di Gioacchino Toni
Miron Zownir, Tenebre su Kreuzberg, traduzione di Eleonora Zanin, Milieu edizioni, Milano, 2021, pp. 269, € 16,90
«Zownir si prende la libertà di gridare contro i sogni illusori. Si mescola tra i prossimi, morti viventi. Si schiera dalla parte disastrata della società per darne testimonianza. Va oltre il semplice lavoro sporco per catturare momenti di odio e amore fatti di follia e alcool. Dà forma agli stupidi aneliti nell’anticamera dell’inferno. Il tanatoprattore, il guardiano delle latrine, la commessa al banco della carne fresca per il cane e il metronotte ricevono dei volti. Tutti i deformi, gli informi e le anime perdute che hanno da tempo appeso la loro vita al chiodo» Peter Wawerzinek
«La fotografia in bianco e nero è più misteriosa, discreta, meno esplicita della fotografia a colori. Attiva l’immaginazione, piuttosto che concentrarsi su dettagli inquietanti. Aggiunge più peso all’invisibile, che rimane coperto da strati di grigio e ombra. A volte ci permette di avventurarci in uno spazio al di là di ciò che l’occhio può vedere. In breve, è più poetica e onirica, ma comunque abbastanza reale da disturbare, farci interrogare e riflettere». Così, in un’intervista rilasciata a «LensCulture», Miron Zownir motiva la scelta del bianco e nero per ritrarre l’universo punk berlinese e londinese degli anni ’70, la scena underground gay-drag newyorkese degli anni ’80 e i miseri e dolenti spaccati moscoviti degli anni ’90.
Una scelta, quella del bianco e nero, a cui, per certi versi, Zownir ricorre anche nel suo romanzo Umnachtung, uscito in Italia per Milieu edizioni con il titolo Tenebre su Kreuzberg, tradotto da Eleonora Zanin che ne parla come di «un romanzo sulla repressione e l’assurdità della società in cui viviamo e sulle forme di resistenza nichiliste che questa genera. Una società profondamente disfunzionale che ci schiaccia tra lavori totalizzanti e ansia di riconoscimento sociale, in cui anche le stesse forme di resistenza sono spesso disfunzionali fino a diventare mostruose: dall’escapismo alla dipendenza da sostanze fino, appunto, all’omicidio»1.
Rispetto alla fotografia, spiega Zownir, la letteratura è una modalità di espressione «più introversa e vincolata all’immaginazione. Tutto dipende da te. Tu non dipendi dalla fortuna o dal caso, ma solo dal tuo umore, dal tuo stato d’animo e dalla tua ispirazione. L’atto di scrivere è solitario ma restituisce una libertà totale»2.
Costruito attorno ad una serie di omicidi che si succedono al calare delle tenebre in un contesto berlinese del nuovo millennio, solo apparentemente altro rispetto alla scintillante trasformazione urbanistica, sociale e culturale con cui si sono voluti seppellire velocemente i detriti del muro andato in frantumi con il mondo che lo ha edificato, il romanzo Tenebre su Kreuzberg procede attraverso lo sguardo di personaggi deliranti, nauseati dal mondo che li circonda come di se stessi, che vivono una realtà in cui si mescolano accaduto ed allucinazione, nostalgie e desideri frustrati. «Si rifugiò nello schermo fino a quando la sua mente iniziò a fondersi in pattern diversi, a vibrare, a distruggere ogni ricordo o connessione con il mondo esterno. Poi fu solo un sfarfallio e un luccichio di tensioni elettroniche che trasmettevano immagini come quella della tv, che il suo psichiatra dovette analizzare». A fare da sfondo sono scalcinati e maleodoranti locali notturni pervasi dal lezzo di stantio e latrina, popolati da reietti che hanno tagliato i ponti col passato e che non fanno alcun affidamento sul futuro, abbandonati a una sopravvivenza a cui sembrano non ambire nemmeno più.
Al di là dell’individuazione o meno dei colpevoli dei reati di turno, nessun ordine può essere ristabilito da chi, «stanco di separare il bene dal male», si trova ad indagare all’interno di un contesto che sembra davvero ormai l’anticamera dell’inferno abitato da reietti, di cui percepisce di far parte, che mostrano senza infingimenti a cosa è ormai ridotta l’umanità. «Aveva rinunciato da tempo a credere nella bontà umana, alla soluzione terapeutica dei problemi, alla carità cristiana o al perdono. Tutti avevano lo stesso motivo per restare in vita. Ciò che faceva la differenza erano l’ego, la volontà e la tenacia. Adesso, da sobrio, doveva ammettere di non aver mantenuto nessuna di quelle qualità. In generale, la sua vita consisteva solo nel lavoro da cui si era lasciato sopraffare, in criminali che non si lasciavano acciuffare e colleghi che non sopportava. Nell’attesa di informazioni che non arrivavano e di indizi che non portavano da nessuna parte. Notti in cui non accadeva nulla e giorni in cui accadeva di tutto». Un’esistenza ridotta ad un alternarsi di attese alla scrivania durante il lavoro o sul divano di casa a bere whiskey fino ad addormentarsi davanti alla tv. A suo modo anche la sua è una vita appesa al chiodo.
Marcello Faletra, nel commentare la prima grande retrospettiva fotografica italiana dedicata a Zownir, tenutasi a Palermo nel 20213, ravvisava nei suoi scatti tracce di empietà, di indistinta coesistenza di Inferno Purgatorio e Paradiso. «Guardandole attentamente queste foto suggeriscono che l’empietà è la migliore esplorazione dei corpi per coloro che abitano il peggiore dei mondi». Empietà da intendersi come «uscita dalla morale. Alla misuratezza del gesto e alla compostezza dei corpi succede l’esagerazione, l’iperbolicità, la profanazione… L’empietà potrebbe essere vista come il rovescio (non la negazione) di ogni bella azione. È l’arma dell’impossibile nelle mani dell’immaginazione, dove l’indistinzione tra corpo e feticcio impera». Una fotografia «può trasformarsi in uno squarcio, in una ferita del tempo in cui sprofonda o cade il nostro sguardo. Questo doppio fondo dell’immagine fotografica rivela l’inquietudine che fa breccia nel familiare. È l’informe che occupa lo spazio dell’immagine nel momento in cui fa collassare l’apparenza. Questo margine dell’esistenza è l’unico stato dell’essere che questi corpi praticano»4.
Scrive Gaetano La Rosa sul catalogo di tale mostra che Zownir, con le sue foto, ha saputo cogliere i reietti che non interessano allo sguardo patinato «in quel momento in cui essi, come in un atto sacrale di dono, erano disposti a offrire il loro essere corpo, in un gesto di estrema efficacia e di verità̀, che potremmo ragionevolmente definire atto performativo». Rispetto a quel mondo di personaggi “disperati ma vivi” colto dalle celebri fotografie di Zownir degli anni Settanta e Ottanta, il dark side del nuovo millennio tratteggiato da Tenebre su Kreuzberg, sembra invece sbattere in faccia al lettore un mondo di emarginati che con le loro condotte autodistruttive tentano di anestetizzare le sofferenze della vita, un mondo popolato da individualità sempre più ciniche ed autoreferenziali, ormai prive di empatia tanto nei confronti di chi le circonda quanto di se stessi. Insomma, anche l’altra faccia della società diurna, presentabile, sembra sempre più fare propri il cinismo, l’individualismo e la vocazione all’autodistruzione di quest’ultima, solo che lo fa senza ipocriti infingimenti.
È spietato e disturbante il mondo messo in scena da Zownir e lo è soprattutto perché in quell’universo di reietti diventa sempre più difficile cogliere tracce di reale alterità. I personaggi che popolano il romanzo mettono di fronte a ciò che si è diventati, vite appese al chiodo. «Noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell’animale»5, affermava Francis Bacon.
Tenebre su Kreuzberg non è un romanzo adatto a quanti preferiscono continuare a volgere lo sguardo altrove evitando così di fare i conti con se stessi.