La ritirata russa da Kherson non prelude la pace

di Maurizio Vezzosi

A monte della ritirata russa da Kherson c’è una decisione di peso, sotto il profilo militare e politico. Abbandonare il capoluogo di una regione poche settimane dopo averne ratificato l’ingresso nella Federazione Russa non è certo il massimo, nonostante le rassicurazioni del Cremlino che hanno rimarcato di considerare Kherson territorio russo. La ritirata rischia di fomentare le posizioni ucraine più oltranziste, anziché le posizioni più propense al dialogo, già fortemente marginalizzate e represse. Da un punto di vista simbolico e comunicativo, la ritirata russa da Kherson si presta inoltre al tentativo di dare contezza della presunta debolezza militare di Mosca.

Non va dimenticato che le ritirate ed i riposizionamenti fanno parte delle guerre di lunga durata, come quella che si sta combattendo in Ucraina. Vengono in mente la ritirata di Slavijansk e quella di Mariupol del 2014, nei primi mesi della guerra d’Ucraina, quando le forze di Donetsk abbandonarono le due città senza combattere. Senza l’accordo che nel 2014 riconsegnò Mariupol all’esercito ucraino Mosca ne avrebbe avuto il controllo – indiretto o diretto – senza dover cominciare, otto anni dopo, una battaglia di due mesi costata migliaia di vittime.

Paradossi della politica, e della guerra.

Sul piano militare, la ritirata di Kherson ha probabilmente evitato un massacro che forse non avrebbe cambiato il risultato nel breve periodo: vista la sua peculiare collocazione, la città sarebbe stata infatti molto difficilmente difendibile dalle forze russe di fronte ad un’offensiva ucraina su larga scala come quella che sembrava pronta a cominciare.

Da rilevare è anche l’appoggio alla decisione di Mosca esplicitato in questo caso anche da figure solitamente poco inclini al dialogo politico, come Evgenij Prigozhin e Ramzan Kadyrov: entrambi avevano portato critiche durissime verso i vertici militari russi dopo la ritirata da Izyum,

Da parte russa risulta evidente la volontà di evitare una nuova Mariupol – guerra urbana – e di scongiurare perdite ingenti sia tra i civili che tra i propri militari. Considerando le informazioni diffuse dalle fonti ucraine, a Kherson le operazioni di rastrellamento e di repressione non hanno tardato a cominciare nei confronti di chiunque, a torto o ragione, venga tacciato di aver collaborato con le forze russe, o anche solo di aver espresso una qualche simpatia nei confronti di queste. A velocizzare queste operazioni ci sono liste pubbliche corredate di fotografie e dati personali delle persone accusate di essere nemiche della compagine politica ucraina.

Poche ore prima che la ritirata venisse ufficializzata dal Ministero della Difesa russo, Kirill Stremousov, sanguigno vicecapo dell’amministrazione regionale – russa – di Kherson, è morto in un incidente d’auto. Questa almeno la versione ufficiale dell’accaduto. Negli ultimi giorni Kirill Stremousov aveva annunciato che da Kherson sarebbero partite a breve le operazioni per la conquista di Nikolaev e di Odessa, mentre in occasione della ritirata di Izyum dello scorso settembre aveva suggerito alle alte sfere della difesa russa di “spararsi in testa”.

Il controllo ucraino su Kherson rende per il momento impossibili alle forze russe manovre terrestri da oriente verso Nikolaev e Odessa. Non preclude, però, la prosecuzione dell’utilizzo dell’artiglieria a lungo raggio, della flotta e dell’aviazione, o una combinazione di queste. Il controllo ucraino su Kherson aumenta in modo rilevante l’esposizione al tiro della fascia meridionale sotto controllo russo – Melitopol, Berdiansk,  ecc –  e della Crimea: restano sconosciute, al momento, le contromisure che Mosca intenderà assumere.

Il fatto che la scelta del ritiro da Kherson sia stata mossa anche da motivazioni politiche sembra evidente: l’obiettivo quello di favorire un’intesa con gli Stati Uniti almeno sulla ripresa a pieno del trattato New START, di cui si dovrebbe discutere a Il Cairo tra qualche settimana. A conferma di questa ipotesi ci sono alcuni elementi, come la rinuncia alla possibilità di bandire i metalli russi dal banco di Londra (LBM), la ripresa delle forniture destinate alla Federazione russa da parte di alcune importanti aziende dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, il rifiuto statunitense – momentaneo –  di fornire all’Ucraina alcune tecnologie militari particolarmente avanzate – come i droni l’MQ-1C –, la decisione statunitense di sospendere le sanzioni economiche nei confronti delle missioni diplomatiche russe. Quella forse in divenire è dunque un’intesa relativa tra Washington e Mosca, le cui avvisaglie si scorgevano già durante la scorsa estate: rispetto a questa intesa in divenire dovranno essere considerati anche gli effetti relativi alle elezioni statunitensi di medio termine. Il fattore interno di maggior rilievo appare tuttavia costituito dalle divergenze tra parte dei vertici militari e politici statunitensi sul tema della guerra in Ucraina. Almeno una parte dei militari statunitensi sembra spingere per la trattativa – su tutti, il Generale Mark Milley  – mentre nel complesso i vertici politici statunitensi non sembrano affatto voler imporre all’Ucraina un accordo con Mosca. A conferma di ciò, ci sono le dichiarazioni del Segretario di Stato Antony Blinken.

Se gli Stati Uniti nel loro complesso desiderassero la pace in Europa non esiterebbero un istante ad imporla all’attuale compagine ucraina, facendo il possibile per mettere da parte qualunque eventuale ostacolo.

In molte aree d’Europa, insieme alle proteste contro l’invio di armi in Ucraina ed il carovita, continua intanto a crescere la distanza tra popoli ed istituzioni, non di rado incapaci di gestire adeguatamente le istanze del presente e persino di immaginare quelle del futuro prossimo.

Nel frattempo, seppur in sordina, sul fronte di Donetsk gli avanzamenti delle forze russe proseguono lenti, ma costanti. Ancora una volta il tempo gioca a favore di Mosca: dilatandolo, Mosca potrà infatti rendere operativi migliaia di uomini – mobilitati e volontari – attualmente in addestramento, migliorare la propria logistica e dislocare sul nuovi equipaggiamenti. Facendo soprattutto forza sui problemi energetici dell’Europa occidentale e dell’Ucraina acuiti dal periodo invernale, e sulle inevitabili conseguenze politiche di questi. Ben poco fa insomma assomigliare la ritirata di Kherson e l’accenno di dialogo russo-statunitense al preludio della pace.

Fonte

Maurizio Vezzosi, analista e reporter freelance. Collabora con RSI Televisione Svizzera, L’Espresso, Limes, l’Atlante geopolitico di Treccani, il centro studi Quadrante Futuro ed altre testate. Ha raccontato il conflitto ucraino dai territori insorti contro il governo di Kiev documentando la situazione sulla linea del fronte. Nel 2016 ha documentato le ripercussioni della crisi siriana sui fragili equilibri del Libano. Si occupa della radicalizzazione islamica nello spazio postsovietico, in particolare nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Kirghizistan. Nel quadro della transizione politica che interessa la Bielorussia, nel 2021 ha seguito da Minsk i lavori dell’Assemblea Nazionale. Tra la primavera e l’estate del 2021 ha documentato il contesto armeno post-bellico, seguendo da Erevan gli sviluppi pre e post elettorali.Nel 2022, dopo aver seguito dalla Bielorussia il referendum costituzionale, le trattative russo-ucraine, e sul campo l’assedio di Mariupol, sta proseguendo a documentare la nuova fase del conflitto ucraino. È assegnista di ricerca presso l’Istituto di studi politici “S. Pio V”. Segui Maurizio Vezzosi su Facebook e su Telegram

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