di Floriana Lipparini (Casa delle Donne Milano)
La guerra è tornata fra noi, una guerra selvaggia che rade al suolo ogni cosa e sembra uscire dal passato. L’esercito russo ha invaso l’Ucraina e da oltre cento giorni martella l’immenso territorio piatto come una tavola, al centro dell’Europa. Come sempre non sono le popolazioni ad avere deciso tutto questo, né da una parte né dall’altra, ma autocrati e leader di potenze ormai in declino che vogliono cambiare gli equilibri mondiali. Sembra che abbiano cinicamente deciso di usare l’Europa come teatro dei loro scontri per il dominio e la supremazia universale. Centinaia di migliaia di vite distrutte ai loro occhi non contano nulla.
In verità la guerra non se n’è mai andata. Dovremmo anzi parlare di molte guerre contemporanee, al plurale, più o meno cruente. C’è ancora guerra in Afghanistan, in Iraq, in Yemen, in Libia, in Siria, muoiono anche lì donne e bambini, dopo che le cosiddette “coalizioni dei volonterosi” a guida Usa ci sono passate per “portare la pace” e hanno lasciato l’inferno. Ma l’ombra cupa del conflitto in Ucraina si estende ben oltre la sua dimensione geografica: la guerra non uccide solo le persone, inquina l’aria e le acque, avvelena i fiumi, distrugge coltivazioni, stermina biodiversità e piccoli animali. Emissioni nocive attraversano i confini e rimarranno fra noi per non si sa quanto tempo. All’orizzonte si affaccia il fantasma delle carestie per mancanza di pane, riemerso improvvisamente dalla storia letta sui libri di scuola. Si risveglia persino l’incubo nucleare e lo spettro di una terza guerra mondiale.
Anche se non si svolge fisicamente sul nostro territorio, dunque questa guerra ci riguarda e sta drammaticamente cambiando lo scenario del futuro. Sembra che ai potenti della terra non sia bastata la drammatica esperienza del Covid-19, non hanno capito la necessità di cambiare strada rispetto ai disastri planetari prodotti dal modello di sviluppo illimitato e predatore che il sistema patriarcal/liberista ha imposto al mondo, un sistema che per sopravvivere ha continuamente bisogno di guerre da cui trarre infiniti profitti.
Che fare per interrompere questa follia? C’è una domanda che nel mondo femminista e pacifista non possiamo ignorare, oggi meno che mai. Si può realmente fermare la guerra una volta che sia iniziata? “Quando le fiamme divampano è troppo tardi”, disse Bertha von Suttner nel 1908, quella splendida donna Premio Nobel per la Pace cui si deve il celebre romanzo Abbasso le armi.
È vero, quando le armi iniziano a sparare è già troppo tardi. La guerra si può forse scongiurare prima, quando avvisaglie e segnali dicono che tutto sta per precipitare, ma l’entrata in campo della mediazione e della diplomazia può ancora fermare l’esplodere del conflitto. C’è da chiedersi infatti cosa ne sia stato di questi strumenti non violenti, e anche dove sia finita quella forza di interposizione Onu che dovrebbe attivarsi proprio in casi come questi, per evitare un’escalation senza fine di stragi e massacri, in attesa che la guerra esca finalmente dalla storia.
Riuscire a immaginare che la guerra diventi definitivamente un tabù per tutta l’umanità è un salto in avanti forse molto azzardato, ma è proprio questo l’obiettivo da inseguire lavorando a una contronarrazione capace di smascherare le bugie del potere e a una profonda trasformazione culturale che contempli un mondo disarmato e non più diviso in blocchi, cosa che invece con la guerra ucraina si sta riproponendo. Proprio quando la pandemia ci ha reso chiaro che per salvare il pianeta dal disastro climatico e da nuove sciagure occorre mettere insieme le forze per uno scopo comune, la guerra invece impone di tornare alla cortina di ferro e alle sfere di influenza che sembravano appartenere al passato.
Non può essere questa l’alternativa pacifista e femminista. Cercando un’altra strada le voci femministe contro la guerra non si sono mai fermate. Gruppi, associazioni, Case delle donne hanno denunciato l’aggressione, hanno inscenato proteste, appelli e flashmob, come accadde trent’anni fa per la guerra in ex Jugoslavia. Allora furono le donne di Belgrado a organizzare l’opposizione alla guerra contro il proprio governo, oggi in Russia gruppi di donne e di uomini contrari alla guerra lavorano con estremo coraggio e creatività, inventando di giorno in giorno piccole performance artistiche e nuovi tipi di messaggi all’opinione pubblica che riescono a sfuggire al controllo poliziesco. Le femministe in questo sono geniali e sono riuscite a creare una rete diffusa in tutto il Paese. Rischiano anche il carcere, se non di peggio. Reti di solidarietà transnazionali intanto hanno iniziato a collegarsi e a costruire operazioni umanitarie di vasta portata. In tutta Europa, Italia inclusa, si è attivata una grandissima capacità di accoglienza pubblica e privata nei confronti della popolazione profuga. Arrivano giovani donne con i figli, a volte signore anziane, a volte intere famiglie, a volte bambini soli.
La pratica femminista che si fonda sulla relazione e sulla pluralità è in queste circostanze preziosa, perché la solidarietà concreta si vive nella vicinanza con i corpi di chi ha perso tutto, nella protezione verso chi è vulnerabile e fragile, come ci insegna quella rivoluzione della Cura di cui abbiamo ragionato in tante e in tanti negli ultimi anni. Questo cambio di paradigma può essere un antidoto concreto alla guerra? Ma la guerra, appunto, è il contrario della Cura. E ci spaventa la pazza idea di chi vuole alzare il livello di distruzione e di morti inondando il campo di armi. Così non si ferma la guerra, ma si alimenta una spirale che finirà solo quando la ferocia del più forte avrà raggiunto lo scopo di annientare l’altro, a prezzo di spaventosi massacri. Non si può chiamare vittoria, non si può chiamare pace. Il pericolo sta nel farsi trascinare in una narrazione che non ci corrisponde e sta nell’ambito dell’agenda geopolitica del potere patriarcale. La nostra agenda è completamente altra. Alle femministe non appartengono i linguaggi militareschi, la resa, la vittoria, gli eroi, e meno che mai i cosiddetti valori su cui si è costruito il sistema patriarcale, e continua a farlo. “Si deve stare da una parte o dall’altra. Armi sì o armi o no?”, questo il tenore della polemica assurda che demonizza chi rifugge da facili e pericolosi dualismi.
Da un punto di vista femminista è importante invece andare alla radice delle guerre per decostruirne le premesse, contrastare nazionalismi e razzismi di cui le guerre si nutrono, coltivando la capacità di convivenza fra differenze, il rispetto della pluralità, il rifiuto di frontiere e confini escludenti.
Infatti l’altra guerra che si combatte in Europa è proprio quella dei confini, contro il diritto alla vita dei migranti. Molti Paesi europei la stanno conducendo da anni per terra e per mare, per fiumi e per boschi, per dogane e ferrovie. Italia, Spagna, Grecia e anche Croazia, Polonia, Bielorussia…I barconi continuano a rovesciarsi nel Mediterraneo e i migranti ad annegare. E quei pochi “fortunati” che riescono a sbarcare nelle nostre terre vengono sottoposti a deportazioni collettive in teoria vietatissime dalle norme internazionali sui diritti umani, oppure costretti a subire tremende sevizie come tra Polonia e Bielorussia dove si svolge un sabba infernale contro persone inermi ammassate alla frontiera, fra cui moltissimi bambini. Donne costrette a partorire di nascosto in mezzo a una foresta ghiacciata pur di non farsi scoprire dalle forze di polizia che le rimanderebbero indietro! Sebbene ne abbiano diritto, ben pochi migranti riescono a ottenere la protezione temporanea, che viene ora giustamente concessa a rifugiati e rifugiate ucraine, ma guarda caso con qualche eccezione se il profugo non possiede la pelle chiara degli ucraini doc pur avendone la cittadinanza. Razzismo allo stato puro. Eppure “poter andare dove si vuole è il gesto originario dell’essere liberi, mentre la limitazione di tale libertà è stata da tempi immemorabili il preludio della schiavitù”, disse Hannah Arendt, lei che conosceva l’esperienza dell’esilio. Questo diritto primario non viene più riconosciuto. La fortezza Europa chiude le porte e i porti a chi è in cerca d’asilo o di una vita migliore. In questo modo, senza memoria del passato, si rischia di coltivare il seme di una società totalitaria e razzista. Un seme che ha radici molto antiche. Sappiamo quanto abbia contato quel primo rifiuto del diverso che fu l’esclusione del genere femminile dalla costruzione sociale. Un archetipo negativo il cui influsso ancor oggi pervade ideologie, culture e politiche dominanti, favorendone gli aspetti più autoritari, bellicosi e violenti. Favorendo le guerre.
Foto: Casa delle Donne – Milano
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti“