di Cesare Battisti
Questo racconto vuole celebrare il successo di un giovane alunno detenuto che grazie all’audacia di un insegnante ha ritrovato la speranza, il gusto della vita, la libertà.
«Non lo so e comunque saperlo non m tirerebbe fuori da qui» risponde Daniel sapendo di provocare l’ilarità generale.
L’insegnante sbozza un sorriso di stanchezza, subito dissolto in un gesto che dovrebbe infonderle il coraggio per continuare.
Daniel non è un cattivo alunno, non è nemmeno l’irriducibile che si ostina a interpretare. Nonostante il ruolo che si è imposto e del quale è prigioniero, nel suo sguardo brilla ancora la speranza. Sono tanti i giovani come lui che, precocemente segnati dalla vita, rinunciano alla parte migliore di sé stessi credendo che così si affronta la società che li rifiuta.
Un’insegnante non fa miracoli, ma può dare alla vita una ragione, alla sofferenza una via d’uscita. Lai non ha mai dimenticato la prima volta che ha varcato la porta del carcere: l’agitazione, l’aria ferma, il desiderio irresistibile di andar via di corsa. Poi il primo contatto con i detenuti, la subita consapevolezza che i suoi migliori sforzi in un posto simile non sarebbero valsi a niente.
Avrebbe potuto desistere allora, se non fosse successo che… Non lo sa più cosa le è successo dopo, per inerzia o forse per amore al suo mestiere è rimasta. Il tempo d’imparare a guardare oltre il castigo e scoprire che dietro ogni maschera si celava un volto umano. Ancor oggi le capita di chiedersi se lei stessa non abbia messo una maschera, una sorta di scudo contro le grida di aiuto di tutti i Daniel che, pur senza riuscirci, del fatalismo vorrebbero farsene una ragione.
Tintinnano le chiavi. Per gli alunni è la cella, per lei un altro giorno a consolidare l certezza che tornerà domani per ricominciare tutto daccapo. Nn c’è altro da fare, il conoscimento è la soluzione e lei lo ha imparato per insegnarlo agli altri.
Niente destino, solo una sequenza di fatti insignificanti che non portano da nessuna parte, quasi mai. Sarebbe troppo facile dargli un senso ora, dopo aver ricostruito a posteriori le cause e gli effetti che Daniel ha incontrato sul cammino. Quando si conosce la fine della storia, persino un’antica parola detta al vento diventa predizione. Daniel tutto questo non lo ignora, ma come fare a non pensarci, quando non resta ormai più altro da fare. Adesso che il tempo è una linea piatta senza fine, guardarsi indietro è l’unica distrazione che gli rimane. Ogni volta che la sua mente imbocca il cammino del passato, Daniel scopre una diversa faccetta di sé stesso e gli sembra di essere un estraneo. Ma per quanto cerchi di confondere la speranza con la consolazione, è lui che l’ha scritta quella storia. Solo che adesso non ricorda più l’inizio e non gli appartiene la parola fine. Eppure lui non è una scheggia impazzita. Ha camminato su questo mondo prendendo qualche scorciatoia, così fan tutti, qualcuno anche a occhi chiusi. Lui è andato, credendo che non ci fosse altra via per l’eternità. L’insegnante che sa un sacco di cose, dice l’istruzione può salvare, ma lei non c’era quando tutto questo succedeva proprio a lui.
Daniel si scolla dalla branda, è stufo di pensare. È stufo di sé stesso e dei consigli buoni così facili da dare. Non sopporta più le chiacchiere inutili, tutti pronti a rivestirsi di decenza con il senno del poi. Se potesse almeno togliersi dalla mente le avvisaglie, i gesti e i sospiri, gli sguardi antichi che sbucano da muri per inchiodarlo ai suoi errori, a quella verità che gli è sempre sfuggita di mano. Così come la vita vera, che gli è passata accanto e lui lì a guardare. Non esattamente, lui era troppo occupato a inventarsene un’altra tutta sua perché si sentiva escluso da quella generale.
È cominciato tutto prima che lui nascesse. Innanzitutto, non sarebbe stata sua l terra che avrebbe calpestato, né le sue parole che gli avrebbero insegnato. Aprire gli occhi per non vedere niente o consegnarsi a un mondo inconcepibile. Non era ancora nato, ma già sentiva che sarebbe finita male. Ci ha provato sin dai primi passi a sentirsi un altro, a diventare come tutti lo volevano. “È un bambino un po’ distratto ma intelligente”. Quante volte se l’è sentito dire a scuola. Le chiamavano distrazioni, gli insegnanti, mentre lui credeva di pensare alla vita vera. È andata come doveva andare. Poi il tempo si sfilaccia, si assottiglia l’eternità, le certezze vacillano e a Daniel sorge il dubbio che forse poteva anche andare diversamente.
È da un po’ che si arrovella. Ma non sa nemmeno più se sono pensieri suoi o se se glieli ha messi in testa quell’insegnante. Lei viene qui entrando e uscendo dalla porta principale, credendo di poter raddrizzare il mondo a ore. Come se tutti avessimo le stesse possibilità di agire, di scegliere da quale parte stare. Ma alla fine della lezione lei torna dai suoi, mentre lui non ha che le macchie brune sui muri con chi conversare. E allora è tutto chiaro, la scuola per alcuni è la via del successo, per altri una sala di tortura dove prendere coscienza della vita che ci è negata.
Daniel si lascia ricadere sulla branda, si mette a leggere i segnali. Briciole di voci che rimbalzano sui muri brontoloni, come rimbrotti che lo hanno accompagnato ad ogni passo della sua corta vita. Quegli stessi avvisi di pericolo promulgati da una buna società che non sa niente; un mondo da ignorare. I muri sono il libro di storia che lui frequenta, li sa leggere. È la sua storia, la stessa di tanti altri che tra le pareti strette ci hanno lasciato l’anima. Sono uomini e donne dalle passioni forti, l’immaginazione infuocata e, chissà, poca fermezza per evitare gli inganni. Tanti come lui, che ci hanno creduto un giorno all’insegnante a scuola, all’ordine sacro e alle promesse dei profani. Come se a tutti loro, agogna Daniel sulla branda, importasse veramente qualcosa dei desideri o delle pene altrui.
È così che, poco a poco, si erigono i muri e quelli che ci portiamo dentro sono i più difficili da valicare.
Per quanto eclissate in un canto della mente, Daniel avrebbe altre immagini di vita da evocare. Sono momenti di speranza, fatti da suoni melodiosi e da parole di conforto. Appartengono a saperi antichi, ma così vicini da poterli quasi toccare. Sono frantumi di memoria, rumori di una vita che stava per cominciare e che adesso è sparsa nel cervello e lui non riesce più a radunare.
Non dovrebbe mettersi a pensare a queste cose, come un bambino a scuola. Colpa dell’insegnante, che gli fa venire i rimpianti e lui poi si vergogna. Come si vergognavano un milione di anni fa quelli che, come lui, smettevano di imparare.
Steso sul letto, Daniel conta per la milionesima volta i quadrati formati dall’incrocio delle sbarre che lo separano dalla libertà. Li allinea da sinistra a destra, poi nel senso inverso, diagonalmente e ad occhi chiusi; li divide, li moltiplica e ne fa anche la radice quadrata, che ha imparato stamattina a scuola ma non sapeva ancora a che serviva.
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Illustrazione di Nico Maccentelli