di Paolo Lago
Nelle prime inquadrature di Crimes of the Future, il nuovo film di David Cronenberg, vediamo una nave semiaffondata, adagiata su un fianco, che appare come un inquietante mostro dormiente, un’abnorme ferrea carcassa segnata dal disfacimento. È il primo spazio desolato e turpemente squallido che si vede nel film, ambientato in una Grecia segnata da colori languidi e grigi che ricorda certi scorci di Dogtooth (2009) di Yorgos Lanthimos. La macchina da presa poi si sposta e, poco lontano dalla nave, inquadra Brecken, un bambino che probabilmente appartiene a una nuova specie di esseri umani ‘mutanti’, il cui organismo si sta adattando a cibarsi di plastica e scorie tossiche di rifiuti industriali. Il paesaggio è spoglio, triste, desolato: scogli, acqua e una costa segnata da abitazioni che sembrano quasi abbandonate. Le figure umane, spesso, nel film, si stagliano su sfondi di un colore giallo opaco, simili a quelli che circondano i personaggi di Possession (1981) di Andrzej Zulawski, che si muovono in una Berlino segnata dall’oscura presenza di un mostro il quale alberga soprattutto all’interno delle loro coscienze.
Gli spazi di Crimes of the Future sono le camere oscure della mente, le visibili devastazioni di una coscienza che si configura come la misteriosa carnefice del corpo. È un futuro imprecisato quello raccontato dal film, un futuro sotto il quale probabilmente si cela la nostra contemporaneità. Se il corpo appare come il vero protagonista della vicenda – un corpo che, in tale distopico mondo futuro, non sente più dolore e la chirurgia diventa una pratica erotica ed esibizionistica – la mente ne è il devastato doppio. Se i corpi sono feriti, tagliati, aperti da macchinari chirurgici, come nelle esibizioni di Saul Tenser e Caprice, le menti appaiono spente e obnubilate, assuefatte all’orrore di un mondo governato dalle multinazionali della biotecnologia che producono macchinari e computer capaci di una nuova e stupefacente sinergia con i corpi umani. E allora, quegli spazi vuoti e desolati sono gli interstizi eterotopici di una mente contratta negli spasmi di corpi in lenta ma inesorabile mutazione. Sono, come già accennato, interni spogli, intagliati da una greve burocrazia, come gli squallidi uffici del National Organ Registry, in cui fanno bella mostra di sé vecchi schedari e scartoffie cartacee che sembrano appartenere agli anni Cinquanta del Novecento, come nella centrale di polizia di Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Qui, l’ufficio del capitano Bryant, dove si reca il cacciatore di androidi Rick Deckard, è saturo di schedari e di pesanti oggetti che sembrano usciti da un gangster movie anni Quaranta. Anche quello di Blade Runner è un futuro già passato, saturo delle escrescenze di un nuovo imbarbarimento diffuso. Così, nel mondo distopico affrescato dall’ultimo film di Cronenberg, non c’è niente del futuro, ma neanche del nostro presente digitalizzato. La microelettronica e gli oggetti digitali non sembrano neanche essere mai esistiti: gli unici schermi che vediamo sono vecchissimi televisori ‘panciuti’ e, al posto degli smartphone, per fare le fotografie e i filmati i personaggi utilizzano vecchie macchine fotografiche e vetuste cineprese.
Gli stessi oggetti legati all’universo della chirurgia – la macchina per le autopsie o la sedia che aiuta l’ingestione di cibi – sembrano pervasi dal greve alone di uno stile steampunk: sono oggetti del futuro ma sembrano emergere dal passato. Sono cupi marchingegni che mimano l’ossatura umana ed appaiono quasi come degli inquietanti esseri scheletrici rappresi in nuove e sconvolgenti forme. È per mezzo di tali funerei dispositivi che i personaggi di questo spettrale futuro provano piacere: un piacere che, pur essendo derivato dalle ferite e dalle incisioni del corpo, sembra appartenere all’universo malato di nuove coscienze assuefatte ad una quotidianità in cui regna incontrastata la burocrazia del potere oscuro delle multinazionali. E nelle cupe sale ove avvengono i rituali delle esibizioni di Tenser e Caprice, nelle cupe strade contornate da abitazioni sopravvissute a guerre e distruzioni, nei cupi quotidiani interni e nei cupi scorci marini si muovono esseri umani che paiono automi, zombie ormai manovrati da oscuri e sconosciuti poteri. Ancora una volta, si potrebbe pensare, una silente ed arguta metafora dei tempi che adesso ci troviamo a vivere.
Nell’universo sotterraneo e devastato messo in scena dal film, attraversato da spie, informazioni segrete e tradimenti, Tenser spesso si incontra con un poliziotto di colore (che più che un detective sembra un ragazzo di strada delle periferie di Parigi o di New York) vicino a carcasse di navi, barche arenate o semiaffondate come la nave che vediamo all’inizio. Sono vecchie eterotopie sature di sogni, vecchi “serbatoi di immaginazione” (come è la nave secondo una definizione data da Michel Foucault nel suo studio sulle eterotopie), ‘spazi altri’ separati dall’universo statico della terraferma. Ma ormai i loro sogni si sono perduti, l’immaginazione si è arenata sulle sponde di un futuro devastato e imbarbarito e rimangono solo le loro carcasse scheletrite, ferrei mostri rugginosi in bilico sugli abissi. La nave ferma, incagliata, bloccata, affondata, arenata è ormai un forziere bucato dal quale i sogni sono inesorabilmente fuggiti. È curioso ricordare che anche la scena finale di Videodrome (1983) dello stesso Cronenberg è ambientata dapprima nelle vicinanze e poi all’interno di una barca in disuso, in una zona portuale abbandonata, segnata dallo squallore e dalla malinconia (del resto, tutto il film è costellato di ambientazioni tetre e malinconiche, ferite dall’abbandono).
All’interno di essa, il protagonista Max Renn trova uno schermo televisivo dal quale la sua ex amante Nicki gli annuncia la sua evoluzione verso la “Nuova Carne”. Come in un rituale che lo condurrà all’autodistruzione, Renn si punta alla tempia la sua mano trasformatasi in pistola e si uccide pronunciando queste parole: “Gloria e vita alla Nuova Carne”. La tecnologia, in Videodrome, viene, in un certo senso, ‘corporeizzata’, l’essere umano si fonde con le immagini televisive fondendosi in un unico corpo addirittura con lo schermo, un oggetto pesante e pieno al suo interno di cavi e valvole. Successivamente, con eXistenZ (1999), Cronenberg ci mostra un altro esempio di fusione fra corpo e tecnologia, attuata stavolta per mezzo di una consolle semiorganica, simile al telecomando che utilizzano Tenser e Caprice per muovere la macchina durante le loro esibizioni: si tratta, in sostanza, come scrive Gioacchino Toni, di veri e propri “processi di ibridazione” fra il corpo umano e dimensioni legate all’universo di uno spettacolo che controlla e obnubila la mente (cfr. G. Toni, Processi di Ibridazione. L’immagine è mutante, su “Carmilla”).
Se Max Renn, in Videodrome, alla fine viene consegnato a un rituale di trasformazione ed evoluzione del proprio corpo in cui officiante è Nicki, anche Tenser si abbandona ad un momento di ‘transizione’ (morte o rinascita? Distruzione o evoluzione?) mentre Caprice, come una sacerdotessa, gli offre una tavoletta alimentare realizzata dai rifiuti in plastica. E se quest’ultima assurge quasi al ruolo di un cibo sacro, l’autopsia realizzata su Brecken per volere del proprio padre, Lang, si trasforma in un’offerta sacrificale donata al dio crudele della scienza, quel processo evolutivo che probabilmente si sta diffondendo all’intera umanità. Ma Lang, attuando l’autopsia sul corpo del proprio figlio, si macchierà di una colpa forse anche peggiore della stessa uccisione del bambino, perpetrata invece dalla madre. Sarà colpito quindi dalle due riparatrici di macchine che, vestite di nero, si trasformano quasi nelle crudeli Erinni emissarie del tetro destino che grava sull’umanità, cioè il totale asservimento alla biotecnologia e alle sue multinazionali.
E, di fronte a questo tetro destino, non ci sono vie di fuga. La rappresentazione degli spazi di Crimes of the Future non fa altro che ribadirlo ogni istante. In essi la mente non solo si perde e si obnubila, ma si rapprende e si contrae in pose catatoniche e inerti. I corpi vengono tagliati e le coscienze vengono ferite in modo probabilmente anche più violento. Ma nessuno se ne rende conto, anzi, di fronte a questa carneficina non si può provare altro che piacere in un futuro che è anche passato, in un futuro che orrendamente così tanto ci ricorda il nostro presente.