L’occhio fantastico (prima parte)

di Franco Pezzini

È appena apparso per i tipi Meridiano Zero il volume Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua, a raccogliere (quasi tutti) i testi di autori selezionati e finalisti al call di narrativa breve 2022 “Oltre il velo del reale 2”  organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista L’Indice e al Book Pride di Milano e dedicato al fantastico. Si presenta qui in due puntate il saggetto introduttivo di chi scrive: le citazioni d’incipit ai singoli paragrafi sono tratte da J.L. Borges, S. Ocampo, A. Bioy Casares (a cura di), Antologia della letteratura fantastica, Editori Riuniti, Roma 1981.

Il 24 gennaio il volume verrà presentato alla Libreria Trebisonda di Torino. (F.P.)

  1. Un modo di vedere e di narrare

Potrebbe, inoltre, esserci qualcosa di più miracoloso di un vero, autentico fantasma? L’inglese Johnson desiderò ardentemente per tutta la vita di vederne uno; ma non ci riuscì, benché andasse a Cock Lane [dove si sarebbe consumato un celebre episodio di persecuzione sovrannaturale] e qui scendesse nella cripta della chiesa e bussasse alle bare. Povero dottore! Non si guardò mai intorno con gli occhi della mente, oltre che con quelli del corpo, nel mare magno della vita che tanto amava? Non guardò mai in sé stesso? Il buon dottore era un fantasma, un fantasma così vero ed autentico come il cuore può desiderare; quasi un milione di fantasmi gli camminavano accanto nelle strade. Ripeto ancora: liberiamoci dell’illusione del Tempo, riduciamo tre ventine d’anni in tre minuti; che cosa era di diverso il dottore? Che cosa siamo di diverso noi stessi? Non siamo forse Spiriti sotto forma di un corpo, di un’apparenza, pronti a svanire nell’aria e nell’invisibile?

Thomas Carlyle, da Sartor Resartus, 1833-34 (trad. di Maria Lucioni)

Come già l’anno passato, il Premio Calvino ha bandito nel febbraio 2022 un Call per autori esordienti di narrativa breve, sotto il titolo Oltre il velo del reale (in questo caso, 2): e tra i requisiti del bando si esplicitava:

Ogni genere di fantastico come macchina per vedere è ben accetto: dal perturbante allo strano nella quotidianità, dal fantasy all’horror, dal gotico al distopico all’ucronico, dal fantascientifico all’onirico…

Dunque “fantastico come macchina per vedere”. Da etimologia (ci soccorre la Treccani), fantastico viene dal latino tardo phantastĭcus, greco ϕανταστικός, legato alla fantasia e all’immaginazione: ma a monte, in quanto derivato da fantasia (lat. phantasĭa, gr. Φαντασία), rimanda al verbo ϕαίνω, “mostrare”. Insomma qualcosa che viene mostrato o appare – cfr. la parentela con fantasma (lat. phantasma, gr. ϕάντασμα, derivato di ϕαντάζω “mostrare”, ϕαντάζομαι “apparire”, sempre dal tema ϕαν- di ϕαίνω di medesimo significato all’attivo come al medio ϕαίνομαι) – implicando una tensione visiva, più scopica che contemplativa. Stimolante dunque l’idea di “macchina per vedere”: a rimandare a una visione in senso attivo, organizzato – una visione mostrata, un po’ come da parte degli autori teatrali, degli imprenditori di lanterne magiche o di grandi e piccoli schermi – o invece passivo, subìto, come gli spettacoli cui assistiamo lasciando magari il cervello alla deriva e assorbendo paradigmi immaginali, pregiudizi, messaggi neppure troppo subliminali.

Inevitabile pensare al titolo di un’incompiuta epopea ciarlatanesca d’illusione, Il visionario di Schiller: dove già il titolo richiama alla visione febbrile, vittima di uno spettacolo/intrigo, ma in fondo anche a una capacità percettiva discutibile e particolare (come la ripresa della provocazione nel kantiano, ironico Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica, in margine alle febbricitanti veggenze di Emanuel Swedenborg); eppure il termine visionario può essere applicato anche alla capacità immaginativa degli uomini di genio, che sanno vedere più avanti. Nel senso passivo, la visione può essere ricevuta da Istanze Superiori (o anche inferiori, e persino in termini di grande ambiguità: si pensi alla visione farlocca e insidiosa di certe presunte apparizioni di Madonne o santi con sospetti cornini e ali pipistrellesche – naturalmente si tratta del diavolo – traghettate dalle storie devote all’arte dei secoli passati). O – in termini più laici e moderni – alla visione subìta di infiniti prodotti televisivi che ci incatenano al reale, o al panorama della realtà che pare di vedere (visione sinestetica e indiretta, da plagio) al suono di messaggi-chiave dai sottotesti equivoci, in quella confusione che apprendisti stregoni di marketing e di politica sanno gestire così bene. L’avvicinarsi delle elezioni offre di tutto ciò un desolante e istruttivo spettacolo.

D’altra parte, come si rifletteva nell’introduzione alla raccolta dei racconti dell’anno passato (Oltre il velo del reale. Raccolta di racconti distopici, a cura di chi scrive, WriteUp, Roma 2021),

va ricordato che, in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare e di guardare [corsivo inserito ora]. Non solo perché – suggerisce Borges – tutta la letteratura è fantastica, non solo perché la vita può essere davvero weird, ma perché anche una narrazione apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico.

L’occhio fantastico con cui esploriamo la realtà non deve cioè necessariamente fermarsi su visioni straordinarie, apparizioni da registrare con una sana categoria di dubbio (l’incertezza/imbarazzo implicita nel fantastico secondo Todorov, ma anche in certi racconti che ci vengono offerti da testimonianze di prima mano o – più di rado – in episodi esperiti da noi stessi). Può semplicemente percepire la fantasmaticità del nostro quotidiano, come Thomas Carlyle ricordava nella citazione d’incipit a proposito della frustrata ricerca di spettri da parte del dottor Johnson: gratta gratta, non è difficile trovarne dove meno ce li aspettiamo. D’altra parte il discorso può riguardare la paradossalità dello scarto legato alle scelte quotidiane e alle Sliding Doors che parallelamente si aprono, o quella bizzarria feriale della realtà che mandava in solluchero il repertoriatore di fatti strani Charles Hoy Fort (piogge di rane o di pesci, autocombustioni, strambe “cose” nei cieli…); o magari la stessa parentela – non così assurda o incomprensibile, in fondo – tra le nostre vite e quelle di personaggi letterari o del mito. Non solo perché, come ha detto qualcuno, “Siamo simboli e viviamo in essi”, ma perché narrazioni e miti traggono alla fin fine la loro trascrizione, almeno in qualche misura, da carne e sangue nostra: normale che ci offrano eco, o piuttosto l’inverso. Fino ad arrivare (chiunque scriva ne avrà fatto esperimento) a raccontare storie inserendovi amici, modellarle su di loro: non solo una comoda tecnica di costruzione dei personaggi, non solo un divertissement o un piacere affettuoso, ma appunto un modo di proiettarli e proiettarci fantasticamente su scenari altri, verso avventure più o meno possibili ma apprezzabili come belle storie. Quel che in fondo fa da sempre la letteratura: che il multiverso esista a livello cosmico è per ora impossibile dire, ma certo l’abbiamo dentro.

  1. Quell’occhio sbarrato

Terrificante idea di Juana a proposito del testo Per Speculum in Aenigmate; i piaceri di questo mondo sarebbero i tormenti dell’inferno, visti al rovescio in uno specchio.

Léon Bloy, da Le vieux de la montagne, 1909 (da Storie sgradevoli, F.M. Ricci, 1975, trad. di Piero Nicola)

Se il fantastico, dunque, non è necessariamente imbrigliato a taluni filoni di racconti, a talune maschere o generi narrativi, ma è un modo visionario di narrare la realtà, la nostra realtà, con spazi di libertà più o meno ampi – dove il riferimento alla visionarietà implica la vista come mero capofila di una serie di altri sensi: udito, tatto, gusto… – allora a maggior ragione il panorama è illimitato. Certo, libertà non significa un’originalità assoluta che non esiste da nessuna parte (qualunque storia ripropone topoi o miti che rimbalzano da sempre nel panorama immaginale dell’umanità, si tratterà solo di trovare un’originalità relativa nella confezione): ed è normale che il fantastico colga echi, forme di narrazione o fremiti da una realtà che del resto, per fortuna o purtroppo, è quella che conosciamo. Lo fa con una messa a fuoco particolare, come una lente, un microscopio o un telescopio, che permette di evidenziare ciò che altrimenti sfuggirebbe: e torniamo alla macchina per vedere.

Se così l’anno passato si potevano ravvisare nel referente distopico echi della pandemia (che pur costituiva rispetto al bando una cornice accidentale, non l’ha “originato”), quest’anno il contesto è ancora più convulso: la pandemia non è ancora esaurita ma il bando è dell’11 febbraio, la guerra russo-ucraina è stata aperta dall’offensiva russa del 24 febbraio e dunque idealmente un cavaliere dell’Apocalisse si affianca all’altro. Possiamo stupirci di trovare in varie prove riferimenti all’apocalittica? Nulla di immediatamente ovvio, nulla di scolasticamente derivato, si tratta della risacca di un momento storico che, com’è naturale, riverbera in scritture fantastiche pur incentrate su altro.

Dove l’occhio fantastico è sbarrato, nella duplice accezione del termine: da un lato spalancato e vitreo nella percezione visionaria, scioccata, di un reale che ci spiazza in mille modi (da un punto di vista collettivo o di pieghe personalissime); dall’altro è l’occhio chiuso nel sonno visitato da sogni con tutta la potenza dell’inconscio. In alcuni racconti ciò è particolarmente evidente.

Certo un aspetto che può colpire, in questa seconda edizione di Oltre il velo del reale – nuovamente molto partecipata, 767 incipit pervenuti da cui la rosa di 35 selezionati e in ultima fase la scelta dei 10 finalisti – è la differenza profonda di linguaggio ed esiti dei racconti in finale rispetto a quelli dell’anno scorso. Posto che i lettori che effettuano la selezione sono più o meno gli stessi, e si basano su criteri ormai testati in quattro edizioni di call racconti brevi (qualità letteraria, originalità, efficacia dell’incipit nel rapporto con il resto dello sviluppo testuale, equilibrio generale e buona sintesi di una prova breve), la differenza dall’anno passato sembra notevole. L’edizione 2021, che già aveva rappresentato una felice sorpresa per la qualità altissima delle prove, vedeva offerte – pur nella sintesi, come nei due racconti vincitori di Monica Acito e Beatrice Salvioni – trame di virtuale ampiezza; apriva a linguaggi tradizionali di genere, dalla fantascienza all’horror al fantasy e alla distopia, strizzando l’occhio a serie televisive e cinema; guardava in prospettiva, almeno potenzialmente, a eventuali sviluppi delle medesime storie in chiave di romanzo o magari di sceneggiatura. E un esame più ampio, come emerge dal citato volume che raccoglie non solo i finalisti (quasi tutti) ma i selezionati (quasi tutti) mostra che la panoramica era estremamente varia anche tra gli altri testi segnalati.

La sorpresa di questa nuova edizione è che, per i finalisti, il quadro è un po’ diverso. Come sintetizza il comunicato sul sito, nella decina in finale troviamo “Sicuramente poca fantascienza e poca fantasy, un pizzico invece di realismo magico, molto perturbante nel quotidiano e trasposizione in chiave surreale di nodi psichici. Buona, spesso, la qualità della scrittura”. Siamo insomma più dalle parti del maglione fatale di Cortázar che del (pur classicissimo) lenzuolo fantasma di M.R. James. Forse gli autori più attaccati al genere vero e proprio hanno preferito altri concorsi, tenendo presente che in questi anni ne sono stati banditi non pochi: ma è un’ipotesi che vale quel che vale. Va però detto che ciò riguarda i finalisti, mentre il giudizio si stempera già considerando i selezionati e a maggior ragione l’ondata degli incipit.

Si può comunque partire dalla constatazione che la qualità narrativa è il punto di forza. Una padronanza nella scrittura, un’apparente consuetudine – almeno nei finalisti e in parte dei segnalati – con la declinazione di riflessioni e inquietudini in forma di narrazione paradossale lasciano presagi di ottimismo sulla narrativa italiana, fantastica o meno. Le prove scintillano d’intelligenza e di beffarda ironia, qualche volta affilata da una vaga crudeltà, altrove oniricamente straniata. Emerge qui e là il disagio neppure tanto per le situazioni estreme che la vita ci precipita addosso (per esempio la pandemia), quanto per l’assurdo che il circo umano riesce a confezionare in risposta. A volte inevitabile, nel senso che non sapremmo fare diversamente, altrove per effetto di pressioni di un’intera società o della spregiudicatezza dei suoi poteri. Si coglie poi una consuetudine smaliziata alla scrittura anche nella pragmatica presa d’atto che un testo breve si giochi più agevolmente sull’episodio fulminante, magari surreale, che non su una narrazione distesa, con una trama più ampia costretta in una gabbia di poche battute.

Attenzione, seguiranno (necessariamente) spoiler.

(continua…)

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