A metà luglio è andata in scena a Torino l’ennesima maxi-operazione giudiziaria nei confronti di compagni e compagne del centro sociale Askatasuna. A differenza delle precedenti, questa è tanto grave quanto squallida perché tira in ballo il reato associativo: “associazione sovversiva” derubricata poi in “associazione a delinquere”. Abbiamo intervistato Vincenzo, un attivista di Askatasuna, con cui abbiamo fatto luce su diversi aspetti della vicenda.
Proviamo a ricostruire il piano storico di questa vicenda, che in realtà parte da molto lontano, ma che assume oggi un preciso significato in termini giuridici e politici.
Partiamo da alcuni dati. Intanto l’apertura dell’inchiesta risale al 2009, durante il primo ciclo del movimento dell’Onda, ma diventa operativa di fatto solo nel 2019 e comprende tre anni di intercettazioni, appostamenti, pedinamenti, registrazioni, ecc. Un lavoro investigativo su circa 70 compagni e compagne, non solo appartenenti ad Askatasuna, ma anche al Movimento No Tav e ad altre realtà cittadine.
Questa operazione porta alla formulazione da parte della Procura dell’ipotesi di “associazione sovversiva”, che viene immediatamente smentita dallo stesso giudice istruttore, che aveva permesso l’operatività dell’indagine, secondo cui gli indagati sarebbero dovuti andare a processo per reati singoli e non di carattere associativo. La Procura ha fatto ricorso ed ha riformulato l’ipotesi: mentre l’ipotesi iniziale di “associazione sovversiva” si basava su 70 compagni, che poi sono diventati 28 e in ultima istanza 13, nella riformulazione in qualche modo si dice: “in realtà non è tutto il centro sociale a costituire un’associazione sovversiva, ma sono un piccolo numero di persone che utilizza l’elemento politico per i propri scopi, che sarebbero la sovversione dello Stato”.
Nonostante questo passo indietro della Procura, anche questa formulazione cade perché i giudici del riesame ritengono che non si tratti di “associazione sovversiva”, ma di “associazione a delinquere” per 11 persone e non più 13. L’impressione che si ha è che gran parte di questo esito sia il frutto di una mediazione per tenere in piedi l’indagine.
Per ora mi sono soffermato perlopiù sugli aspetti tecnici; in realtà è interessante guardare a quelli politici. In una buona parte l’indagine è costruita non sul tentativo di confermare la tesi del reato associativo, perché ne mancano i presupposti materiali, ma sulla volontà di dimostrare che i compagni e le compagne di Askatasuna non sarebbero quello che dicono in pubblico. In altre parole, c’è il tentativo di delegittimare la “moralità”, se possiamo usare questo termine, delle persone indagate attraverso conversazioni private, battute, trasformando il senso delle frasi intercettate e facendo delle vere e proprie ricostruzioni assurde e surreali.
L’inchiesta sta quindi su più livelli, passando dalla morbosità persecutoria di Procura e Questura a un livello pienamente politico nel tentativo di delegittimazione e isolamento delle soggettività protagoniste di alcune battaglie importanti in città e in Val di Susa.
Per dare qualche elemento in più, i prossimi passaggi saranno il Tribunale della Cassazione a settembre e l’udienza preliminare del processo vero e proprio il 29 luglio – in un paradosso tutto legato alla giustizia torinese – molto probabilmente con l’accusa iniziale di “associazione sovversiva”, che poi vedremo se e come sarà riformulata dalla Procura.
Questi sono gli elementi ad oggi, tenendo conto anche del fatto che quest’inchiesta ha visto un investimento molto significativo da parte di Questura e Procura in termini di uomini, mezzi economici, strumenti ed è abbastanza evidente che c’è una copertura da parte di chi questi soldi ce li mette. Quindi non stupisce l’esito del riesame, per quanto provvisorio, sulle misure cautelari.
Hai parlato più volte del piano politico che si muove attorno a questa inchiesta. Io adesso ti chiedo di fare un parallelismo tra la vicenda che ha coinvolto Askatasuna e quella accaduta a Piacenza ai danni di alcuni sindacalisti di Si Cobas e Usb. Al di là di alcuni aspetti peculiari che già hai rimarcato, si nota come nell’uso del reato associativo da parte delle Procure ci sia la volontà dall’alto di stabilire un elemento di coercizione rispetto alla possibilità stessa di organizzarsi e partecipare a processi di lotta e movimentazione sociale. Cosa ne pendi?
Dici bene, di fatto in entrambe queste narrazioni in qualche modo si dice: “il problema non è il fatto che ci siano le lotte, ma che ci si organizzi per farle”. Vengono colpite quindi le soggettività organizzate e il sindacato per colpire la dimensione delle mobilitazioni e dei movimenti, da quello della logistica a quello No Tav. Il tipo di narrazione che si fa è collegato al fatto che chi contribuisce a mantenere la continuità, a svolgere un ruolo di connessione tra le lotte è passibile di essere colpevole di avere un progetto delinquenziale.
Questa è la tesi di fondo che, con qualche premonizione, l’avvocato Claudio Novaro diceva – sul caso di Askatasuna – “potrebbe essere applicato a questo punto alle lotte studentesche o a qualsiasi lavoratore in sciopero che fa un picchetto”. Ed è quello che è successo, perché il tentativo è delegittimare i movimenti sociali che – se pure in questa fase di difficoltà – continuano ad avere una capacità di mobilitazione e incisività, colpendo alcune soggettività organizzate che operano per permetterne la riproduzione.
Sembra abbastanza chiaro che il quadro sia questo; inserendolo dentro la fase specifica ci viene da dire che la proiezione di questo autunno che spaventa molto il padronato e le classi dirigenti – dati i presupposti di crisi sociale, climatica, guerra, etc. – è stata anticipata da queste operazioni, proprio per cercare di depotenziare possibili conflitti.
Per quanto riguarda noi questo è uno degli aspetti principali, per quanto riguarda la logistica si accompagna anche alla ristrutturazione che sta operando il capitale nel settore da alcuni anni.
C’è stato un aspetto molto importante nella vicenda che vi ha colpito, che non sempre è scontato. Sto parlando delle manifestazioni di solidarietà arrivate da tutta Italia, ma soprattutto dal tessuto cittadino, ma anche della partecipazione reale che c’è stata in occasione ad esempio della conferenza stampa pubblica che avete organizzato, Questo significa, per Askatasuna, ma anche per i tanti centri sociali diffusi nel Paese, che quello che si fa spesso è accompagnato da un alone di consenso che emerge proprio nei momenti più difficili. Questa cosa come può essere un punto di forza, a Torino e non solo?
Dobbiamo dire che anche a noi ha stupito che in pieno luglio ci sia stata una risposta di questo tipo. In parte c’è da dire che più di mezzo secolo di storia di un percorso organizzato a Torino ha fatto sì che esiste una sedimentazione molto importante, di vite che hanno fatto parte di questo percorso e che ancora si ritrovano in alcune cose che vengono proposte.
Ma crediamo, più in generale, che oggi ci sia un grande bisogno di politica che non riesce ad avere uno sbocco sul piano istituzionale. E questo bisogno di politica si realizza nelle molteplici alleanze che ogni giorno si costruiscono anche in uno spazio come il nostro. Il nodo di nuove reti, nuovi bisogni e nuove collettività che si autorganizzano anche in maniera diversa rispetto al passato è emerso in maniera chiara nel momento in cui abbiamo visto mobilitarsi medici, anziani abitanti del quartiere, l’ANPI e tutta una serie di soggetti che non sono proprio coerenti con la traiettoria “classica” dei centri sociali. Tutto questo è molto interessante perché ti dà la sensazione – in potenza – che le possibilità di fare un ragionamento serio su quali possono essere le strade per raccogliere questi bisogni e trasformarli nella possibilità di un’alternativa concreta all’esistente.
L’altra cosa che aggiungo brevemente, per fare un quadro sul “caso torinese”, è che stiamo parlando di una città che è tra le più povere del Nord produttivo, una città in via di spopolamento, dove sempre di più si respira un’aria securitaria, di pochi spazi per i giovani. Quindi non è un caso che a Torino continuino a succedere molte cose, spesso confuse e difficili da leggere, anche a prescindere dalle soggettività organizzate, proprio perché la città in questa fase storica vive una serie di contraddizioni che le istituzioni non vogliono e non sono in grado di affrontare.
Alla luce di questo, è interessante vedere cosa ha mosso questo tentativo di delegittimazione nei nostri confronti perché l’impressione che si ha è che ci sia la necessità di riconoscersi di un pezzo di città che vuole una legittimità a discutere sul futuro, su cosa non va e cosa funziona all’interno del nostro territorio. Quindi, più che a un arroccamento difensivo sulla nostra identità stiamo vedendo la possibilità di discutere, camminare insieme con molte altre persone.