di Gioacchino Toni
Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla], si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.
Guardandosi dal suggerire «l’esistenza di una relazione causale tra la fruizione di videogiochi e i comportamenti sociopatici nel mondo reale», scrive Bittanti, è «importante ricordare che il videogioco non è che un elemento di un complesso ecosistema formato da spazi di consumo, discussione e condivisione che spesso presentano un’elevata tossicità: misoginia, razzismo, omofobia e violenza verbale» (pp. 30-31). Dunque, qualsiasi discussione sui videogiochi non può prescindere dal contesto in cui si vanno ad inserire e da cui sono pensati, prodotti e fruiti.
Se Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe (La fine della fine della storia, Tlon, 2022) sostengono che all’apatia che aveva contraddistinto i decenni precedenti si è ultimamente sostituito un sentimento di rabbia strutturatosi di pari passo alla crescente delegittimazione delle istituzioni tradizionali su cui hanno prosperato diverse forme di populismo, Martin Gurri (The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, 2014) sostiene invece che, con riferimento a un’attualità che ritiene palesarsi come capolinea della democrazia liberale, complice anche la trasformazione mediale digitale, si debba piuttosto parlare di nichilismo.
Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto nichilista tratteggiato da Gurri è piuttosto un individuo disilluso e cinico, non di rado inserito socialmente, che non trova felicità nella sua quotidianità, nella way of life imperante, pur non mettendola realmente in discussione, e nel sistema politico che la governa. Un individuo che tende a trovare la propria dimensione all’interno di una comunità strutturatasi, spesso nell’universo online, su una specifica questione che diventa frequentemente l’unica questione esistenziale. Insomma, nota Bittanti, il nichilista descritto da Gurri ricorda molto da vicino la figura del gamer tanto che diversi giovani gamer statunitensi potrebbero aver guardato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come a un’occasione spettacolare per estendere il gioco fuori dagli schermi.
«Detto altrimenti, una generazione cresciuta di fronte allo schermo combattendo contro terroristi arabi e draghi sputafuoco, zombie e vampiri nonché social justice warrior sui social media ha temporaneamente lasciato la cameretta illuminata al LED per assediare il Congresso, vandalizzando i simboli della democrazia» (p. 18). Per quanto sbiaditi, si tratta pur sempre di simboli da colpire con lil medesimo odio promosso da tanti videogiochi mainstream che celebrano principi, valori e immaginari indubbiamente di destra.
Attraverso il videogioco, per quanto in forma illusoria, il giocatore – nella stragrande maggioranza dei casi orgogliosamente maschio e bianco – acquisisce “poteri straordinari” «con i quali ritiene legittimo imporre la propria visione di mondo alla realtà in quanto tale, anche (soprattutto) quando tale weltanschauung è barbarica. Il concetto mcluhaniano del medium come estensione delle facoltà umane trova in quella macchina dei desideri e delle gratificazioni dopaminiche altrimenti nota come videogioco la massima espressione. Ergo, per migliaia di gamer, l’arrembaggio al Campidoglio il 6 gennaio 2021 è paragonabile a una partita di Call of Duty IRL» (p. 21).
Risultano evidenti i punti di contatto tra la figura del nichilista tratteggiata da Gurri e quella del gamer di giochi mainstream delineata da Bittanti, tra immaginario videoludico – infarcito di supremazia bianca, patriarcato e violenza – e l’esperienza concreta fuori schermo. Le fondamenta razziste e schiaviste del capitalismo e del consumismo che strutturano tanto le opzioni fasciste quanto quelle neoliberiste, sostiene lo studioso, sono le stesse che informano e alimentano l’immaginario videoludico mainstream.
Bittanti si sofferma anche sulla ludicizzazione delle cosiddette “sparatorie di massa”, fenomeno cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Tra gli elementi che accomunano molti degli artefici di questi massacri vi è la giovane età, l’essere maschi e bianchi, l’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici non appena l’età lo ha consentito, la propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari, «l’appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e] la diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer» (p. 28).
Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato cinquantuno vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka1 hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo “sparatutto in soggettiva” e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno “sparatutto in prima persona” concretizzando uno stile di videogioco proprio, ad esempio, di Call of Duty e Doom, nonché abbia trovato gratificazione nell’esbire una macabra classifica che lo metteva a confronto, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma, segnalano Lakhani e Wiedlitzka, ricorrono anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui l’attentatore aveva annunciato l’intenzione di compiere un massacro.
Se, con riferimento agli Stati Uniti plasmati dalla logica televisiva, Neil Postman (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021) ritiene che il divertimento imposto dal medium è divenuto il parametro fondamentale di ogni esperienza sociale, dunque anche della politica, Bittanti invita a chiedersi come cambi quest’ultima nell’era videoludica.
Il rapporto tra la politica e l’universo videoludico non si risolve di certo nell’acquisizione di spazi pubblicitari all’interno dei videogiochi, come aveva fatto pionieristicamente Barack Obama nella campagna presidenziale del 2008; la stretta attualità, scrive Bittanti, palesa piuttosto un fenomeno di ludicizzazione del dibattito sulle piatteforme digitali in cui la discussione politica tende a ridursi a una “partita” «in cui “ottenere punti” e “vincere” la conversazione, sulla base di performance retoriche fondate sull’attrito e sull’effetto, sull’argumentum ad captandum e sull’attacco ad hominem. Questa dinamica puramente antagonistica nella quale un “pubblico” di seguaci “fa il tifo” sta diventando standard: la logica vigente è quella del “noi contro di loro”, del “ti ho fregato” e del “ti ho distrutto”» (p. 55). Si pensi al ricorso insistito dei media italiani più reazionari al termine “asfaltare” per certificare “l’annientamento della controparte” ottenuto dai loro politici di riferimento attraverso qualche espediente retorico, non di rado compiaciutamente politically incorrect.
La congruenza tra la politica e l’intrattenimento su piattaforme informate da una logica iper-capitalistica come Twitch e YouTube, dominate da streamer di destra e di estrema destra, ci spinge ancora una volta a interrogarci sullo specifico del medium. Come hanno spiegato in modo convincente Mark R. Johnson, Mark Carrigan e Tom Brock, l’ecosistema del live streaming è “l’espressione di un’economia morale emergente del capitalismo digitale” che privilegia l’incessante presentazione del sé, l’auto-promozione compulsiva e l’attività auto-imprenditoriale, fondati sulla narrazione del mito Americano e della meritocrazia, dove il trolling è una delle strategie dominanti di comunicazione […] e dove il disturbo di deficit di attenzione è una feature anziché un bug di sistema (pp. 57-58)
Pur evitando di scivolare nel determinismo tecnologico, occorre però, sostiene Bittanti, prendere atto di come e quanto i media abbiano inciso e incidano nel definire il ruolo, la funzione e l’identità del politico.
A partire dalla convinzione che, lungi dall’essere neutrale, “il ludico è politico”, in linea con quanto espresso dal precedente volume, i diversi contributi che strutturano questo nuovo, corposo e prezioso lavoro curato da Bittanti evidenziano come i videogiochi mainstream e l’immaginario gamer che ruota attorno a essi siano intrisi di neoliberismo, criptofascismo e di quella dottrina libertarista anarcocapitalista egemone nell’universo della Silicon Valley statunitense. Di seguito ci si limiterà a tratteggiare sommariamente le questioni dibattute dai diversi interventi con l’intenzione di tornare su alcuni di questi in scritti successivi.
È proprio sulla “non neutralità” dei videogiochi che, in apertura di volume, intervengono tanto Alexander Lambrow – Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica – che Lars Kristensen e Ulf Wilhelmsson – Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies – riperdendo rispettivamente le teorie espresse da pionieri dei game studies come Johan Huizinga (Homo ludens, orig. 1939), la cui incondivisibile enfasi sull’autonomia del gioco viene comunque riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui viene espressa, e Roger Caillois (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, orig. 1958), la cui ferrea convinzione di come il gioco e i giochi debbano essere improduttivi per potersi distinguere dal lavoro viene messa in relazione con le tesi di Marx circa la funzione e le conseguenze del lavoro nell’ambito di una società capitalistica.
Della “non neutralità” della tecnologia si occupa invece Luke Munn – Il processo di radicalizzazione dell’alt-right – chiarendo come la logica algoritmica di una piattaforma come YouTube, con la sua rete di collegamenti (Cfr. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, settembre 2018), favorisca la radicalizzazione ideologica. L’autore si sofferma in particolare sull’ascesa della alt-right (alternative-right) evidenziando come la sua diffusione online si fondi su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività» (p. 137). Nella retorica dell’alt-right, sostiene Munn, “scegliere la pillola rossa” – riprendendo Matrix – indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo» (p. 138, nota 15).
L’ingresso nell’alt-right, sostiene Munn, è graduale, è il punto di arrivo di un processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (che sfrutta la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dell’alterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi» (p. 154). Non a caso vengono impiegati i videogiochi nell’addestramento dell’esercito statunitense (Cfr.: Matthew Thomas Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11, NYU Press, New York, 2016; Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla”, 22 aprile 2022).
Riprendendo le teorie di Mikhail Bachtin sul carnevalesco, Hans-Joachim Backe – Crapa Redneck su torso nazi. Come Wolfenstein II: The New Colossus sovverte la ludonarrazione – indaga la logica con cui è strutturato l’ultimo capitolo, uscito nel 2017, della saga di successo Wolfenstein imperniata attorno alla guerra contro i soldati nazisti. Secondo lo studioso diverse critiche rivolte al videogioco derivano dall’incomprensione di come l’ostentato ricorso al filtro camp e grottesco sia stato delibertamente scelto dai progettisti per portare «in primo piano la natura idiosincratica e contraddittoria delle norme e dell’implicito sistema valoriale dell’FPS [First Person Shooter] in quanto genere, senza tuttavia scardinarle» (p. 210) per sfidare i gamer destabilizzando le loro aspettative.
Il contributo di Soraya Murray – L’america è morta, viva l’america. L’affettività politica in Days Gone – delinea le tensioni che attraversano l’America contemporanea a un passo dalla guerra civile a partire dall’analisi del videogame Days Gone, mentre, alla luce delle teorie formulate da Henri Lefebvre, Jack Denham e Matthew Spokes – Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world – approfondiscono la percepita antinomia classista tra gli spazi urbani e rurali nei giocatori di Red Dead Redemption 2, mentre Óliver Pérez-Latorre e Mercè Oliva – Videogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso – evidenziano il messaggio neoliberista che si cela dietro la facciata progressista del videogioco esaminato.
L’apparente antinomia tra gioco e lavoro è invece al centro dell’intervento di Matthew Kelly – Giocare alla politica. Lavoro, gioco e soggettivazione in Papers, Pleas – focalizzato su uno specifico caso di studio, mentre Stephanie Betz – Le vite degli elfi contano? Le dinamiche razziali della politica partecipativa nel fandom prevalentemente Bianco – si cimenta in un’analisi etnografica dei fan del fantasy game Dragon Age illustrando le modalità con cui questi guardano alle nozioni di razza ed etnia.
Riprendendo Stuart Hall e James Gibson, Kristian A. Bjørkelo – “Gli elfi sono ebrei con le orecchie a punta e la magia gay”: Come i Nazionalisti Bianchi interpretano The Elder Scrolls V: Skyrim – ricostruisce l’interpretazione di uno specifico videogioco che aleggia nel sito nazista Stormfront, mentre Benjamin Abraham – Cos’è un videogioco ecologico? Le politiche ambientali nel genere survival-crafting – critica l’ideologia sottesa a diversi videogame ecologici evidenziandone una matrice concettuale neoliberista.
La progressiva mercificazione dell’esperienza ludica è invece al centro della riflessione di Daniel James Joseph – Capitalismo Battle Pass – che si sofferma sui videogiochi che ricorrono al meccanismo delle microtransazioni e alla formula del battle pass/event pass introdotta a inizio degli anni Dieci del nuovo millennio in ambito multiplayer online sotto forma di “progressione a pagamento”. Il cosiddetto “capitalismo battle pass”, una variante della platformizzazione della produzione culturale contemporanea, attesta la trasformazione dei videogiochi in “centri commerciali” e, specularmente, la sempre più evidente ludicizzazione dei negozi e del commercio, tanto che non mancano casi in cui si accede alle promozioni soltanto cimentandosi in esperienze videoludiche competitive. Il sistema battle pass impatta pesantemente anche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, costretti al forsennato aggiornamento dei contenuti. Il modello dei videogame free-to-play, o free-to-start, che permette ai giocatori di fruire gratuitamente dei prodotti base con la possibilità di accedere successivamente a pagamento a contenuti e funzionalità extra, soprattutto nella versione battle royale, si presenta, secondo Joseph, come «un mediatore che mostra come la cultura, i consumatori e i lavoratori siano bloccati in un ciclo “divertente” definito dal circuito digitale dell’accumulazione e del capitale» (p. 484).
A partire dal concetto di countergaming elaborato da Alexander Galloway (Gaming. Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, 2006), Matteo Bittanti e Theo Triantafyllidis – Countergaming tra arte e politica – discutono sulla possibilità dell’arte videoludica di costruire contro-narrazioni efficaci, mentre, in chiusura di volume, Nadine Smith – Chiamata di servizio –, prendendo spunto da come negli Stati Uniti si possa essere etichettati come “potenziali terroristi” semplicemente per aver dato la caccia in un videogame a un personaggio con il nome di un’importante carica politica2, riflette su come certi tipi di videogiochi tendano a strutturare immaginari violenti sugli utilizzatori. Il fatto che si finisca per essere annoverati tra i “potenziali terroristi” per aver dato la caccia su un videogioco a un personaggio che prende il nome di un politico reale ha pertanto una sua, per quanto perversa, logica.
Diverse ricerche accademiche dimostrano come i videogame “sparatutto in soggettiva” svolgano tanto una funzione propedeutica quanto di supporto alle pratiche militari «legittimandole e inscrivendole in un discorso ideologico multimediale» (p. 519) [su Carmilla]. Call of Duty: Warzone, ad esempio, è strutturato per incoraggiare tanto la cooperazione quanto la competizione tra gruppi e se, al pari di altri multiplayer non per forza di cose di carattere bellico, si è rivelato un ottimo aggregatore sociale, soprattutto durante il distanziamento pandemico, resta il fatto che questo videogioco crea forme di dipendenza gratificando e facendo sentire potente il giocatore. Videogame come questi, sostiene Smith, tendono a manipolare in modo sottile ma efficace persino i giocatori più consapevoli dei meccanismi perversi su cui sono costruiti.
Il genere battle royale ha innestato le marche di riconoscimento dello sparatutto in prima persona sull’open world – un genere che ha trovato in The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Grand Theft Auto due esempi paradigmatici – esplicitandone la sottesa ideologia colonialista. […] Si tratta di aggiornare il mito della frontiera per l’era digitale. Gli ambienti di gioco – anche quelli non violenti e apparentemente benigni – impongono una modalità di socializzazione che si fonda sulla sistematica estrazione delle risorse e una competizione brutale per cui “la mia vittoria presuppone la tua sconfitta” (p. 525).
Smith fa poi riferimento a giochi come Animal Crossing strutturati su una logica di competizione e di accumulo tipicamente capitalista da cui il giocatore non può sottrarsi. «Nel caso dei giochi multiplayer free-to-play così come delle piattaforme di social media free-to-post, le regole di ingaggio sono stabilite ex ante da potenti corporation. Non si scappa» (p. 525).
Attraverso Reset. Politica e videogiochi e il precedente Game over. Critica della ragione videoludica, Matteo Bittanti ha indubbiamente fornito al dibattito italiano sull’universo videoludico un contributo di assoluto valore aggiornandolo e indirizzandolo verso alcune tra le questioni più rilevanti affrontate dai game studies magiormente critici nei confornti di ciò che avviene dentro e fuori gli schermi. Inosomma, la produzione di Bittanti merita assolutamente di essere presa in considerazione da parte di chi si occupa di immaginario e cultura d’opposizione.