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*articolo pubblicato su il manifesto del 19 novembre 2022 per la rubrica Nuova finanza pubblica
All’indomani dello scoppio della crisi del 2007-08, che a stretto giro infiammò la crisi del debito sovrano in Europa fra 2009-12, quando era fresco il sentore del pericolo dei processi di finanziarizzazione, venne istituito un organismo che avrebbe dovuto monitorare il sistema per avvertirci di tali rischi. Si tratta del Financial Stability Board (FSB). Tale ente, durante gli anni in cui del tema non importava più a nessuno, ha continuato a sfornare rapporti nella indifferenza generale, l’ultimo dei quali è uscito pochi giorni fa, il 16 novembre. In esso si trovano dati interessati dei paesi interessati (cioè degli Stati appartenenti al G-20: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Sud Corea, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Uk, Usa, e Ue). Per esempio il ritmo dell’indebitamento di natura non-finanziaria per settori: Stati, imprese e famiglie. Le loro passività sommate, per tutti i suddetti paesi, se nel 2010 restavano saldamente sotto i 10 trilioni (1tr sono 1000 miliardi) di dollari, arrivavano sopra i 20 nel 2014, ed oggi superano in scioltezza la soglia degli 80 trilioni. Dobbiamo preoccuparci?
Il dato finale trova senz’altro conferma nel Sovereign Borrowing Outlook 2022 dell’OECD; fonte che parla di un diverso insieme di paesi, a tratti coincidente, ma più ampia, arrivando a 38 paesi. Questa è specificamente dedicata all’indebitamento degli Stati che emettono titoli, quindi facendoseli prestare sul mercato. E pure qui si individua una dinamica crescente, culminante del 2020. Il rapporto vede una dinamica crescente del fabbisogno finanziario dello Stato, cioè di quanto i governi devono chiedere in prestito ai privati sul mercato.
Ma vanno considetati gli altri due settori: imprese e famiglie. Nello stesso studio del FSB si vede come i debiti delle aziende hanno avuto una dinamica abbastanza simile a quelli pubblici; questi ultimi, dopo un robustissimo balzo verso l’alto del post-2008 si mantengono in una fascia fra 80-90% rispetto al pil, mentre i primi dal 2013 decollano e dal 2015 restano in una banda fra 90-95% sul pil – senza che, per inciso, i soliti commentatori ci proponessero le solite paternali applicando al settore privato la necessità di austerità e di compressione delle spese. Nel 2020 esplodono entrambi oltre il 100%, ridiscendendo un po’ nel 2021. Il debito delle famiglie invece resta “virtuosamente” sotto il 70% il tutto il periodo considerato.
Tutto questo ci può suggerire due considerazioni: primo, la asimmetria fra invocare il taglio della spesa agli Stati e quello alle imprese è clamorosamente viziato da pregiudizi antistatalisti e non trova riscontri nemmeno nei dati più mainstream. Risulta infatti assai evidente che un restringimento del ruolo dello Stato nel settore finanziario libera risorse di liquidità che anziché essere impiegate per comprare titoli pubblici che restano sostanzialmente sicuri potranno essere riversate su obbligazioni private il cui esito più usuale è nutrire le solite bolle finanziarie.
Secondo: è rimasto nella storia come sia stato screditato quello studio che vedeva un indebitamento pubblico oltre il 100% come particolarmente problematico – sbugiardato per una errata impostazione dei dati, dopo però aver dato una legittimazione accademica alla austerità. Invece è restato pressoché ignoto un altro studio (Too Much Finance del 2012, pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale) di Arcand, Berkes, Panizza, secondo il quale un indebitamento privato oltre il 110% del pil produce effetti depressivi sulla crescita ed amplifica i possibili shock finanziari. Facendo la somma dei debiti aziendali e privati è palese che siamo in territorio assai rischioso – e non solo per la crisi indotta dal Covid – e le scarse prestazioni economiche degli ultimi anni tenderebbero ad avallare tale esito. Studio molto meno noto di quello che invece era diretto a stabilire soglie del debito statale, nonostante non sia noto alcun errore in cui gli studiosi che lo hanno prodotto siano incorsi. Insomma sì, qualche preoccupazione sarebbe bene averla.