«Voi porterete questo paese alla rovina, e noi toccherà salvarlo»
Antonio Gramsci davanti al tribunale speciale fascista, 1927
La fine degli anni Settanta segna un cambio netto nei meccanismi di funzionamento e di governance del capitalismo a livello globale. Questo ha una sua specifica declinazione italiana, quella che possiamo chiamare «via italiana al liberismo». La sua caratteristica è l’adattamento ad un nuovo contesto globale degli elementi della borghesia italiana considerati «arretrati» (dai riformisti e dai liberali vecchio stampo). Nella contesa all’interno dei ceti medi e medio-alti il palazzinaro ha vinto sull’ingegnere, il trafficone con la terza media sul professore universitario, il padrone che sfrutta, evade e delocalizza sull’imprenditore che investe in tecnologia e formazione della forza lavoro, il kapò delle false cooperative sul professionista.
Si è determinata l’egemonia sociale e politica di un ceto predatorio e parassitario che prospera sullo sfruttamento della forza lavoro, sull’evasione fiscale e la rendita. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti e tutte: aumento delle sperequazioni sociali (il 20% degli italiani controlla il 70% della ricchezza)[1], aumento del divario tra le diverse aree del paese[2], aumento della povertà soprattutto tra le fasce più giovani[3], crisi demografica[4], blocco della produttività[5], dei salari e soprattutto del cosiddetto «ascensore sociale».
Oggi, dopo 40 anni di «via italiana al liberismo» 6 italiani e italiane su 10 hanno un livello di istruzione di basso, e l’ingiustizia del sistema fa sì che i loro figli e figlie non possano (se non raramente) ambire alla laurea. Risultato? In Italia solo il 28% dei e delle giovani tra i 24 e i 34 anni raggiunge la laurea, peggio di noi in Europa fa solo la Romania, mentre la media Europea è del 41%[6].
Secondo il 55° rapporto del Censis tra tutti gli Stati europei, l’Italia è quella con il maggior numero di giovani che non studiano e non lavorano. Nel 2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: + 5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, nelle regioni del Centro il 24,9% e il 19,9% al Nord.
I salari sono fermi, anzi lievemente diminuiti rispetto al costo della vita, negli ultimi 30 anni
«Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia»[7].
Quanto alle condizioni di lavoro:
«Su “62.710 ispezioni” realizzate nelle aziende dal solo personale dell’Inl (Ispettorato nazionale del lavoro) nel 2021, “oltre il 62% è risultato irregolare” ma, se si considerano i controlli effettuati globalmente insieme a Inps e Inail, pari a 84.679, la percentuale delle realtà produttive con irregolarità sale al 69%.
A rivelarlo è la relazione annuale dell’Ispettorato sull’attività dell’anno passato, appena pubblicata.
Gli indici di irregolarità più elevati, viene indicato, “si riscontrano nell’edilizia e nel terziario laddove, in particolare, si rileva un tasso di irregolarità notevole nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione, trasporto e magazzinaggio, ma soprattutto nei servizi a supporto delle imprese, dove gli indici di irregolarità sono riconducibili, in primo luogo, ad esternalizzazioni e interposizioni illecite”»[8].
Se si osservano i dati economici che descrivono la situazione generale del paese balza agli occhi il loro progressivo e strutturale peggioramento dalla crisi del 2008 in poi[9], sopratutto colpisce come gli investimenti si spostino verso le produzioni a basso valore aggiunto[10], come aumenti la povertà soprattutto tra le fasce d’età più giovani.
Nel 2022 sono ben 3 milioni, il 12% della forza lavoro, i lavoratori e le lavoratrici il cui reddito annuale è sotto gli 11.500 euro l’anno, quelli che le statistiche ufficiali chiamano «lavoratori poveri». Il 50% dei lavoratori e delle lavoratrici tra i 30 e i 34 anni guadagna dagli 8.000 ai 16.000 euro l’anno, un altro 20% della categoria demografica si ferma ai 22.000 euro l’anno. Al sud si guadagna il 25% in meno e le donne percepiscono in media il 27% in meno degli uomini[11].
Il Sole 24 ore, il quotidiano di Confindustria scrive:
«Nel curriculum di oltre la metà degli under 35 ci sono esperienze di lavoro nero, contratti precari e disoccupazione, ma anche vessazioni o molestie sul lavoro (sono denunciate da una giovane su 7). Con retribuzioni mediamente basse, in prevalenza sotto i 10mila euro, oltre la metà dei giovani deve rinunciare all’autonomia, vivendo ancora con i propri genitori»[12].
In generale oggi in Italia le classi lavoratrici risultano oggi spezzettate a seconda del luogo di lavoro, dell’area geografica di residenza, dell’età, della provenienza, ecc. Il sistema neoliberale è di fatto un sistema coloniale che frammenta e sfrutta le popolazioni oppresse, schiaccia e declassa i ceti intellettuali e premia i veri e propri kapò, scelti tra gli elementi umanamente e culturalmente peggiori all’interno dei ceti medi e medio-alti. Buona parte di questa classe possidente è infatti tale perché si è adattata al declino e alla dismissione di questa geografia chiamata Italia, alla negazione del futuro per chi la abita.
Ciò che i liberali e i riformisti non hanno letto è stato proprio questo: la finanziarizzazione dell’economia globale, il ridefinirsi dei mercati, la divisione del lavoro ecc. hanno premiato ciò che essi consideravano «arretrato» e destinato ad una scomparsa quasi indolore. Invece è proprio la parte più parassitaria e retriva della borghesia italiana quella ad essere premiata dai meccanismi del capitalismo contemporaneo. E questo determina una vera e propria putrescenza dell’economia, della società, del discorso pubblico e della cultura.
Secondo il Censis:
«siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali»[13].
Il capitalismo italiano è divenuto incompatibile con qualunque pratica della democrazia effettiva. Il discorso pubblico si è adattato all’ideologia dominante, cioè all’ideologia del blocco sociale dominante, formato dal connubio tra grande capitale e ceto medio-piccolo proprietario. E sono state soprattutto la volgarità e la brutalità di quest’ultimo a dare «il tono» al «senso comune».
Dagli anni Ottanta in poi quello che è stato presentato come «modernità e sviluppo» ha prodotto miseria, devastazione ambientale, crisi demografica e ignoranza. È in questo quadro che la Repubblica si è dissolta per il progressivo abbandono da parte di tutte le forze politiche parlamentari della volontà di perseguire il modello di società delineato dalla sua Costituzione.
A questo hanno contribuito in modo determinante i cambiamenti geopolitici. Dopo il 1989 cambiano gli equilibri mondiale ed emergono rapidamente tutte le debolezze finanziarie ed economiche dello stato italiano. Nel nuovo quadro della globalizzazione liberista il «sistema Italia» e i territori che lo compongono hanno dovuto competere con altri capitalismi nazionali e territoriali all’interno dell’Unione Europea. Lo hanno fatto, come abbiamo appena visto, valorizzando i suoi aspetti peggiori.
L’Unione Europea non è infatti «un giardino», come ha affermato il “socialista” Borrell il 13 ottobre 2022 parlando all’European Diplomatic Academy[14], ma piuttosto un ring che garantisce ai diversi capitalismi europei di poter confliggere tra loro in modo controllato, in uno spazio regolato secondo un’impostazione rigidamente liberista.
Il fatto che la UE non sia uno stato federale, ma una confederazione di stati nazione è frutto delle necessità delle sue classi dominanti. L’attuale architettura istituzionale europea consente infatti al capitale di potersi organizzare a livello continentale limitando la democrazia (e sopratutto la democrazia effettiva espressa dai corpi intermedi o dai momenti di protesta sociale) all’ambito nazionale. Ma questo sistema è intrinsecamente fragile, portato ad alimentare spinte centrifughe ad ogni crisi e soprattutto incapace di dotarsi una stabile guida politica. La BCE può infatti amministrare l’economia del continente, ma non si può governarla davvero senza un centro direttivo politico, senza una politica economica comune, senza una politica estera comune (e quindi una diplomazia e un esercito comuni). E questo fa si che i vari capitalismo nazionali continuino a perseguire i propri interessi sul ring continentale, senza svolgere quell’azione storica progressiva che sarebbe l’unificazione politica europea.
In questo contesto, sia geopolitico che socioeconomico, il dettato costituzionale nato dalla Resistenza e il meccanismo istituzionale ideato per attuarlo non potevano più essere mantenuti come fondamento del «patto sociale» alla base dello stato italiano. Di qui la loro sostituzione con (incerti o fallimentari) meccanismi atti a garantire la «governabilità». Ad essi si è accompagnata la ripresa dell’ideologia dello stato-nazione in forme che ricordano quella tardo ottocentesca e primo novecentesca, con l’inevitabile bagaglio di razzismo che essa comporta.
Tanto più lo stato italiano è diventato incapace di fornire welfare, di programmare lo sviluppo economico, di garantire un futuro ai territori e alle popolazioni che amministra, tanto più ha sentito il dovere di fare un grosso investimento propagandistico sull’ «identità italiana», ormai tirata in ballo anche nelle pubblicità di biscotti o cibo per cani.
In realtà l’Italia si è inserita nel sistema liberista europeo come produttrice a basso costo all’interno di una filiera del valore che ha visto emergere principalmente la Germania come capofila. Ma alla lunga, in modo evidente dopo la crisi del 2008, questa condizione ha logorato l’economia e la società italiana, trasformandole in un peso per il resto d’Europa. Senza contare il fatto che una parte dei suoi ceti possidenti sono tali per rendite di posizione e privilegi incompatibili con i regolamenti europei (si vedano a titolo di esempio le concessioni balneari o la mancata revisione del catasto).
Di fatto questa è la più grossa contraddizione oggi presente all’interno delle classi possidenti italiane: il permanere dell’Italia all’interno dell’Unione Europea è inevitabile, a meno di non voler fare prima fallimento e poi la fame. Ma questo permanere potrebbe essere assicurato e stabilizzato solo con profondi cambiamenti che ridiscuterebbero l’egemonia e spesso la natura stessa di quei ceti possidenti che sono oggi egemoni all’interno della borghesia italiana. Nel contempo (essendo quello europeo un quadro di governance liberista), questi cambiamenti sono solitamente progettati escludendo a priori la possibilità di maggiore spesa pubblica o di effettive politiche ridistributive (ad esempio una tassa patrimoniale per essere effettiva dovrebbe riguardare l’intera Unione Europea). Di qui l’impossibilità che essi trovino un sostegno di massa tra i ceti popolari e quindi il fallimento del «riformismo europeista» incarnato dal PD.
Da questa contraddizione strutturale conseguono tutte le contraddizioni visibili a livello sovrastrutturale. La mancanza di unità d’intenti e visione strategica da parte dei ceti benestanti, il loro sostanziale rifiuto delle regole alla base dell’Unione Europea unito alla loro necessità di restarvi dentro, la loro dipendenza da favoritismi e sussidi di stato, determina per essi la necessità di essere disciplinati dal potere politico. Potere politico che però non ha stabili basi nella società a causa della progressiva distruzione dei corpi intermedi (a cominciare da partiti, sindacati e associazionismo), che è un portato inevitabile del modello sociale e politico liberista.
Da tutto ciò è derivata l’assunzione a dogma bipartisan del concetto di «governabilità», qualcosa che è di per sé un controsenso rispetto ad un ordinamento istituzionale basato (in teoria) sulla centralità del parlamento e quindi (sempre in teoria) sulla sua capacità di rappresentare in modo costante la popolazione e nel contempo dirigere il paese.
Nel corso dell’ultimo decennio il mancato raggiungimento della «governabilità» ha condotto all’emergenzialità permanente. Con due governi «tecnici» o di «unità nazionale», quelli di Monti e Draghi, il cui risultato più tangibile è stata l’affermazione elettorale delle forze politiche che si sono posti come opposizione ad essi. Sino all’attuale ascesa dell’attuale maggioranza di estrema destra
[13] «La società irrazionale», 55° rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese, 3 dicembre 2021 https://www.censis.it/rapporto-annuale/la-societ%C3%A0-irrazionale
[14] https://www.eeas.europa.eu/eeas/european-diplomatic-academy-opening-remarks-high-representative-josep-borrell-inauguration_en