COP27 – “Chi inquina dovrà pagare”: possiamo considerarlo un successo?

Il principio di chi inquina, paga risale al 1972 e rappresenta uno dei pilastri chiave della Politica Ambientale dell’Unione Europea. Il soggetto che inquina deve farsi carico dei costi dell’inquinamento, comprese le misure che devono essere adottate non solo per rimuovere l’inquinamento e ripristinare lo stato di equilibrio per prevenire e controllare. Si tratta di farsi carico della responsabilità e degli eventuali danni sui contribuenti. Questo dovrebbe incentivare i soggetti dei processi produttivi a evitare il danno ambientale ab origine, dunque generare un inquinamento tale che possa tradursi in danno e un costo in termini di salute ambientale, sociale e umana.

Gli eventuali costi riparatori farebbero aumentare anche i costi del servizio o del prodotto erogato e venduto, a scapito della competitività sul mercato – rischio non percorribile nella società economica che abbiamo deciso di perseguire.

Tra gli accordi siglati in chiusura di COP27 è “chi inquina dovrà pagare”, abbiamo detto principio cardine di tutte le politiche “innovative e progressiste” europee. Ma è davvero così efficace? I Paesi che emetteranno più CO2 dovranno pagare i danni della crisi climatica ai Paesi che ne soffrono di più le conseguenze.

Nel panorama delle politiche ambientali esistono diversi strumenti per incentivare gli attori a evitare danni e impatti negativi ambientali, regolativi ed economici. Tra quelli economici rientrano incentivi e sussidi, tasse e mercati artificiali.

In breve, i sussidi vengono erogati nella fase iniziale di una nuova norma, per incentivare ad intraprendere quel particolare processo produttivo innovativo. Si dividono in SAD (Sussidi Ambientalmente Dannosi) e SAF (Sussidi Ambientalmente Favorevoli), e secondo un’indagine condotta dal Ministero per la Transizione Ecologica i SAD dannosi ma necessari ammonterebbero a 24.5 miliardi. Interessante notare che Legambiente compie la stessa analisi, riprende gli stessi dati e con un sapere scientifico non legittimato dalla pubblica amministrazione restituisce una rielaborazione differente: i SAD salgono a 34 miliardi. L’analisi del MITE si fermava solo ai sussidi delle fonti fossili e non altri settori che Legambiente considera. Ad esempio: di questi 34 miliardi almeno 18.3 sarebbero eliminabili entro il 2025, essendo quelli previsti per le trivellazioni e i fondi per la ricerca su gas, carbone e petrolio.

Alla base c’è sempre la stessa dinamica: il problema viene teorizzato in maniera differente, escludendo gli interessi di molti e continuando a considerare solo quelli di chi, sulla bilancia, hanno un potere contrattuale che pesa di più.

Gli strumenti economici sono anche le tasse. La prima e più conosciuta è la carbon tax (tassa sulle emissioni). Uno strumento di politica fiscale che implica un’aliquota per ogni tonnellata di inquinamento di CO2 rilasciata dai combustili fossili.

Tra gli obiettivi troviamo la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. Esistono però altri strumenti che consentono al sistema di proseguire così com’è pensato: i mercati artificiali. È possibile scambiarsi le emissioni di CO2 esercitando il “diritto di emissione negoziabile”: aziende che comprano delle quote, nonché permessi per emettere emissioni, da quei paesi e quelle aziende che sono riuscite a ridurre le loro emissioni e dunque a produrre dei crediti vendibili. Il 30 aprile di ogni anno vengono valutate le emissioni generate: se sono minori del CAP (caping trade: emissioni consentite) assegnato l’azienda può vendere ad altri le sue quote. L’azienda che ha risparmiato CO2 consente all’azienda che altrimenti sforerebbe, di acquistarle, e quindi inquinare. Quello che risparmia un’azienda lo satura qualcun altro.

Il meccanismo prevede comunque delle diminuzioni delle quote accettabili per fasi: attualmente ci troviamo nella quarta fase che va dal 2021 al 2030 e prevede una riduzione del 43%.

Quello che interessa è guardare a questi strumenti in maniera critica e comprendere quali sono i limiti e le problematiche. Per quanto riguarda gli strumenti regolativi, non sempre è necessariamente efficace incentivo a intraprendere nuovi processi produttivi, spesso da un primo incentivo non si passa a un vero e proprio progetto sul lungo termine, oppure possono facilmente essere ovviati spostando la produzione altrove, dove tali vincoli legislativi non esistono e si giunge quindi alla cosiddetta de-localizzazione della produzione.

Gli strumenti economici ragionano su un livello di “inquinamento ottimo”, ed è già questa locuzione a farci notare le problematiche: non ragiona verso un cambiamento di paradigma produttivo e, oltre ad essere molto difficili da gestire, risultano essere eticamente discutibili (in quanto si compra il diritto di inquinare).

Veniamo all’accordo in questione. Il riconoscimento del principio loss and damage è sicuramente qualcosa di positivo considerato nel paradigma entro il quale scegliamo di rimanere ma non lo è più nel momento in cui ci rendiamo continua ad essere una dinamica di depurazione o riparazione “a valle”, si risarciscono i danni da un punto di vista economico ma ancora non ambientale.

Oltre a questo, alcune criticità sono le seguenti:

– ci vorranno un altro paio di anni di trattative per riuscire a mettere in pratica l’accordo. Non è chiaro chi avrà il dovere di contribuire e chi potrà beneficiarne;

– non si è arrivati a una riduzione dell’uso di combustibili fossili (ricordiamo che tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 e il Fit For 55 troviamo la riduzione delle emissioni di almeno il 55% entro il 2030 e giungere alla neutralità climatica entro il 2050, nonché ad una cifra di emissioni consentite ed emissioni che l’ecosistema riesce a riassorbire pari a zero – per ogni tonnellata di CO2 equivalenti se ne rimuove altrettanta);

– il testo finale non solo si concentra solo sull’eliminazione graduale del carbone ma considera il gas – prodotto ed esportato in misura massiccia dal Paese ospitante, l’Egitto – come una fonte di energia alternativa a basso impatto;

– non si è parlato molto degli impegni climatici che ogni Paese deve rispettare per stare dentro l’obiettivo di contenimento dell’aumento delle temperature entro 1.5°C. Un anno fa, alla precedente COP26 di Glasgow circa 200 Paesi si sono impegnati a “mantenere in vita” l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi, firmato nel 2015, vale a dire limitare il riscaldamento globale a +1,5°C rispetto all’era preindustriale. Nonostante con il Green Deal europeo il rispetto dei limiti di emissioni non sia più un atto declaratorio bensì un obbligo giuridico, finora meno di 30 lo hanno fatto, mettendo il pianeta sulla strada di un riscaldamento di +2,4 gradi;

– i conflitti di interesse pesano di più: l’Egitto è un grande esportatore di gas.

Oltre ai conflitti di interesse notiamo anche conflitti riguardo l’approccio: secondo ECCO, il think thank italiano per il clima esiste una distinzione tra chi vuole focalizzarsi sul processo, per arrivare a una decisione nel 2024, e chi vorrebbe dei risultati concreti già ora, qui alle COP27.

Ancora una volta si parla solo di CO2. L’autore Swyngedouw, nel 2010, scrive dell’eccessiva “esternalizzazione” del nemico: una dinamica fin troppo utilizzata per guardare le problematiche sempre da fuori e puntare il dito contro qualcosa di eliminabile, esternalizzando la problematica e dunque rendendo ogni problema contingente e risolvibile con la soluzione più appropriata. Il problema è visibile = risolvibile, in una logica sempre d’intervento a valle. La sostenibilità risulta così intesa nei termini di un “ritorno” a un equilibrio di temperatura globale che possa però garantire al mondo odierno e alla macchina produttiva di progredire stabilmente e di adempiere alle proprie responsabilità in nome di un raggiungimento economico di potere e crescita “perfetta”. D’altro canto, risulta essere altrettanto criticabile la politica dell’eccessiva responsabilizzazione – la quale sempre di più diviene postura politica – in quanto invece di diffondere dati e conoscenze su cui metabolizzare e riflettere si rischia di creare un allontanamento e disconoscimento riguardo la tematica, perché non tiene conto in maniera utopica delle problematiche e limiti delle singole realtà o dei singoli individui. Il concetto diviene diluito e istituzionalizzato fin troppo e se tutto diventa sostenibile, nulla lo è più per davvero.

Sempre riguardo la CO2, i messaggi sia apocalittici e la costruzione di una specifica agenda politica pongono l’attenzione solo su questo: si veda gli accordi di Kyoto o la riduzione di carbonio nella crescente produzione di macchine ibride. Continuare a vedere sempre solo questo indicatore è controproducente.

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