di Francisco Soriano
Per Ghiànnis Ritsos una delle maggiori responsabilità del poeta consisteva nel “fornire il filo di Arianna” che ci avrebbe guidati “nel segreto profondo dei meccanismi della poesia”. Una missione che imponeva di non parlare semplicemente della poesia, ma attraverso la poesia stessa, spazio e condizione ineludibile di civiltà e lotta. Pertanto era impossibile chiedere al poeta “di parlare della sua opera e non attraverso la sua opera”, sminuendo l’essenza stessa del fare poesia: “in questo modo si chiederebbe al poeta di cambiare la propria natura”. Dunque, la poesia è fonte di comunicazione, strumento ideale e pratico di testimonianza nel modo più consono immaginabile, certamente molto di più di quanto si pretenda dire di essa.
Ritsos riteneva questa modalità del fare poetico, un vero e proprio processo di identificazione e speculazione intorno alle “cose del mondo”. Il tentativo era forse quello di ripercorrere in sicurezza il labirinto tipico in cui ci conducono le poesie. Una dinamica che investiva, inesorabilmente, anche e soprattutto la forma del linguaggio: in poesia il discorrere risulta essere sintetico, mentre in quello della critica è semplicemente analitico. Nella seconda condizione, infatti, in nulla si ha a che fare con quanto è unicamente possibile manifestare poeticamente.
Le convinzioni di Ritsos sugli aspetti concettuali e teorici che riguardano la scrittura e il fare poetico furono enunciate, in parte, nell’introduzione alla silloge “Testimonianze”, alla quale egli riservò un’importanza determinante nel suo percorso futuro di poeta. Nella sfera misterica del poetare, e solo in questo spazio d’incanto, Ritsos riconduce i versi della sua ricerca. Uomo di rara onestà intellettuale, in una sorta di dialettica autocritica, egli poneva quesiti a cui non era facile dare risposte. Innanzitutto, gli pareva inspiegabile, di come la scrittura di testi poetici “laconici” ed “epigrammatici” potesse costituire e costruire la struttura linguistica delle sue “Testimonianze”. Infatti, questi versi apparivano in evidente contrasto con la sua stessa visione teorica di poesia, piuttosto tendente a una scrittura e a una visione lirica che avesse la forma di poema, sostanzialmente una narrazione in versi lunga e articolata, addirittura speculativa. Tutti conoscevano le abitudini del poeta nelle sue famose “immersioni”, che non prevedevano limitazioni temporali quando scriveva poesie. Ritsos si sottoponeva a periodi insonni e di grande stress nell’esercizio quotidiano alla scrittura: un percorso di perfezionamento, calibratura e rilettura davvero impegnativo, a riprova di quanto fossero improrogabili gli aspetti teorici nella sua idea di poesia.
Sulla struttura “breve” delle sue “Testimonianze”, scritte quasi in forma di frammenti, Ritsos cercò di spiegare il piano inclinato del suo “tradimento” alla vocazione di una poesia più articolata nella forma, di sicuro più prosaica e argomentativa nei contenuti e meno immediata e folgorante. La necessità di un percorso come quello delineatosi durante la stesura delle poesie nelle sue “Testimonianze”, consisteva nella necessità “di reagire al pericolo della prolissità e della retorica che sono in agguato dietro le poesie lunghe”, oppure, anche “per il bisogno di una risposta fulminea a problemi attuali e urgenti del nostro tempo”.
In ogni caso, per Ritsos c’era bisogno, ineluttabilmente, “della volontà di isolare e immobilizzare quell’istante che consentisse un’analisi profonda e puntuale, sfuggendo da ogni “estensione illimitata – ossia un’idea dell’invisibile “attraverso la divisione”, una concezione del moto perpetuo “attraverso l’immobilità””. Geniale paradigma che sembrerebbe piuttosto rappresentare una forma retorica: l’ossimoro del moto perpetuo indissolubilmente legato all’assoluta immobilità.
Di “oscurità” volle parlarci Ritsos e ne giustificò la ragione alla fine della citata introduzione alle “Testimonianze”. Ciò avvenne non perché le poesie risiedessero nel lato tenebroso della nostra esistenza: al contrario, manifestavano un “eccesso di trasparenza”. Elemento e status diversi, “in essenza”, alla solarità e luminosità delle quali i poeti greci dei suoi tempi ebbero ad occuparsene. In questa visione i fatti del mondo si svolgevano irrefrenabilmente, nel quotidiano, nel vai-e-vieni di esistenze in controluce, nei giorni/nei mesi/negli anni. Per Ritsos la vita era un procedere lento. Essa si srotolava come un gomitolo lanciato per gioco sul selciato, mentre, alcune lumache “accanto al pozzo, sulle aiuole, le sere d’estate, in tutti i giardini annaffiati, vicino ai fiori passeggia(va)no”. Non bastavano più gli Achille, Apollo, Penelope, a spiegare che nulla, forse, si è mosso, nella prigione di questi corpi che appassiscono uno dietro l’altro, nel torpore della Storia e delle cose ripetute, questi esseri che appaiono giganti e se ne stanno con il testimone della vita in mano, di fronte al mare accecato dal sole di mezzogiorno o, meglio, dalla chiarità delle parole dette in canti poetici. Laddove donne e uomini si guardano intorno, dalle solite inferriate del giardino, dagli orizzonti rossi, dalle finestre spalancate, al cospetto del greco antico sui marmi bianchi fra i venti sferzanti che nulla possono se non trascinare dissidi e gioie incompiute: infatti nulla è compiuto e forse mai lo sarà. In definitiva, piccole cose – come in “press’a poco”, abitano la poesia di Ritsos:
“Prende in mano oggetti scompagnati – una pietra, /una tegola rotta, due fiammiferi bruciati, /il chiodo arrugginito del muro di fronte, /la foglia entrata dalla finestra, le gocce, /che cadono dai vasi annaffiati, quella pagliuzza /che ieri il vento portò sui tuoi capelli, li prende /e là nella sua corte costruisce press’a poco un albero. /In questo press’a poco sta la poesia. La vedi?”//.
Sono queste le parole dedicate a una sofferenza che, forse, poco ha a che fare con la solarità tipica dei greci “moderni”, come Elitis e Seferis, che proprio della luminosità ne fecero un “canone”, uno spazio, una speranza, una visione invincibile sul male ottuso degli uomini. Per questo motivo, Ritsos appare più distante dalle oniriche quanto speranzose irradiazioni dei suoi contemporanei. Erano poeti, Seferis ed Elitis, che non avevano scontato la tortura e le lunghe prigionie come era accaduto a Ritsos, ma anche loro avevano pagato con sofferenze e umiliazioni indicibili la richiesta di libertà, così osteggiata durante la stagione dei colonnelli.
Dunque, nel “fare poesia” Ritsos intendeva “testimoniare”, sollecitare alla riflessione, ripagare lo sforzo con una elaborazione lunga, corposa, complessa. Per il poeta il concetto di testimonianza si caratterizzava in dimensioni dicotomiche, che egli distingueva in forme di esperienza “generale” e “particolare”. Alla prima il poeta riservava la ricerca sulla questione “dell’origine, dello scopo, del posto dell’uomo nel mondo e di fronte alla morte e dei rapporti dell’uomo nel mondo. Infine, dei rapporti umani nello spazio e nel tempo, quest’ultimo “caratterizzato e scandito negli aspetti storici e sociali”. Per quanto invece riguardava il particolare della ricerca poetica, egli poneva la questione dell’arte e della sua tecnica, “come spazio equivalente ma anche singolare di una ricerca sociale, ontologica ed espressiva”. Ritsos era così inesorabilmente proiettato nell’insaziabile narrazione di una profondità che non poteva non avere come riferimento il “perseguimento di una giustizia” che, immaginava, potesse abitare “nelle proprie radici oscure”. La giustizia fu un tema solenne e indubbiamente segnante l’opera di Ritsos. Senza giustizia sociale, senza un obiettivo umanissimo di sublimazione di qualsiasi forma di eguaglianza e libertà, nulla poteva essere perseguito, secondo un’idea politica che trovava la sua origine nella cultura marxista-leninista. Ma la giustizia, forse, non risiede in un recondito senso di umanità che travalica un’ideologia o una dinamica di tipo meramente politico?
Certo, il confronto sociale e morale di cui Ritsos parlava, di critica al sistema e, di autocritica all’interno delle stesse componenti della sinistra marxista, trovava origine e giustificazione nella sua sedimentata militanza nel Partito Comunista Ellenico. Non fu un caso, infatti, che il suo atteggiamento massimalista, coerente e assolutamente legittimo in quel contesto storico provocò la reazione di coloro i quali, perseguendo finalità di potere, non sopportarono l’antagonismo di un poeta e intellettuale così convincente nelle sue azioni di oppositore al regime. La storia greca con le sue tragicità rappresentò, dunque, uno spazio di conflitto estremo per lo stesso Ritsos e un palcoscenico non racchiuso in un guscio prevalentemente provinciale. Un esempio fu l’attività poetica di Ritsos che rappresentò la rivendicazione delle istanze democratiche e sociali di intere comunità popolari nel mondo.
Ritsos fu, inoltre, un audace scrittore di metafore non sempre e soltanto alla ricerca di uno spazio riservato alla poesia come atto civile e di lotta sociale. Talvolta si rivolse a scandagliare l’intimo della natura, che pervade e avvolge le donne e gli uomini del mondo quasi involontariamente e malgrado tutto:
“Rimani. Resta qui. C’è calma, una calma profonda; /quasi una felicità, come se fosse finita la mutevolezza /o come se il mare si fosse assunto anche il nostro movimento; /e noi, da questa finestra, possiamo osservarlo /senza rischio, anzi quasi incantati /da tutte queste mutevoli forme d’acqua, /da queste grida anodine, dai rumori immotivati, /dai colori pericolanti, dai riverberi, dai mutamenti improvvisi, /disinteressati, persino compiaciuti della nostra conoscenza /sull’immutabilità dell’acqua sotto i gesti /assordanti e minacciosi dei venti. Rimani.”//
Sono parole tratte dal poema “Il guardiano del faro”: un canto di esaltazione alla forma del mare, alla sua solidale mutevolezza in colori e movimenti in armonia con i sentimenti degli esseri umani. L’intera avventura/narrazione del poema è niente altro che la trasposizione della nostra quotidiana diaspora, nei territori e dentro di noi. Essa ci appare in mutazione pur rimanendo immobile nelle vicissitudini dei giorni sempre uguali. In questo straordinario moto perenne, il poeta sembra avvertirci di una nuova e possibile dimensione, quella del silenzio indivisibile in opposizione alla frammentazione/mutazione dei rumori:
“Tra poco, sotto la frammentazione dei rumori, distinguerai /l’umile, indivisibile silenzio. Ti sembrerà una cortesia nei tuoi confronti. /Soprattutto quando fa sera /e la stanza odora di salmastro, di petrolio e fumo – /(un profumo intensissimo di alghe, vento e quiete domestica, /assieme al respiro caldo del caffè e all’infinita raucedine dell’orizzonte), /in quel momento ti pare di trovarti in una comoda, solida cavità sferica, scavata nell’inutile frastuono, /e ogni tanto, dopo uno schianto più forte, avverti una splendida esitazione, /come se nel sonno una mano amorosa ti urtasse senza svegliarti /dandoti nel contempo la sensazione di quiete del sonno /e della mano amata. Sì, rimani.//
Ma chi è il guardiano del faro, colui il quale conosce ogni forma del mare, ogni brezza che ne solleva la cresta, ogni tempesta che innalza i flutti e ne mostra la potenza? Certo un uomo robusto, che potrebbe celare fragilità umanissime al cospetto dell’immanenza delle cose in divenire. Vive da solo anche se, qualcuno, gli fa visita. Il faro con le sue stanze vuote e scarne, potrebbe essere una “nuova arca”, suggerisce il guardiano all’improvvido ospite, ricordandogli che è forse questa la sua ultima tappa: dove ricordi, azioni e sogni potrebbero essere preservati. E tutto ciò per salvarsi e sublimare la vita degli alberi, delle piante e dei semi di fiori. Il faro è un campanile, un riferimento, una stella polare e, la lampada, il faro è una torre campanaria. Infine la veglia, immobile, serve affinchè il moto rotatorio del faro mai si arresti: “ogni luce ha il suo rumore e lo puoi udire anche senza vederla, anche quando dormi”. Alla fronte del faro, illuminata e irradiante, Ritsos ancora una volta, oppone il buio, questa volta con una funzione specifica:
Di notte ha sempre inizio la nostra sovranità. Nel buio, / con il silenzio o il frastuono del mare sotto i piedi, ci sentiamo / murati dentro il faro, immedesimati con esso, / abbiamo l’altezza marmorea della solidità / con le radici di marmo confitte nella roccia, / con le radici della roccia confitte nella terra, / con le radici della terra confitte nel mare.//
Ritsos/guardiano del faro comprende quanto sia insanabile il silenzio, l’ospite scompare e, la luce del faro, appena rischiara le sue mani. Il mare si rivolge ancora una volta, sinuoso, alla nuova stagione, a un nuovo cielo, alla dolorosa e, forse, irrimediabilmente perduta umanità degli uomini.