differenti dalla visione meccanicistica dell’Occidente,” e, “servono da esempi di modalità alternative di vita che sono in equilibrio con la natura e che potrebbero anche suscitare modalità di pensiero analoghe in altri contesti” (tutte le citazioni sono tratte dal Cap. 18, p. 21).
Decrescita sostenibile
La terza più importante menzione si trova anche nel Capitolo 18. Questa volta in un paragrafo intitolato Economic and financial arenas (Le arene economiche e finanziarie) parte di Agency and Empowerment for Climate Resilient Development, Agency e Empowerment per lo sviluppo resiliente al clima). Il paragrafo di apertura della sottosezione esamina il concetto di disaccoppiamento. Qui si argomenta che alcune Nazioni sono riuscite a ridurre le loro emissioni nonostante un’economia in crescita, mentre altre non vi sono riuscite. Da rilevare è l’importante riferimento a un libro: “A Future Beyond Growth: Towards a steady state economy” (2016) (Un futuro al di là della crescita: verso un’economia statale stabile), a cui si fa accenno nella parte finale del paragrafo: “Va aggiunto che attualmente una vasta letteratura riporta che gli attuali modelli di sviluppo, e i sistemi economici che sono alla base di questo sviluppo, sono insostenibili (Washington and Twomey, 2016) e di conseguenza la crescita economica potrebbe non continuare necessariamente in modo indefinito in assenza di maggiori sforzi condivisi per perseguire lo sviluppo sostenibile, inclusa la riduzione degli impatti del cambiamento climatico (Cap. 18, p. 80).
La sezione continua con quattro paragrafi riguardanti gli indicatori alternativi al PIL e conclude con un quinto paragrafo che è importante citare in modo esaustivo. “Una critica che si potrebbe fare alle misurazioni e ai modelli alternativi, è che essi si sono tutti formati nell’ambito concettuale della crescita. Nell’ultimo decennio, gli economisti ecologici, e gli scienziati politici, hanno proposto la Decrescita [9], e la “gestione senza crescita [10], come una soluzione per raggiungere la sostenibilità ambientale e il progresso socioeconomico. Tali concetti sono una risposta deliberata alle preoccupazioni derivanti dai limiti ecologici alla crescita e alla compatibilità tra sviluppo orientato alla crescita e la sostenibilità [11]. La decrescita sostenibile non coincide con il PIL negativo che tipicamente è definito recessione [12]. Decrescita va oltre la critica alla crescita economica e esplora le interconnessioni esistenti tra sostenibilità ambientale, giustizia sociale e benessere [13]. Nelle attuali politiche economiche e fiscali [14], la decrescita è stata dibattuta come un paradigma di sviluppo instabile per la riduzione della domanda che ne consegue e che produrrebbe: un incremento della disoccupazione, una riduzione della competitività e una spirale recessiva [15]. Invece, modelli più esaustivi di performance socioeconomica comprendono elementi di trasformazione sociale sufficienti a garantire la conservazione e la crescita del benessere unito a una ridotta impronta ecologica” [16]. (Cap. 18, pp. 81-82).
Infine, ci sono altri due singoli riferimenti nel Capitolo 18. Uno nel riquadro 18.4: ”Adaptation and the Sustainable Development Goals” (adattamento e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile): “Il raggiungimento del SDGs (Sustainable Development Goals, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile) porta non solo a una positiva sostenibilità in una prospettiva a breve termine ma da anche indicazioni sulla qualità dei processi e delle azioni (inclusione e giustizia sociale, decrescita e modelli alternativi di sviluppo, salute del pianeta, benessere, equità, solidarietà, pluralità delle conoscenze e connettività della natura umana) che permettano uno sviluppo resiliente al clima (CRD, Climate Resilient Development) in una prospettiva a lungo termine” (Cap. 18, p. 31). Vi è poi un altro riferimento in un’ulteriore sezione all’interno del capitolo intitolata: “Political Economy of Climate Resilient Development” (politica economica di uno sviluppo resiliente al clima), dove: “la decrescita, e le economie a basse emissioni di carbonio” [17], sono individuate nel ripercorrere: “l’estensiva letteratura che segue il quinto rapporto di valutazione dell’IPCC, l’AR5 (Fith Assessment Report) in materia di politica economica” (Cap. 18, p. 65).
Per ricapitolare. L‘idea di decrescita è discussa in tre punti fondamentali: una volta nel Capitolo 1, come scuola di pensiero scettica rispetto il disaccoppiamento, e due volte nel Capitolo 18, prima come una prospettiva alternativa sullo sviluppo (definito post-growth, post-crescita) e più avanti come strategia per la sostenibilità. Questo è un fatto di rilievo perché idee di questo tipo non sono mai state citate in nessuno dei rapporti precedenti dell’IPCC (anche se la citazione ha un limite nella sua portata trovandosi solo nel full report (il rapporto completo) e non nelle 36 pagine del summary for policy makers (la sintesi per i decisori politici) o nelle 96 pagine del technical summary (il rapporto tecnico).
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NOTE
[1] Il Termine “degrowth” (decrescita) è seguito dalle referenze tra parentesi al libro Degrowth: a vocabulary for a new era edito da Giacomo d’Alisa et al. nel 2014.
[2] L’affermazione si riferisce a tre referenze. La prima è “More is more: Scaling political ecology within limits to growth”, un breve articolo scritto da Erik Gómez-Baggethun in Political Geography agli inizi del 2020 (lungo meno di quattro pagine, l’articolo è una risposta a Paul Robbin’s “Is less more… or is more less? Scaling the political ecology of the future”). Il secondo riferimento è a “Is Green Growth Possible?” di Jason Hickel e Giorgos Kallis, pubblicato in New Political Economy, aprile del 2019, e il terzo è anche di Giorgos Kallis: “Radical dematerialization and degrowth” del maggio 2017. L’ultimo riferimento è a “Decoupling Debunked” un rapporto di cui sono coautore con i miei colleghi nell’estate 2019.
[3] Tre riferimenti alla fine della frase: la prima riguarda una revisione sistematica della letteratura empirica sul disaccoppiamento Helmut Haberl et al. del giugno 2020, la seconda a uno specifico studio empirico del maggio 2019 (empirical study from May 2019) che riguarda il disaccoppiamento del consumo di energia e delle emissioni di carbone nell’Europa dal 1990 al 2014 e, infine, un articolo più vecchio del 2016 (article from 2016) che usa un modello teorico per dimostrare che il PIL non può essere disaccoppiato dalla crescita dell’uso dei materiali e dell’energia.
[4] La frase: “misure precauzionali radicate su argomentazioni di principio” fa riferimento al libro del di Serge Latouche del 2001: “La déraison de la raison économique: du délire d’éfficacité au principe de précaution (l’irrazionalità della ragione economica: dal delirio dell’efficacia al principio precauzionale).
[5] L’affermazione che la decrescita “ha come obiettivo la decrescita intenzionale sia del PIL, che delle emissioni di gas serra ed esso collegate” è riferito in un articolo di Giorgios del 2011: “In defence of degrowth.”
[6] L’affermazione si trova in Richard Douthwaite in “Degrowth and the supply of money in an energy-scarce world” del 2012 e in Giorgios Kallis et ali. “The economics of degrowth” anch’esso del 2012 (nell’introduzione dell’editore all’edizione speciale in Ecological Economics).
[7] Il termine “post-crescita” porta in sé il riferimento all’ultimo libro di Tim Jackson del 2021 “Post Growth: Life after Capitalism”. Il termine “degrowth” (decrescita) ha due riferimenti: il primo a “Degrowth,” del 2018 di Giorgos Kallis e l’altro a un articolo collettivo in cui l’Autore principale è Jason Hickel: “Urgent need for post-growth climate mitigation scenarios” pubblicato su “Nature” nell’agosto del 2021. Il termine “post-development” (post-sviluppo) è riferito in “Imagining a post-development era,”, un capitolo scritto da Arturo Escobar nel libro del 1995: “Power of Development”.
[8] L’affermazione: “moving away from linear paradigms of development as material progress by focusing on diversity and heterogeneity” (allontanarsi da paradigmi di sviluppo lineare come progresso materiale focalizzando sulla diversità e sull’eterogeneità ) si riferisce a un testo: “A Postcapitalist Politics, del 2006” e all’articolo: “Surplus possibilities: postdevelopment and community economies” del 2005, entrambi del geoeconomista J. K. Gibson – Graham.
[9] Due riferimenti sono allegati a “Degrowth”: uno nel precedentemente menzionato “In defence of degrowth” (Kallis, 2011) e l’altro in un articolo di F. Demaria, F. Schneider, F. Sekulova e Martinez-Alier: “What is Degrowth? From an Activist Slogan to a Social Movement.”
[10] Singoli riferimenti al libro di Tim Jackson “Prosperity Without Growth” (2009).
[11] Il riferimento è a un articolo di G. Kallis, J. Martinez-Alier, and R.B. Norgaard: “Paper assets, real debts: An ecological-economic exploration of the global economic crisis” (2009).
[12] Un altro riferimento all’articolo prima menzionato: “In defence of degrowth” (2011) di Giorgos Kallis.
[13] Un altro riferimento all’articolo menzionato in precedenza: “What is Degrowth? From an Activist Slogan to a Social Movement” (2013) di Demaria et al.
[14] Il riquadro 18.8: “Macroeconomic policies in support of Climate-Resilient Development” può essere trovato a p. 82. Questo presenta: “a range of fiscal tools [that] can be leveraged to mitigate the effects of climate change,” (una gamma di strumenti fiscali che possono fungere da leva per mitigare gli effetti del cambiamento climatico) che includono politiche monetarie, politiche fiscali, “carbon pricing” (tassazione del carbonio), tasse e sussidi.
[15] Questa affermazione ha come riferimento una singola pagina (p. 46) del libro di Tim Jackson, “Prosperity without growth”(2009) che si trova alla fine del Capitolo 4, “ Dilemma of Growth.” Nella prima edizione del libro il passaggio specifico si trova in realtà a p. 65: “De-growth’ is unstable – at least under present conditions. Declining consumer demand leads to rising unemployment, falling competitiveness and a spiral of recession.” (La decrescita è instabile – almeno nelle condizioni attuali. Una domanda di consumi decrescente ha come effetto la crescita della disoccupazione, la riduzione della competitività e produce una spirale recessiva).
[16] L’affermazione ha tre riferimenti: il libro di Kate Raworth’s, “Doughnut Economics”, (2017); uno studio empirico di Jason Hickel, “Is it possible to achieve a good life for all within planetary boundaries?”, 2019; e un altro studio empirico di Simone D’Alessandro: “Feasible alternatives to green growth,” 2020.
[17] Il termine: “degrowth low-carbon economies” (economie in decrescita a basse emissioni di carbonio) è legato a due testi: il primo è l’articolo accademico di Patricia E. Perkins in 2019 (“Climate justice, commons, and degrowth”) e l’altro di Peter Newell and Richard Lane del 2020: “A climate for change? The impacts of climate change on energy politics.”