Dylan Dog: un anarchico dell’immaginazione, uno scettico della ragione

di Gioacchino Toni

“È buffo: per spiegare i misteri ci sono sempre un sacco di ipotesi razionali… Così come ci sono sempre un sacco di ipotesi misteriose per spiegare la realtà…” Dylan Dog, Phoenix, n. 123, 1996.

«Se le battute di Groucho possono diventare terribilmente serie, Dylan a sua volta sa praticare l’arte di non prendersi sul serio anche nelle situazioni più terribili. È per questo che l’ironia dei personaggi di Sclavi è tipicamente filosofica» Così scrive Giulio Giorello, La filosofia di Dylan Dog e altri incubi (Mimesis, 2023), a proposito del celebre fumetto che dal 1986 esce puntualmente nelle edicole italiane e, tradotto, ha saputo oltrepassare i confini nazionali.

Nell’universo abitato da Dylan Dog spesso l’apparenza non coincide con la realtà e risulta difficile distinguere nettamente tra buoni e cattivi. Dalle sue avventure emerge spesso un’esaltazione del valore della dignità e della libertà dell’essere umano. Ed è proprio l’integrità di Dylan Dog che «lo salva dalla “zombieficazione” di una società di uomini e donne che non dialogano davvero, e che lavorano unicamente per il mantenimento del loro benessere. Cittadini ideali di un “mondo felice”, avanguardie del progetto di una misteriosa cospirazione su scala mondiale, che mira al controllo totale delle anime» (p. 29).

Una feroce critica sociale viene fatta alla società contemporanea, tecnologica, burocratica, industrializzata, direzionata al danaro e al successo. Dylan è un individuo non integrato nel sistema sociale, e potrebbe quasi definirsi un anti-eroe, un disadattato che si sforza di integrarsi mantenendo dei valori come essere umano in un contesto di forte alienazione […]. È consapevole che la società dei consumi vive di un accumulo compulsivo. L’indagatore si confronta sempre con una zombieficazione generalizzata, fatta di egoismi, intolleranza e discriminazioni (p. 30).

Da idealista problematico e tormentato che intende resistere all’omologazione sociale, Dylan Dog si prodiga per aiutare chi è indifeso, «quei “mostri” che la società non vuole vedere e anzi ha reso invisibili agli occhi delle persone “per bene”» (p. 44). Un detective autoriflessivo che cerca di far tesoro dei tanti errori che commette ricorrendo a una forte dose di ironia – ed in questo il personaggio di Groucho si rivela una spalla indispensabile – lontanissimo da quei supereroi che tendono a deresponsabilizzare il pubblico provvedendo, da soli, a risolvere i problemi. Come ha ben sintetizzato Andrea Possenti nel Prologo del volume,

Groucho è per lo più incline a prendere in giro i clienti, creando un’atmosfera comica e surreale e riesce a spezzare il silenzio della noia con il disorientamento dello scherno e del sarcasmo. Ci regala un po’ di idiozia, insomma. La sua presenza è essenziale per un carattere critico e autocritico come quello del suo capo, per mitigare il nichilismo che altrimenti si impossesserebbe del protagonista (p. 25).

Le figure femminili che si incontrano in Dylan Dog, sostiene Giorello, sono rappresentate nelle loro differenze, tanto da risultare «uno dei fumetti in cui la figura femminile risulta più valorizzata. Sergio Bonelli ha compensato la scarsa presenza di donne tipica dei racconti di Tex con Dylan Dog, dove si trova invece un caleidoscopio femminile che è apparentemente un omaggio al fascino da seduttore del Nostro, ma in realtà è un altro modo di presentare la sua debolezza» (p. 55).

Circa il rapporto con la scienza, allargando il discorso ad altri fumetti della scuderia Bonelli, Giorello nota che se in Tex ogni tanto compare qualche demone, in Zagor si enfatizza l’ambiguità della scienza e in Mister No questa è quella degli anni Cinquanta-Sessanta, impegnata nella fabbricazione di ordigni, in Dylan Dog a prevalere è l’inquietudine con cui si guarda alla medicina e alla biologia.

«Nelle battute sarcastiche che Dylan fa molto spesso contro l’establishment medico, contro il sistema ospedaliero, contro la medicalizzazione […], si intravvede un sano germe di anarchia in contrasto a queste nuove forme di autorità che per prima cosa imbriglierebbero la ricerca e in seguito si servirebbero della ricerca per imbrigliare noi» (p. 57). Insomma, in Dylan Dog «i “normali” sanno produrre “mostri” non solo con stereotipi e idee da “benpensanti”, ma anche piegando ai loro scopi – che hanno sempre al fondo l’ostinata difesa di un ordine iniquo – persino le conquiste della scienza» (p. 77).

In Dylan Dog realtà e sogno non sono nettamente separabili, tanto che spesso i due universi si scambiano di ruolo e conducono a finali che non sono tali e lasciano “a bocca aperta” chi si attendeva di giungere a qualche punto fermo sul finale dell’albo .

L’indagatore dell’incubo non è mai il genio della deduzione che prevede il dipanarsi degli eventi e rimette le cose a posto; piuttosto, negli eventi suo malgrado ci si trova e, magari senza poter fare altrimenti, gioca la partita con i pochi strumenti che ha in mano. Ma “sta saldo” nel cooperare con chi, per una ragione o l’altra, si trova nei guai – belle fanciulle, ragazzi soli, cuccioli abbandonati eccetera – e tutto intraprende per restituire loro un frammento di dignità e di sincerità (p. 81).

Il volume di Giorello evidenzia bene come nella sua Londra misteriosa Dylan Dog svolga le sue indagini ragionando in maniera non convenzionale ironizzando sull’umana incompletezza. Così come non completerà mai la costruzione del galeone a cui lavora nei ritagli di tempo, altrettanto non potrà risolvere del tutto gli enigmi che si trova ad affrontare e l’ironia finisce per essere forse l’unica arma a disposizione per affrontare una vita che non può essere compresa fino in fondo. In linea con lo spirito del fumetto, vale forse la pena gustarsi questi albi derivandovi una salutare vocazione all’autoironia, cosa di cui avremmo tutti e tutte un gran bisongo.

In conclusione vale la pena citare quanto ha scritto Valerio Evangelisti nell’introduzione al volume di Tiziano Sclavi curato da Decio Canzio e Franco Busatta, Dylan Dog, tre passi nell’incubo (Mondadori, 2006), uscito in occasione del ventennale dell’arrivo nelle edicole del fumetto:

Sclavi ha compiuto l’operazione di cui la narrativa di genere (ripeto, la sua è letteratura) necessitava, non solo in Italia. Essere traghettata dall’effimero alla complessità, fino a impiantarsi a tal punto nell’immaginario del lettore intelligente da non poterne più essere espulsa. Fino a sciogliere le reticenze di settori culturali tradizionalmente diffidenti e sussiegosi. L’apporto di Sclavi e di Dylan Dog allo “sdoganamento” della narrazione di genere, e nello specifico del fumetto, è stato inestimabile.
Il dandy londinese può dunque celebrare con legittima soddisfazione il ventesimo anniversario dalla sua prima uscita. Peccato che sia astemio, perché un brindisi ci starebbe, magari in compagnia di una delle bellissime donne che attraversano la sua vita. Quanto a Sclavi, mi auguro che un po’ di alcool lo beva, e che si conceda un brindisi celebrativo. Ha creato un personaggio immortale, dunque è divenuto un poco immortale anche lui (cito da un film horror, Saw II, visto che siamo in tema: “É immortale chi lascia un’eredità, chi fa qualcosa degno di essere ricordato”). Che cosa si pretende di più dalla vita… o dalla morte? [su Carmilla].

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