di Emilio Quadrelli
Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.
Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.
Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense di prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drasticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può fare altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Per questo il richiamo a una attualizzazione del “modello coloniale”, come forma di governo delle società attuali, rischia di essere in parte fuorviante. L’ambito coloniale agiva all’interno di uno scenario dove era lo Stato/Nazione, nella sua evoluzione imperialista, a tenere in mano il pallino, una cornice da tempo andata in frantumi. Quindi, se di colonialismo o neocolonialismo è lecito parlare, e noi crediamo lo sia, occorre farlo tenendo a mente lo scenario determinato dall’avvento del capitalismo globale. A ben vedere nelle società attuali i “governi nazionali” non sono altro che attori locali, fortemente depotenziati, posti sotto controllo da agenzie multinazionali. In questo scenario, allora, i retaggi coloniali possono agire come “suggestioni” operative per i governi locali, all’interno però di logiche diverse.
Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che la forza lavoro salariata delle metropoli diventa l’ambito coloniale di cui il capitalismo globale non può fare a meno.
Oggi, mentre per le nuove leve proletarie il mondo dei diritti e delle garanzie è qualcosa che appartiene al museo della storia, la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro va a colpire tutte quelle sacche, più o meno corpose, di proletariato e classe operaia dove, i residui novecenteschi, giocavano ancora un qualche ruolo. A conferma di come, la storia, proceda sempre attraverso il suo lato cattivo assistiamo, con tempi e ritmi sempre più accelerati, alla disarticolazione di tutto ciò che resta della rigidità operaia e del potere che questa si porta appresso. Si consuma, in questo modo, un modello che, a partire dalla Grande rivoluzione, l’Europa aveva tenuto a battesimo. La popolazione e i suoi destini diventano inessenziali per le classi dominanti le quali, nei loro confronti, adottano il modello di governance la cui logica è del tutto subordinata alle procedure messe in atto attraverso le operazioni di polizia internazionale. Anche nei nostri mondi, tra proletariato e borghesia imperialista, va sedimentandosi una relazione che accantona ogni forma di eguaglianza per rimodellarsi sul piano dell’asimmetria.
Questo, come vedremo immediatamente, però è solo un aspetto della questione. La scena politica è ben più articolata e complessa di quanto, a prima vista, possa sembrare. Se, per tutta una fase storica, per l’imperialismo l’unica guerra da combattere era sembrata solo quella contro le popolazioni, esterne e interne, oggi alcuni tratti della guerra classica tornano a fare prepotentemente capolino sulla scena politica internazionale. La situazione si complica e aggroviglia.
Nelle pagine precedenti abbiamo focalizzato sguardo e attenzione sul tratto asimmetrico della guerra ma, tutto questo, non significa automaticamente che le forme più classiche e tradizionali del conflitto bellico si siano estinte. Sarebbe un errore, infatti, ipotizzare che, la fase imperialista globale, abbia definitivamente posto in archivio la guerra interstatuale tra blocchi imperialisti. Certo, nel corso di tutta una fase, quella inaugurata con la Prima Guerra del Golfo sino all’intervento in Libia a primeggiare è stato un modello che, del conflitto asimmetrico, aveva fatto il suo credo assoluto. Credo che poggiava sulla prosaica constatazione della pochezza politico – militare dell’avversario di turno. A partire da ciò il proliferare di tutta quella serie di interventi di stampo apertamente colonialista all’interno dei quali, per lo più, tra le diverse consorterie imperialiste a primeggiare sembravano essere più le affinità piuttosto che le contraddizioni.
In linea di massima si può affermare che la logica che governava i vari interventi di polizia internazionale trovava non poche assonanze con quella politica della “porta aperta” coltivata dalle potenze imperialiste nei confronti della Cina negli anni Venti del secolo scorso. In tali operazioni ognuno poteva ricercare il proprio tornaconto negoziando, volta per volta, la propria area di influenza. A conti fatti non c’era attrito o conflitto che non potesse essere risolto attraverso le normali relazioni politiche e diplomatiche.
La quantità del bottino a disposizione, del resto, era tale da sconsigliare eccessi di avidità. Certo, a differenza del passato, adesso, anche sul piano militare, la latente contraddizione tra il blocco imperialista statunitense e il nascente blocco imperialista europeo cominciava a farsi concreta e reale ma non a tal punto da provocare conflitti, nell’immediato, non mediabili. Tra Stati Uniti ed Europa il conflitto poteva essere tranquillamente posticipato anche perché, in apparenza, dopo l’89 sembrava che solo i Paesi Occidentali fossero in grado di operare sul piano militare tanto che, la conquista dell’intero pianeta, pareva cosa fatta. Come dire: piatto ricco, mi ci ficco, poi si vedrà.
Questa conquista finiva con il mettere tutti d’accordo coltivando, nel frattempo, l’ipotesi che, in un futuro prossimo si potesse giungere a un accordo, su basi maggiormente egualitarie, tra il vecchio drago americano e l’ipotetico nuovo leone europeo. Di ciò ne è in qualche modo testimone tutto il dibattito intorno alla NATO e alla sua funzione che le Cancellerie europee avevano da tempo posto all’ordine del giorno. Del resto la funzione della NATO, nata per “tenere fuori i russi e sotto i tedeschi”, nello scenario che si è delineato non è più in grado di assolvere a quella funzione. La dominanza germanica nella costituzione del polo imperialista europeo ha scompaginato per intero gli assetti geopolitici e geostrategici fuoriusciti dalla Seconda guerra mondiale. I cobelligeranti di oggi portano in loro i conflitti del futuro prossimo. Solo le rapine internazionali possono per ancora qualche tempo tenere insieme queste bande di gangster.
Un progetto di conquista e dominio variamente articolato attraverso operazioni militari dirette o, come nel caso delle innumerevoli “rivoluzioni colorate”, ponendo in atto piani di destabilizzazione politica al limite della guerra civile all’interno di tutte quelle entità politiche poco prone a sottostare ai diktat delle multinazionali e dei loro organi politici ed economici. A fronte di ciò un fatto è difficilmente oggetto di smentita: dopo l’89 tutti i potentati imperialisti hanno iniziato una continua e pressante campagna di conquista nei confronti di tutti quei territori non direttamente sottoposti alle imposizioni degli organismi economici internazionali. Una conquista che, per tutta una fase, non ha conosciuto ostacoli di sorta. All’interno di tale contesto sembrava essere stato accantonato in maniera definitiva quel conflitto interstatuale che tanto aveva pesato sulla storia del Novecento. Repentinamente tale scenario ha iniziato a modificarsi poiché, nel grande gioco geopolitico e geostrategico, potenze quali Russia e Cina sono intervenute pesantemente.
La Russia, forse troppo frettolosamente relegata a micro potenza regionale, ha mostrato di essere in grado di svolgere un ruolo centrale sulla scena internazionale mentre la Cina, che nel frattempo si appresta a diventare la prima potenza industriale del mondo, ha dimostrato di essere fortemente determinata a difendere le proprie aree di influenza non solo sotto il profilo economico ma anche politico e militare. L’entrata in gioco di queste due potenze ha ridefinito lo scenario geopolitico e geostrategico internazionale ma non solo.
Con l’entrata in gioco di queste la tendenza alla guerra propria di ogni crisi dell’imperialismo inizia ad assumere contorni diversi da quelli conosciuti tra la Prima guerra del Golfo e la disarticolazione dello stato libico. Quel tratto sostanzialmente coloniale che aveva accompagnato le varie operazioni di polizia internazionale è obbligato a modificarsi. Difficile, per non dire impossibile, svalutare e quindi ascrivere Russia e Cina nell’ambito dell’impolitico. Difficile relegare Russia e Cina a semplici realtà etniche. La loro forma politica e statuale non può essere posta in discussione, la presenza del nemico torna ad albeggiare con tutte le ricadute del caso. Di ciò diamo qui di seguito una sintetica ricapitolazione.
Le avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute tra la notte del sette e dell’otto agosto 2008, quando la Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud. La reazione di Mosca, alleata dell’Ossezia del Sud, è stata immediata. Le truppe georgiane sono state immediatamente sconfitte e le truppe russe hanno occupato gran parte della Georgia la quale, immediatamente, ha chiesto l’intervento dell’alleato statunitense e della NATO. Intervento che non si è minimamente profilato lasciando la Georgia con il più classico dei pugni di mosche in mano. Nel momento in cui, USA ed Europa si sono trovati di fronte un avversario nei confronti del quale non era realisticamente possibile muoversi in maniera asimmetrica, questi Paesi hanno fatto un corposo passo indietro. Un piccolo incidente che, se isolato, non avrebbe significato più di tanto.
Quanto accaduto in Ossezia del Sud, però, si è ripetuto, e in maniera decisamente esponenziale, nel momento in cui Stati Uniti, Europa e Giappone hanno ipotizzato di attaccare la Siria. In quel caso non solo la Russia ma anche la Cina si è apprestata alla mobilitazione dichiarandosi pronta, in caso di intervento, a schierarsi militarmente al fianco di Damasco facendo seguire, a tali dichiarazioni, fatti quanto mai espliciti. Entrambi i Paesi hanno indirizzato verso il possibile scenario di guerra alcune unità della propria flotta attrezzate per contrastare e neutralizzare l’eccedenza tecnologica che le forze NATO potevano vantare nei confronti dell’apparato militare siriano. A quel punto, a differenza di quanto accaduto in Libia, il conflitto non avrebbe potuto giocarsi attraverso il dominio incontrastato dei cieli e del mare in modo da spianare, sul terreno, la via agli “insorti” di turno ma avrebbe comportato un coinvolgimento diretto, dagli esiti per lo meno incerti, di tutte le forze militari Occidentali. Uno scenario decisamente poco appetibile. Non per caso l’intervento diretto Occidentale è stato rimandato sine die e la guerra “appaltata” a forze locali che stanno dilaniando la Siria in un conflitto dai tratti sempre più endemici e con costi immani per le popolazioni. Nel frattempo, anche se forse poco osservato, vi sono stati tutta una serie di episodi, con protagonista la Corea del Nord, particolarmente degni di interesse.
La Corea del Nord, nonostante agli occhi dell’imperialismo Occidentale e giapponese vanti tutti i requisiti dello “Stato canaglia”, non è stata oggetto di alcun intervento eppure, la sua linea di condotta, lo avrebbe in più occasioni ampiamente sollecitato e meritato. La Corea del Nord, oltre alle continue scaramucce belliche con la Corea del Sud, la costruzione di un potenziale missilistico di media portata e la testazione di ordigni nucleari ha obbligato il Giappone a intraprendere alcune, per quanto limitate, operazioni militari difensive. Ve ne sarebbe abbastanza perché, almeno Stati Unti, Giappone e Corea del Sud, oltre a mai mancanti volenterosi compagni di merende del caso, intraprendessero nei suoi confronti un’operazione non troppo diversa da quella messa in atto in Iraq. Come è noto di ciò non si è mai avuto un qualche sentore. Pechino ha sempre dichiarato che un eventuale attacco alla Corea del Nord avrebbe comportato l’automatico coinvolgimento della Cina nel conflitto il che, per forza di cose, avrebbe ascritto l’intervento in Corea del Nord in qualcosa di ben diverso e distante dall’operazione di polizia. La presenza attiva della Cina avrebbe portato il piano del conflitto fuori dal modello coloniale, rendendo gli esiti della partita perlomeno incerti.
(fine quinta parte – continua)