James & James – Fantasmi (Victoriana 38/II)

di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

2.1. Un erudito in triciclo

Il profilo di Montague Rhodes James (1862-1936, “Montie” o “Monty” per gli amici, mentre la firma era sempre “M.R.J.”) è sicuramente molto diverso da quello di Henry. Anzitutto è inglese, un medievista di rango accademico, prevosto del King’s College di Cambridge (1905-1918), poi dell’Eton College (1918-1936), e vicecancelliere dell’Università di Cambridge (1913-1915). Del suo lavoro di medievista e studioso diremo qualcosa, ma oggi è ricordato principalmente per il suo fondamentale contributo alla ghost story, che ha rimodulato in termini di realismo sornione – le storie si svolgono nella contemporaneità, spesso il protagonista potrebbe essere lui – ma sempre con l’occhio ai suoi interessi eruditi, per cui viene considerato il padre della “storia di fantasmi antiquaria”. Non che in precedenza mancassero spunti di questo tipo – per esempio in certe citazioni colte di Le Fanu, un autore che M.R.J. ama moltissimo, contribuendo in modo importante alla fama di lui presso i posteri – ma nel successore questo elemento acquista un rilievo-chiave, e il racconto si regge proprio su quello.

Figlio di Herbert James, un pastore evangelico anglicano, e di Mary Emily (nata Horton), figlia di un ufficiale di marina, M.R.J. nasce presso Dover in una clergy house – una casa del clero, qualcosa come un vicariato – e cresce in un ambiente fortemente religioso: uno dei fratelli, Sydney, diverrà arcidiacono di Dudley, e per molti anni, fino al 1909, vive presso la canonica di Great Livermere, nel Suffolk (una regione dove poi ambienterà varie delle sue storie di fantasmi), già casa d’infanzia di un altro erudito antiquario locale, Thomas Martin di Palgrave (1696-1771). Qui (riferisce lo specialista di gotico Malcolm Skey, curatore dell’edizione Montague Rhodes James, Racconti di fantasmi, Theoria, Roma-Napoli 1984, cui ci appoggeremo per le citazioni) “James trascorse gran parte del suo tempo libero a visitare le magnifiche chiese gotiche della zona, disegnandone delle piante accuratissime”.

Dopo studi nell’ottima Temple Grove School di East Sheen, nella zona ovest di Londra, grazie a una borsa di studi frequenta l’Eton College dove brilla, incassando premi per la religione, il latino, il greco, il francese. Certo è poco sportivo, caratteristica non troppo apprezzata in Inghilterra, ma passa il tempo nella biblioteca, piena di manoscritti medioevali, e impara da solo l’italiano, il tedesco, l’ebraico, il siriaco, il copto e persino l’etiopico, che gli permette di tradurre in inglese l’apocrifo veterotestamentario noto come Resto delle parole di Baruch. A queste lingue aggiungerà in seguito svedese e danese (traducendo ottimamente Andersen). Un’altra borsa di studi lo porta a Cambridge, dove si occupa di letteratura greca e latina e archeologia classica, di nuovo vince premi a raffica, incassa incarichi e titoli (assistente del direttore e più avanti direttore a sua volta del Fitzwilliam Museum, Fellow e poi Dean e Provost del King’s College, docente di teologia, ma non ama insegnare, infine Vice-Chancellor o rettore dell’intera università), partecipa agli scavi del tempio cipriota di Afrodite a Pafo. Se Cambridge offre ambientazione a parecchi suoi racconti, altri beneficeranno dei suoi viaggi ogni anno in Europa con amici, fino allo scoppio della Grande guerra, in particolare in Francia (la prima volta con un veicolo un po’ curioso, un triciclo doppio, ma non ripeterà l’esperimento) e i Paesi scandinavi. Per inciso, ama recitare, come in una celebre versione di Gli uccelli di Aristofane – ma come ben sanno i suoi amici a cui legge con abilità attoriale le sue storie di fantasmi di Natale.

2.2. “L’album del canonico Alberico” (1894, raccolta in Ghost Stories of an Antiquary, 1904)

Parlare di fantasmi, nel caso di M.R.J., può sembrare una forzatura, un’imprecisione, visto che non sempre si tratta di fantasmi nel senso tradizionale, ma è piuttosto il ricorso estensivo a una categoria letteraria nota per storie sovrannaturali. Così è nel caso di “Canon Alberic’s Scrap-book”, che inizia con l’alter ego dello scrittore a zonzo per l’Occitania.

St Bertrand de Comminges è una cittadina decaduta sui contrafforti dei Pirenei, non molto distante da Tolosa, e ancora più vicina a Bagnères-de-Luchon. Era stata la sede del vescovado fino alla Rivoluzione, e ha una cattedrale che è visitata da numerosi turisti. Nella primavera del 1883 un inglese giunse in questo luogo d’altri tempi (non posso neanche dargli il titolo di città, perché non conta nemmeno un migliaio di abitanti). Era uno di Cambridge, venuto da Tolosa appositamente per vedere la chiesa di St Bertrand, e aveva lasciato due amici, meno appassionati di lui all’archeologia, al loro albergo di Tolosa, con la promessa che lo avrebbero raggiunto il mattino seguente. Una mezz’ora nella chiesa sarebbe stata più che sufficiente per loro, e poi tutti e tre avrebbero proseguito il loro viaggio in direzione di Auch.

Fermiamoci anzitutto sul luogo, che esiste, nel sito della romana Lugdunum Convenarum dove erano stati esiliati – e vi sarebbero morti – Erode Antipa, Erodiade e Salomé. La cattedrale – cathédrale Notre-Dame de Saint-Bertrand-de-Comminges, o cathédrale Sainte-Marie – esiste ed è ricchissima di tesori accumulati nei secoli. Il tipo di Cambridge è naturalmente costruito sul profilo dello stesso scrittore, in viaggio in Francia.

Arrivato di buon’ora, il Nostro si ripropone di prendere un sacco di appunti e di lastre fotografiche, ma per realizzare al meglio il tutto è necessario avere la collaborazione del sacrestano: che si rivela “un oggetto di studio inaspettatamente interessante”. Non tanto per l’aspetto fisico secco e rugoso, quanto per “l’aria curiosamente furtiva, o piuttosto da perseguitato e oppresso che aveva”. Si guarda indietro di continuo, e schiena e spalle appaiono come contratte per il timore di un nemico incombente.

L’inglese non sapeva se giudicarlo un uomo ossessionato da un’idea fissa, od oppresso da una cattiva coscienza, o un marito dominato da una moglie insopportabile. Le probabilità, tutto considerato, suggerivano senz’altro quest’ultima tesi; tuttavia l’impressione che dava era quella di un persecutore più implacabile della più bisbetica delle mogli.

Durante la visita che segue l’inglese, che chiameremo Dennistoun, è molto occupato, ma ogni volta che guarda verso il sacrestano lo trova “schiacciato con le spalle contro il muro, o rannicchiato su uno dei magnifici scanni”: e comincia a domandarsi se l’altro sospetti qualche intenzione losca da parte sua nei confronti dei tesori della chiesa, o che desideri solo andare a mangiare – così gli propone di lasciarlo lì, può chiuderlo dentro, ne avrà ancora per un paio d’ore. Ma l’ometto esclude una proposta simile, e rassicura di potersi fermare senza problemi.

L’edificio sacro è pieno di oggetti preziosi e anche di curiosità, compreso “il polveroso coccodrillo impagliato appeso sopra il fonte battesimale” che san Bertrando avrebbe domato con il suo bastone nella valle di Labat-d’Enbès e con cui a volte viene rappresentato (in realtà sembra che l’abbia portato un cavaliere del luogo, tale Enguerrand de Carminge, come trofeo dalle crociate, assieme alla storia eroica e dubbia del suo attacco da parte del mostro). Bertrando (L’Isle, 1050 circa – Comminges, 16 ottobre 1123), della famiglia dei conti di Tolosa è vescovo della città per mezzo secolo; alla sua canonizzazione nel 1222 l’antica Lugdunum Convenarum/Comminges – rifiorita sotto il suo episcopato la città e divenuta una tappa sulla via di Santiago – gli viene intitolata (ricorrenza liturgica della depositio, 16 ottobre). In effetti Bertrando ha da subito fama di santità e gli vengono attribuiti miracoli, oltre a efficaci esorcismi.

L’operazione di censire le bellezze artistiche della cattedrale procede, e il sacrestano sta incollato a Dennistoun, solo sobbalzando e occhieggiando indietro a ognuno “di quegli strani rumori che popolano un grande edificio vuoto. Rumori curiosi, a volte”. Come racconterà Dennistoun al narrante, a un certo punto gli pare di udire “una sottile voce metallica ridere in alto sul campanile”, e il sacrestano commenta terrorizzato “È lui… cioè… non è nessuno; la porta è chiusa” prima di scambiare con l’inglese una lunga occhiata. Un cachinno grottesco e sinistro legato a un campanile fa naturalmente pensare a “Il diavolo nel campanile” di Poe, ma vedremo che qui la storia si sviluppa in una direzione completamente diversa.

Quando Dennistoun esamina “un grande quadro scuro appeso dietro l’altare, appartenente a una serie sui miracoli di St Bertrand”, tanto scuro da essere quasi indecifrabile, occhieggia la legenda “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare [Come St Bertrand liberò un uomo che il diavolo aveva a lungo cercato di strangolare]” e si volta divertito, nota che il vecchio è in ginocchio a mani giunte con gli occhi lacrimosi – tanto da fargli pensare a una monomania dell’uomo. Questa scena è comunque particolarmente emblematica, rivelativa fin d’ora degli ingredienti (diciamo così) della narrazioni di James: un quadro oscuro, una scritta pittoresca in latino che accenna a storie soltanto alluse e percorsi equivoci – strangolatori sono per esempio gli incubi o i vampiri folklorici –, le reazioni contrastanti di uno straniero e di un altro che sa qualcosa… un mix formidabile di erudizione, affabulazione e fantasia dove il lettore, specie dopo averne letti alcuni, capisce alla grossa dove si voglia andare a parare ma si gode troppo la qualità narrativa e il tipo di voce.

Sono ormai quasi le cinque, la giornata è corta, la chiesa si riempie di ombre e di rumori: il sacrestano inizia col mostrare segni d’impazienza e sospira di sollievo quando Dennistoun ripone macchina fotografica e taccuino. Lo invita dunque a seguirlo verso l’entrata ovest, per suonare frettolosamente l’Angelus alla fune della torre campanaria, poi lasciano la chiesa e il sacrestano osserva che il visitatore sembrava interessato ai vecchi libri del coro nella sacrestia: lui conferma, chiede se ci sia una biblioteca in città, ma purtroppo quella del Capitolo appartiene ormai al passato. Ci sarebbe però – il sacrestano ci pensa su un attimo, come a decidersi se parlare o meno – un vecchio libro a casa sua, lì vicino. Per un attimo, Dennistoun pregusta la possibilità di chissà quale scoperta per poi escludere, sarà un comune messale cinquecentesco… comunque tanto vale farci un salto. Si chiede persino se il vecchio, “ritenendolo uno dei soliti ricchi viaggiatori inglesi”, non voglia attirarlo in qualche trappola, per cui butta lì che il giorno dopo lo raggiungeranno due amici – ma la notizia sembra anzi tranquillizzare il sacrestano.

La casa descritta può far pensare a qualcuna autentica della cittadina, per chi oggi voglia visitarla:

Ben presto giunsero davanti alla casa, che era un po’ più grande di quelle vicine, costruita in pietra, con uno stemma scolpito sopra la porta, lo stemma di Alberico de Mauleon, un discendente collaterale, mi dice Dennistoun, del vescovo Jean de Mauleon. Questo Alberico era stato canonico di Comminges dal 1680 al 1701. Le finestre dei piani superiori erano chiuse con delle assi, e tutta la casa aveva, come il resto di Comminges, un’aria di decadenza. Giunto sulla soglia, il sacrestano si fermò un momento.

E chiede, quasi sperando il contrario, se l’inglese abbia tempo, ma lui ribatte che non ci sono problemi, fino all’indomani non ha più niente da fare. Potranno vedere con calma cosa lui abbia in casa.

La porta viene aperta dalla giovane figlia del sacrestano, carina, con l’aria preoccupata – una preoccupazione non per sé ma per qualcun altro. Breve scambio di frasi tra il padre e lei, Dennistoun coglie solo un riferimento a qualcuno che rideva in chiesa. Poco dopo si trovano nel soggiorno, che pare una cappella, dominato com’è da un enorme crocifisso: e da una cassapanca il sacrestano, emozionato e nervoso, estrae il vecchio libro, “avvolto in un panno bianco su cui era stata rozzamente ricamata una croce di filo rosso”. Troppo grande per un messale e privo della forma di un antifonario: per cui forse, ragiona Dennistoun, un qualche interesse c’è. E quel che trova lo lascia stupefatto.

Davanti a lui c’era un ampio in-folio che risaliva, forse, alla fine del diciassettesimo secolo, con il blasone del canonico Alberico de Mauléon impresso in oro sui margini. Ci saranno stati forse centocinquanta fogli, e su ognuno di essi era incollata una pagina di un manoscritto miniato. Neanche nei suoi momenti più deliranti Dennistoun aveva mai sognato una simile collezione. C’erano dieci fogli di una copia della Genesi, illustrata con disegni, che non potevano essere posteriori al settimo secolo dopo Cristo. Più oltre, una serie completa di immagini di un libro dei Salmi, di fattura inglese, del tipo più bello che avesse potuto produrre il tredicesimo secolo; e, forse più preziosi di tutti, c’erano venti fogli di scrittura onciale in latino, che, come poche parole scorte qua e là gli rivelarono immediatamente, dovevano appartenere a un trattato di patristica molto antico e sconosciuto. Possibile che fosse un frammento della copia della Esposizione dei detti del Signore di Papias, che si sapeva essere esistita a Nîmes fino al dodicesimo secolo?

Una nota dell’autore conferma sorniona “Noi ora sappiamo che questi fogli contenevano un considerevole frammento di quell’opera, se non di quello stesso esemplare”. Per inciso, Papias è san Papia di Ierapoli, e dell’opera citata Esposizione dei detti del Signore (110 o 130) restano solo tredici frammenti, di ambiente – a quanto pare – giudeocristiano. Eusebio di Cesarea stronca Papia come sostenitore del pensiero millenarista, e il profilo del santo è in effetti curioso, oltre che piuttosto misterioso.

Dunque Dennistoun si prepara a estinguere il proprio conto in banca per acquisire il volume, che il sacrestano invita a sfogliare fino alla fine: e a ogni nuovo foglio appare un tesoro. Alla fine dell’album spiccano un paio di fogli più recenti:

Dovevano essere contemporanei, stabilì [Dennistoun], del disonesto canonico Alberico, che aveva senza dubbio saccheggiato la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore. Sul primo foglio c’era una pianta, accuratamente disegnata e immediatamente riconoscibile da chiunque conoscesse il luogo, della navata sud e del chiostro di St Bertrand. C’erano degli strani segni che sembravano simboli di pianeti, e alcune parole ebraiche agli angoli; e sull’angolo nord-occidentale del chiostro era stata dipinta una croce d’oro. Sotto la pianta c’erano alcune righe scritte in latino, che dicevano così:

Responsa 12mi Dec. 1694. Interrogatum est: Inveniamne? Responsum est: Invenies. Fiamne dives? Fies. Vivamne invidendus? Vives. Moriarne in lecto meo? Ita [Risposte del 12 dicembre 1694. Fu chiesto: Lo troverò? Risposta: Lo troverai. Diventerò ricco? Lo diventerai. Vivrò invidiato? Vivrai così. Morirò nel mio letto? Sì].

– Un bel colpo per un cacciatore di tesori. Me ne ricorda uno del canonico minore Quatremain ne La vecchia cattedrale di S. Paolo – fu il commento di Dennistoun; e voltò pagina.

La battuta finale è un richiamo a un altro personaggio letterario, il reverendo Quatremain, canonico minore della cattedrale di San Paolo a Londra, nel romanzo Old Saint Paul’s (1841) di William Harrison Ainsworth (1805-82), che ritiene di aver localizzato un tesoro sepolto nell’edificio sacro. In compenso gli “strani segni che sembravano simboli di pianeti” fanno pensare a quelli autenticamente presenti su un capitello nella cattedrale autentica di St Bertrand de Comminges.

Cerchiamo però di capire cosa sia scritto in quei fogli, che James presenta sornione senza commentare. Anzitutto, come in Ainsworth, c’entra la localizzazione di un tesoro, legata ad alcuni dati esoterici. Ma Alberico non è “disonesto” solo perché ha sforbiciato “la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore”: in quello stralcio emerge qualcosa di ben più incompatibile con il suo stato di canonico. Le domande e risposte – in latino, da parte dell’erudito autore – richiamano volutamente quelle delle coeve sedute spiritiche, anche se Alberico vive assai prima di quel revival di antiche credenze. E dunque non è all’entità infrattata in un tavolino a tre gambe che si sta rivolgendo.

Infatti quando Dennistoun volta pagina trova qualcosa che lo colpisce ben di più: “più di quanto egli avrebbe mai creduto possibile che un disegno o un quadro potesse colpirlo. E anche se il disegno che vide non esiste più, c’è una sua fotografia (che io posseggo) la quale avvalora pienamente questa affermazione”. Un disegno a nero di seppia di fine XVII secolo, che raffigura Salomone, assiso sulla destra, che impartisce comandi: “Ma la metà sinistra del disegno era la più inquietante”. Un gruppo di quattro soldati circonda il corpo di un quinto, “morto, con il collo spezzato e gli occhi fuori dalle orbite” (ricordiamo il cartiglio sotto l’affresco del dipinto in chiesa, “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare”?). E accovacciato in mezzo a loro – preoccupati, non fuggono solo per fiducia nel re – sta una creatura la cui immagine, sporta in foto a uno studioso di morfologia, un uomo equilibrato al punto da essere quasi privo di immaginazione, lo indurrà a restare in compagnia per tutta la sera e, le seguenti, a non spegnere troppo presto la luce.

Comunque, posso almeno indicare i tratti principali della figura. A tutta prima si vedeva solo una massa ispida e ingarbugliata di peli neri; poi ci si accorgeva che questa ricopriva un corpo di spaventosa magrezza, quasi uno scheletro, ma con i muscoli tesi come fili metallici. Le mani erano di un tetro pallore e ricoperte, come il corpo, di peli lunghi e ispidi, e munite di orribili artigli. Gli occhi, colorati di giallo fiammante, avevano pupille intensamente nere, ed erano puntati con un’espressione di odio bestiale sul re che sedeva sul trono. Immaginate uno di quegli orribili ragni uccellatori del Sudamerica tradotto in forma umana, e dotato di un’intelligenza poco meno che umana, e avrete una pallida idea del terrore che ispirava questa spaventosa immagine. Un’osservazione è stata fatta da tutti coloro ai quali ho mostrato il disegno: «È stato preso dal vero».

A noi un’immagine del genere può sembrare più assurda e grottesca che spaventosa, ma due elementi vanno considerati. Da un lato la nostra sempre maggiore tolleranza all’orrore: impensabili oggi certe reazioni terrorizzate documentate davanti ai primi horror, dove ciò che scatenava il panico non era tanto ciò che si vedeva quanto l’attesa di un tremendum in un linguaggio legato a certi non-detti, ombre e allusioni. Ma c’è un secondo elemento, che riconduce proprio alle mitologie tra otto e novecento. Questa specie di demone ragnesco richiama a tutta una mitologia su ragni più o meno antropomorfi documentata al tempo, con effetti a dir poco perturbanti.

Alla domanda se i suoi racconti derivino da libri, James nell’introduzione ammette che “A quest’ultima domanda è […] difficile rispondere in modo conciso. Altri autori si sono occupati di ragni orripilanti – per esempio Erckmann-Chatrian, in un pregevole racconto intitolato ‘L’Araignée Crabe’”. Ma del dinamico duo francese così siglato (una firma unitaria per Émile Erckmann, 1822-1899 e Alexandre Chatrian, 1826-1890) merita ricordare anche un altro testo, “L’Œil invisible ou L’auberge des trois pendus” che si dice – ma è controverso – abbia ispirato il racconto lungo di Ewers Die Spinne: appunto Il ragno, 1908, testo recettore di tutta una mitologia su ragni & strangolamenti attraverso una degradata erede della Grande Dea-ragno del filo e del cappio, Arianna/Aracne (cfr. la tavola Arachne di Otto Henry Bacher, 1884, coi fili della ragnatela da cui promanano capelli e – scarse – coperture all’avvenente corpo nudo). D’altronde, James può ben ricordare la suggestione di un ragno demoniaco offerta da un testo classicissimo, Il ragno nero (Die schwarze Spinne) di Jeremias Gotthelf, 1842, apologo dal gusto folklorico sulla presenza del Male nella realtà.

D’altra parte, se il racconto non fosse precedente al Dracula, sarebbe difficile che, nell’abbinamento ragno/chiesa/torre campanaria, James non ricordasse l’episodio evocato per voce di Van Helsing (nel cui bestiario potrebbero ben stare gli “orribili ragni uccellatori del Sudamerica”) su “quello altro grande ragno […] vissuto per secoli nella torre di grande chiesa spagnola ed è cresciuto e cresciuto finché, venendo giù, ha bevuto tutto olio di lampade in chiesa”. Dove Stoker (come forse anche James) ha in mente casi come quello repertoriato in un numero del 1821 dell’Edinburgh Magazine and Literary Miscellany, sezione “Literary and Scientific Intelligence”:

Ragni. — Il sacrestano della chiesa di St Eustace, a Parigi, meravigliato di riscontrare la frequenza con cui una certa lampada si spegneva un po’ troppo presto, e il fatto che si consumasse solo l’olio, si è appostato varie notti per capirne la causa. Alla fine ha scoperto che un ragno di dimensioni sorprendenti scendeva lungo il cordone per bersi l’olio. Un esempio ancora più straordinario dello stesso genere si verificò nell’anno 1751, nel Duomo di Milano. Vi fu osservato un grosso ragno, che si cibava dell’olio delle lampade. M. Morland, dell’Accademia delle Scienze, ha descritto questo ragno e ne ha fornito un disegno. Pesava quattro libbre inglesi [pounds], e fu mandato all’Imperatore d’Austria, ed è ora al Museo Imperiale di Vienna.

Ancora, si può ricordare la disturbante immagine dell’ipnotizzatore Svengali del quasi coevo romanzo Trilby di George du Maurier, 1894/95, raffigurato come un ragno predatore al centro della sua rete (l’autore ne offre anche una celebre illustrazione, 1895) e l’anno prima Conan Doyle paragonava l’Arcicattivo professor Moriarty – vera e propria espressione di Satana in chiave laica – al ragno al centro di una tela (1893): a suggerire l’impatto disturbante dell’immagine del ragno nelle fantasie vittoriane. D’altra parte, la perturbante somiglianza tra il ragno e la mano artigliante (già implicitamente evocata qui, sarà un topos dell’immaginario espressionista tedesco) rimane sullo sfondo di tutto un immaginario del primo Novecento. Skey commenta che “Di ragni si parla soprattutto nei racconti “Il frassino” e “Il trattato Middoth”: essi costituivano comunque una sorta di fissazione per James, il quale non di rado vi fa ricorso come paragone morfologico”, e cita appunto “L’album del canonico Alberico”: ma il paragone morfologico, la metafora, è spesso – lo sappiamo – la suggestione attraverso cui un narratore evoca un proprio incubo e da cui parte per una storia. Tanto più attraverso l’impressione che l’immagine del demone sia stata effettuata “dal vero”. Per inciso, sugli stalli del coro della chiesa in questione è possibile vedere una immagine lignea della tentazione di Cristo con un Satana irsuto come il demone qui descritto.

Comunque Dennistoun, “placata la prima violenta impressione di irresistibile terrore” (il suo, anche se in parallelo il sacrestano si copre gli occhi con le mani e la figlia recita il rosario) domanda se il volume sia in vendita: il vecchietto chiede il prezzo ridicolo di duecentocinquanta franchi e l’inglese spiega che il libro varrebbe molto di più, ma l’interlocutore non vuole una cifra maggiore. Concluso l’affare, sembra diventare anzi un altro uomo – perché l’album, intuiamo, non è più suo – , guadagna in forze e buonumore e si offre di accompagnare l’acquirente all’albergo. Dennistoun ringrazia e declina gentilmente l’offerta, non sono neanche cento metri, ricevendo allora calorose raccomandazioni di evitare i bordi strada accidentati. Sta anzi per uscire, quando la figlia del sacrestano gli si avvicina: lui per un attimo si domanda se lei non stia cercando di guadagnare qualcosa in proprio dall’affare economicamente discutibile del padre, ma la ragazza intende solo offrirgli una catena con una croce d’argento: in cambio, spiega, non vuole nulla. Un po’ a disagio, Dennistoun – che più avanti scopriremo essere presbiteriano – ringrazia e si lascia mettere la catena al collo (qui, di nuovo, è inevitabile ripensare a una simile scena all’inizio del Dracula, dove si esplicitava anche la ritrosia britannica verso simili res sacrae, ma il testo in questo caso è precedente): “Sembrava che avesse reso a padre e figlia un favore che essi non sapevano come ripagare”.

I due restano anzi a guardarlo fin quando non li saluta dai gradini dell’albergo Chapeau Rouge dove alloggia (per inciso, il Red Cap nella tradizione dell’area tra Inghilterra e Scozia è uno spirito cattivo uso a uccidere i viaggiatori): e dopo cena si ritira rapidamente in camera. Cogliendo solo un frammento di discorso tra il sacrestano e la proprietaria, che accenna che “Pierre e Bertrand rimarranno a dormire in casa”. Capiremo più avanti chi siano costoro.

Ma intanto ha iniziato a sentirsi nervoso, con la spiacevole impressione di avere qualcuno alle spalle. Certo, tutto questo era accettabile a fronte della meraviglia acquistata, di cui ogni attimo scopre qualche ulteriore ricchezza.

«Benedetto il canonico Alberico!», esclamò Dennistoun, che aveva l’inveterata abitudine di parlare da solo. «Mi chiedo dove sia adesso… Povero me! Vorrei che la padrona imparasse a ridere in un modo un po’ più allegro; ti fa sentire come se ci fosse un morto in casa. Ancora mezza pipa, hai detto? Forse hai ragione. Mi domando cosa sia quel crocifisso che la ragazza ha insistito per darmi. Del secolo scorso, suppongo… Sì, probabilmente. È un oggetto abbastanza fastidioso da tenere appeso al collo – veramente troppo pesante. È probabile che suo padre lo abbia portato per anni. Forse dovrei dargli una pulita prima di metterlo via».

E così si sfila il crocifisso e lo posa sul tavolo – notando però “un oggetto posato sul panno rosso proprio accanto al suo gomito sinistro. Due o tre idee di quello che poteva essere gli passarono per la mente a incalcolabile velocità”. Fino a pensare a un grosso ragno… e riconoscere invece una mano simile a quella del disegno. Dove torna il tema del ragno e la sua assimilazione a una mano minacciosa, quella artigliante che potrebbe strangolare:

Una pelle pallida, terrea, che non copriva che ossa e tendini dalla forza spaventosa; ispidi peli neri, più lunghi di quelli di qualsiasi mano umana; unghie che spuntavano in cima alle dita e si incurvavano adunche e acuminate, grigie, cornee e rugose.

E la creatura la cui mano era emersa sta sollevandosi in piedi – doveva essere ripiegata sotto il tavolo, lui schizza dalla sedia: e la vede,

avvolta in un manto nero e cencioso; coperta, come nel disegno, di peli ispidi. La mascella inferiore era sottile – come posso definirla? –, bassa, come quella di un animale; dietro le labbra nere si vedevano i denti; non aveva naso; gli occhi di un giallo acceso, dove le pupille apparivano nere e intense, e l’odio esultante e la sete di distruzione che vi brillavano erano il particolare più terrificante di tutta la visione. C’era in essi una forma di intelligenza, un’intelligenza superiore a quella di una bestia, inferiore a quella di un uomo.

Stravolto da paura e disgusto, sconcertato su ciò che debba fare in un simile frangente, brandisce il crocifisso, percepisce un moto del mostro nella sua direzione e poi urla. I due robusti servitori Pierre e Bertrand irrompono, si sentono spostare di lato da qualcosa che passa velocissimo in mezzo a loro, e trovano l’inglese svenuto: restano con lui tutta la notte, e quando l’indomani gli amici arrivano lo trovano un po’ ripreso. E non hanno troppe difficoltà a credere al suo racconto, una volta visto il disegno e parlato con il sacrestano che era arrivato all’alba all’albergo: niente affatto sorpreso, spiega che lui l’aveva visto due volte, e sentito un migliaio… ma rifiuta di fornire dettagli, come pure di dire da dove venga il libro. “Fra breve dormirò, e il mio riposo sarà dolce. Perché volete tormentarmi?”: e in effetti, ci informa una nota dell’autore, “Morì quell’estate stessa. Sua figlia si sposò e si stabili a St Papoul: non riuscì mai a comprendere le ragioni dell’«ossessione» del padre”. Ma sul rovescio del fatale disegno si legge:

Contradictio Salomonis cum demonio nocturno.

Albericus de Mauleone delineavit.

v. Deus in adiutorium. Ps. Qui habitat.

 

Sancte Bertrande, demoniorum effugator, intercede pro me miserrimo.

 

Primum vidi nocte 12mi Dec. 1694; videbo mox ultimum.

Peccavi et passus sum, plura adhuc passurus.

Dec. 29, 1701

Disputa di Salomone con un dèmone della notte.

Disegno di Alberico de Mauléon.

Versetto: Oh Signore, affrettati ad aiutarmi. Salmo: Chi abita [XCI].

St Bertrand, che metti i dèmoni in fuga, intercedi per me, misero.

Lo vidi per la prima volta il 12 dicembre 1694; presto lo vedrò per l’ultima volta. Ho peccato e sofferto, e dovrò soffrire ancora.

29 dicembre 1701

Una nota aggiunge l’informazione recata da Gallia Christiana: il canonico Alberico morì il 31 dicembre 1701 (dunque due giorni dopo l’iscrizione citata), “nel suo letto, di un colpo apoplettico”. Per inciso il “Salmo: Chi abita [XCI]” è quello che invita a non temere i pericoli della notte o del giorno. Le traduzioni bibliche recenti tendono a interpretare in senso naturalistico le minacce evocate nel Salmo, ma vari dei richiami si riferiscono in origine a entità demoniache, notturne o meridiane.

Comunque il narrante spiega sornione di non aver mai capito l’opinione di Dennistoun sul tema:

Una volta mi citò un passo dell’Ecclesiaste: «Vi sono alcuni spiriti creati per la vendetta, e nella loro furia vibrano colpi dolorosi». In un’altra occasione disse: «Isaia era un uomo molto saggio; non dice qualcosa di mostri notturni che vivono fra le rovine di Babilonia? Queste cose sono piuttosto al di sopra di noi, al giorno d’oggi».

Sembra insomma accettare l’idea che si trattasse effettivamente di un demone, che avrebbe infelicitato la vita di Alberico come poi del sacrestano; e la decadenza della cittadina lo fa pensare alle città desolate della Bibbia. Il canonico aveva interpellato il demonio per costringerlo a rivelare il luogo del tesoro, magari servendosi dalla Clavis Salomonis o della successiva Clavicula Salomonis (nota come Lemegeton)? In effetti simili informazioni non sono assenti nei grimori, e il demone potrebbe essere qualcuno di quelli lì descritti, come Purson, Barbatos, Astaroth, Seir, Kimaris, Raum, Andromalius, Foras, Amy, Valac, patroni della scoperta di tesori sepolti…

Ma a colpire il narrante è un’altra confidenza: dopo quei fatti, e recatosi l’anno precedente con Dennistoun a Comminges, a visitare la tomba del canonico Alberico, il bibliofilo parla un po’ con il vicario di St Bertrand. Venendo via, accenna come fosse una semplice supposizione al fatto che verrà celebrata un messa funebre cantata per il riposo di Alberico de Mauléon: salvo poi aggiungere “Non avevo idea che costassero così care”. Dunque l’ha richiesta lui…

Il racconto termina con la registrazione che il “libro si trova ora nella collezione Wentworth a Cambridge. Il disegno fu fotografato e poi bruciato da Dennistoun il giorno in cui lasciò Comminges in occasione della sua prima visita”. A suggerire che una copia possa essere meno minacciosa dell’originale: una questione almeno dubbia, che si rimanda ai nostri ascoltatori e lettori. Nell’epoca dell’indefinita riproducibilità seriale, in L’ultimo cranio del marchese di Sade Jacques Chessex specula acutamente sulle caratteristiche minacciose che dall’originale traghetterebbero alle copie. Vedete un po’ voi.

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