di Gioacchino Toni
Nel volume di Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà (Luiss University Press, 2022), in cui si analizzano gli effetti dei videogame attraverso un approccio di stampo psicoanalitico lacaniano, si evidenzia come l’universo videoludico, con il suo immaginario conformista, quando non esplicitamente reazionario, incida sui sogni e sui desideri degli utenti. Secondo Bown i videogiochi non si limiterebbero, dunque, a influenzare i comportamenti, le scelte e le decisioni degli individui, ma condizionerebbero gli utenti generando in essi “nuovi desideri” senza che questi ne siano del tutto consapevoli. Se è pur vero che a ciò concorre l’intero universo tecnologico-comunicativo contemporaneo, secondo l’autore è però nell’esperienza del gaming che questo diviene manifesto anche dal punto di vista delle implicazioni politiche.
Quando si affronta l’universo tecnologico-comunicativo più sofisticato viene spontaneo domandarsi se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana; ebbene, sostiene Bown, tale interrogativo presuppone che la coscienza umana sia qualcosa di dato una volta per tutte e immodificabile ma non è affatto così, visto che questa si sta sempre più computerizzando. Ciò che occorre indagare, secondo lo studioso – ed è proprio di ciò che tratta il volume –, è piuttosto «quale forma di coscienza a venire si esprima nella realtà virtuale e nei videogiochi» (p. 29), alla luce del fatto che non sono tanto questi ultimi a divenire come la realtà, ma è questa che si sta trasformando in un videogioco. Anziché preoccuparsi di quanto il computer divenga umano, varrebbe la pena concentrarsi su quanto l’umano stia divendo computer anche a causa della dilagante gamification.
Colossi come Google, ad esempio, stanno sviluppando tecnologie che vorrebbero prevedere dove intendiamo dirigerci sulla base delle nostre abitudini spazio-temporali prospettandoci percorsi da seguire. Se un tempo era l’architettura a porsi come “inconscio della città”, dunque a dettare i percorsi da seguire, ora «questo lavoro prescrittivo, che consiste nello stabilire i “rilievi psicogeografici” della città, è svolto dai cellulari» (p. 34). Sono pertanto gli smartphone a controllare le azioni e gli spostamenti e lo fanno per ottimizzare gli interessi economici disseminati nelle diverse zone urbane.
Transport of London, ad esempio, sta studiando come gamificare gli spostamenti attraverso concessioni premiali a chi asseconda le proposte di tragitto alternativo suggerite. Se di per sé l’idea sembrerebbe rivolta soltanto a rendere più fluido il traffico evitando inutili ingorghi, non è difficile immaginare come ciò possa contribuire a porre le basi di un sistema ludico di “credito sociale” attraverso cui valutare l’affidabilità e l’obbedienza dei cittadini non dissimile da quello cinese tanto denigrato in Occidente. «La “città intelligente” del futuro non preverrà solo gli imbottigliamenti, ma anche tutti gli utilizzi improduttivi o le occupazioni improprie dello spazio urbano» (p. 36), sostiene lo studioso.
Ciò che però dovrebbe inquietare maggiormente, suggerisce Bown, è che applicazioni di questo tipo anziché soddisfare i desideri dell’utente, finiscono per decidere al suo posto ciò che desidera. Lungi dal venirci in aiuto per soddisfare i nostri desideri, gli smartphone finiscono per generarli e organizzarli.
In altri termini, le App predittive dei dispositivi mobili potrebbero essere in grado di portare alla coscienza desideri e pulsioni che sarebbero altrimenti rimasti nel preconscio: questo significa che stiamo cedendo una importante porzione delle nostre capacità decisionali a dispositivi progettati per mappare le nostre azioni e influenzare i nostri movimenti (p. 37).
Come Shoshana Zuboff anche Alfie Bown si sofferma su Pokémon Go, un videogioco free-to-play commercializzato nel 2016, basato sulla realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS – sviluppato da un’azienda legata ai sistemi di mappatura satellitare della CIA e di Google – che, nel prevedere la cattura di personaggi virtuali all’interno del mondo reale, indirizza i “cacciatori” verso determinate attività commerciali che ottengono così un maggior afflusso di potenziali clienti.
Dietro alla sua apparenza di innocente intrattenimento ludico, si cela in realtà un sofisticato esperimento di ingegneria sociale, capace di assorbire il “surplus comportamentale” degli utenti che lo utilizzano; il videogioco si rivela insomma una vera e propria “spugna” capace di assorbire una quantità impressionante di informazioni identitarie e comportamentali degli utenti.
Se Zuboff insiste soprattutto sulla capacità delle App di influenzare gli individui nei loro comportamenti, nelle scelte e nelle decisioni, Bown si dice convinto che queste possono generare nuovi desideri negli utenti. Le letture di Zuboff e Bown di Pokémon Go che individuano nel videogioco un efficace strumento di soggettivazione e condizionamento sono state ottimamente approfondite da Matteo Bittanti, autore della Prefazione al volume nel video A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff).
In termini lacaniani Bown individua nell’universo Pokémon «un’animazione che non costituisce l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto del prodotto dal desiderio e sul quale il desiderio può essere proiettato» (p. 38). Se a metà degli anni Novanta “l’oggetto elettronico” poteva ancora essere inteso come “sostitutivo” di un oggetto reale, ora, sostiene lo studioso, questo sembra in grado di agire al pari di qualsiasi altro oggetto “fisico” del desiderio. «Vivere nel mondo degli oggetti elettronici non significa […] dunque accettare copie e simulazioni di oggetti reali, come spesso si crede, ma qualcosa di ben diverso. Vuol dire desiderare seguendo le istruzioni dello schermo, sul quale l’oggetto, nello stesso momento, appare e detta il percorso del desiderio» (p. 39).
Lungi dal “darci ciò che vogliamo”, tali tecnologie sono state finalizzate a imporci perversamente desideri altrui. Attraverso cicli tecnologici di ripetizione sono stati letteralmente riscritti in termini economicisti, egemonici e centralizzati, il «desiderio dell’oggetto, l’esperienza del suo ottenimento e la possibilità di ricondividere il nostro stesso consumo dell’immagine» (p. 41).
L’esempio Pokémon consente a Bown non solo di evidenziare come dietro all’apparente soddisfazione di propri desideri tali sistemi di controllo e manipolazione agiscano per trasformare ciò che si desidera, ma anche come «l’oggetto fisico e il suo desiderio non preesist[a]no alla mediazione tecnologica del desiderio» (p. 43). Far parte della “generazione Pokémon”, afferma lo studioso, significa essere la “generazione degli oggetti elettronici” e prenderne atto potrebbe contribuire ad agire sul terreno del desiderio in maniera sovversiva.
Se l’universo videoludico contemporaneo è dominato da istanze conformiste votate al tradizionalismo più reazionario che alimentano la paura della “crisi” promuovendo l’American way on life, è però l’intera sua storia, sottolinea Bown, ad aver privilegiato tematiche quali l’espulsione degli alieni, il timore del contagio impuro, la difesa dei confini, la conquista colonialista e la costruzione di imperi inducendo il giocatore ad agire istintivamente aderendo acriticamente alle ideologie da essi veicolate.
«Un videogioco non è un testo che richiede di essere letto, ma un sogno che richiede di essere sognato» ma, sostiene Bown, occorre tenere presente che il gioco si presenta come esperienza in cui il gamer ha un ruolo attivo nel determinare gli eventi e, come nei sogni, «buona parte di questa apparente agentività è illusoria», essendo il giocatore costretto a un ambiente e ad una trama dati. «A differenza della realtà, ma ancora una volta come nei sogni, il giocatore può venire trasportato da una situazione all’altra senza preoccuparsi delle leggi del tempro e dello spazio. Come accade nei sogni, alla fine il giocatore torna nel mondo reale, ma le cose non sono sempre uguali a prima che il sogno iniziasse (p. 73).
Il videogioco non è pertanto il sogno di chi lo gioca, ma è il sogno di chi lo ha sviluppato e prodotto e, per certi versi, del contesto cultuale in cui nasce. Visto che gli esseri umani diventano sempre più “macchinici”, sostiene Bown, vale forse la pena di cominciare a chiedersi se i modelli psicanalitici della soggettività debbano continuare a essere utilizzati nelle stesse modalità con cui sono stati utilizziti fino ad ora.
Se Freud sostiene che «il sogno è l’appagamento mascherato di un desiderio infantile represso», nel caso dell’esperienza videoludica, sostiene Bown, si potrebbe dire che «il sogno è mascherato da appagamento di un desiderio infantile represso. Mentre il sogno si maschera d appagamento del desiderio interno o istintuale del soggetto, è in realtà il sogno dell’altro» (p. 84).
I videogiochi, dunque, nella misura in cui sono l’esperienza del sogno dell’altro, possono essere una particolare forma di godimento in cui i desideri dell’altro vengono vissuti – forse solo momentaneamente e inconsciamente – come se fossero i desideri del giocatore. È precisamente questa forma di godimento che può rivelarsi, allo stesso tempo, la più pericolosa da un punto di vista ideologico, e la più sovversiva (p. 85).
Visto che le modalità di godimento offerte dal mondo onirico videoludico mainstream tendono a supportare quell’universo valoriale tradizionalista e reazionario proprio del neoliberismo imperante, occorre domandarsi se i videogiochi, nel loro naturalizzare forme ideologiche di godimento, possano piuttosto perseguire finalità sovversive innanzitutto rendendo manifesta la struttura politica del godimento.
Alla luce del fatto che durante il gioco si viene a creare una temporanea situazione di disconoscimento psicoanalitico in cui il giocatore, pur essendo del tutto consapevole di essersi calato in un universo illusorio, vive l’esperienza giocata come fosse la realtà, Bown ha inteso con il suo libro indagare quali idee politiche plasmino tale «mondo semicosciente, straripante di beni in cui fuggiamo, ma da cui siamo anche formati e strutturati» giungendo a proporre una «teoria di come questa esperienza sia resa possibile e di come possa influenzarci in quanto soggetti» (p. 121).
A quell’universo onirico videoludico capace di dispensare piacere e godimento si accede attraverso sofisticati dispositivi tecnologici che rappresentano secondo Bown l’incarnazione contemporanea della fantasmagoria descritta da Walter Benjamin a proposito della gallerie parigine. Quella proposta dai videogame appare una «fantasmagoria in cui la storia collassa, e in cui si formano nuove relazioni e nuove affinità» (p. 121) che necessitano di essere indagate attentamente.
Il volume di Bown si domanda dunque come si possa diventare un “giocatore sovversivo”. Se nel copione steso nel 1987 da Félix Guattari per il film di fantascienza, mai realizzato, intitolato Un amour d’UIQ, si invocava una “soggettività macchinica” capace di fronteggiare la crisi delle identità prodotta dallo sviluppo tecnologico rendendo di fatto la psicanalisi inutile, André Nusselder (Interface Fantasy: a Lacanian Cyborg Ontology, MIT Press, 2009) sostiene invece l’utilità della psicanalisi, ammesso che questa riesca ad aggiornare la concezione lacaniana della fantasia in relazione al contesto digitale contemporaneo.
Qualche risposta al desiderio di farsi “giocatori sovversivi”, secondo Bown, può derivare proprio dal saper aggiornare la psicanalisi al nuovo contesto, di cui occorre urgentemente prendere atto consapevolmente.
In una società in cui la tecnologia e l’intrattenimento sono inseparabili e pervasivi, una psicanalisi della tecnologia può permettere […] di individuare le nuove politiche del desiderio, del godimento e del piacere. Capirlo è il primo passo per cambiare un mondo in cui – che lo vogliamo o meno – la soggettività viene trasformata dal progresso tecnologico (p. 130).
Evitando le trappole della tencofila e della tecnofobia, al sistema imperante, secondo Bown, non ci si oppone sottraendosi dal cyberspazio ma, piuttosto, portando in esso istanze sovversive. Solo così si può tentare di «influenzare le soggettività macchiniche» in modo da farle «insorgere contro le forze del capitale» (p. 132).