«Svegliati, amore, è scoppiata la guerra!»

di Sandro Moiso

Alberto Airoldi, SUGAR MOUNTAIN. Il brusco risveglio, Casa editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, pp. 198, 18,00 euro

Oh, to live on Sugar Mountain
With the barkers and the colored balloons
You can’t be twenty on Sugar Mountain
Though you’re thinking that you’re leaving there too soon
You’re leaving there too soon
(Sugar Mountain, Neil Young)

Quello riportato qui, nel titolo, è uno degli incipit più sorprendenti della letteratura italiana degli ultimi anni. Incipit che sarebbe piaciuto sicuramente a Valerio Evangelisti che spesso, molto spesso, lamentava la scarsa attinenza alla realtà materiale e al suo divenire espressa in tanta produzione letteraria nazionale. Una letteratura che si accontenta il più delle volte di avvitarsi intorno a vicende individuali e famigliari in cui trionfano l’introspezione, il sentimentalismo e la lagna esistenziale.

La quotidianità dei sentimenti trionfa così sulla quotidianità del lavoro, mentre il discorso liberale sui diritti individuali finisce col nascondere le condizioni reali di sopravvivenza collettiva anche là dove facili etichette, post mortem ancor più che postmoderne, promettono riletture attualizzate della working class e del suo mondo. Un panorama letterario prodotto da una generazione che Airoldi, pur a quella appartenendo, mette alla berlina nelle pagine del suo romanzo.

Romanzo che, oltre tutto, ha osato immaginare la guerra, ovvero ciò che era indicibile per i benpensanti, soprattutto di sinistra, fino al febbraio del 2022 (e forse ancora successivamente per un bel po’ di tempo). Soprattutto il brusco risveglio di questi ultimi dopo aver camminato sulla montagna di zucchero amaramente cantata da Neil Young.

Non una guerra locale, liquidabile come operazione di polizia internazionale dall’Occidente oppure come azione di stampo coloniale dal sempre presunto antagonismo della sinistra sedicente radicale, ma “mondiale”. Allargata ad una dimensione planetaria destinata a sconvolgere la vita non soltanto del protagonista delle vicende narrate, Raffaele, e del suo alter ego o doppelgänger (dallo stesso nome, guarda caso) con cui si incontra a metà del romanzo, ma anche dei suoi conoscenti, più o meno amici, e di migliaia o milioni di altre persone.

Una guerra di cui si fatica a riconoscere la causa scatenante e i protagonisti, ma che vede certamente coinvolta l’Italia e il suo governo, qualunque esso sia, gran dispensatore di leggi speciali e misure repressive atte a ridurre qualsiasi forma di contestazione e di lotta. Come afferma l’autore nell’introduzione:

Quando scrissi questo romanzo, tra il 2015 e il 2016, ero convinto che una guerra generalizzata in Europa sarebbe stata un’eventualità sempre più probabile, anche se non nel breve periodo. Non è questa la sede per illustrare le mie considerazioni dell’epoca, comunque ben sintetizzate dal noto adagio di Jean Jaurès: «Il capitalismo porta la guerra come la nuvola porta la tempesta». […]
Il mio intento era quello di utilizzare la narrativa per esplorare le possibili reazioni e conseguenze a livello politico e sociale, non mi interessava descrivere la guerra, che infatti resta sullo sfondo, minacciosa e indefinita. La prima parte del romanzo è classificabile come fantapolitica. A seguito del dissolversi di un’opposizione politica organizzata e alla luce del sole e di un evento tragico, il protagonista si trova a dover stravolgere la sua esistenza e a vivere una vita completamente nuova1.

Nella storia si mescolano, in maniera più che evidente, elementi autobiografici con riflessioni sui comportamenti non tanto dello Stato oppressore quanto di coloro che un tempo avevano immaginato di modificare il mondo senza doversi sporcare troppo le mani. Il riferimento piuttosto esplicito è alla generazione del movimento della Pantera, o almeno a una sua parte, e dei suoi succedanei (per intenderci, dai girotondini a Elly e alle sue “sardine”). Movimento, il primo, di cui hanno fatto parte sia l’autore che il suo alter-ego romanzesco, Raffaele.

Una riflessione che percorre soprattutto la prima parte del libro e che sembra voler sottolineare la fine di sogni mai veramente sognati e che non hanno fatto altro che trasformarsi negli incubi notturni e diurni del protagonista. Che finirà nella lotta e nella Resistenza, dalle caratteristiche mai del tutto esplicitate quasi fino alla fine del libro, sia per la tragedia che lo tocca personalmente, sia per la noia di un ambiente vile, falsamente cinico e, allo stesso tempo, falsamente impegnato sul nulla. Di cui, in più di una pagina, Airoldi esprime una critica ironica, razionale e spietata.

Sugar mountain è un romanzo con marcati riferimenti agli anni Novanta e Duemila, che cerca di fare i conti con le poche esperienze politiche di rilievo di una generazione che non ha mai potuto avere nemmeno l’illusione di cambiare il mondo, ma che forse non ha maturato neppure la consapevolezza di poterlo vedere sprofondare2.

Una generazione che si è risvegliata, forse, solo con l’annuncio della guerra reale, ma talmente addormentata da non saper ancora del tutto che pesci pigliare.

«In guerra… con chi… da quando?»
«L’Europa, l’Unione Europea, ha dichiarato guerra, il parlamento italiano non ha ancora votato, ma lo farà nei prossimi giorni. Stanno già bombardando. Questa volta ci siamo dentro anche noi.»
[…] La televisione, che solo ora riconoscevo in sottofondo, reiterava immagini e notizie inutili. Prendevano tempo, in attesa di direttive superiori. Inviati con l’elmetto cercavano di far credere di avere più notizie dei giornalisti in studio. La versione ufficiale era confezionata sull’imprescindibile necessità di sferrare un attacco preventivo perché il feroce satrapo nord-orientale si stava preparando a sferrare un micidiale colpo contro le difese del mondo libero, forse un bombardamento nucleare tattico che preludeva sicuramente un’invasione. Mesi o secoli dopo, seduto su un’auto che sfrecciava in un deserto africano, mi sarebbe venuto da pensare a lei in quei giorni come a una donna di Pompei che cerca invano di fare capire il pericolo rappresentato dalla fontana di fuoco che domina la città3.

Inizialmente lo Stato sembra permetter le manifestazioni pacifiste di protesta, ma soltanto perché:
«Uno Stato fascista non tollera nemmeno una manifestazione di protesta, uno Stato democratico ne può tollerare diverse, purché non servano a nulla.» (p.16). Anche se sarà solo questione di un attimo, prima che la repressione violenta ferisca, disperda, uccida e costringa alla fuga e alla latitanza chi vuole, o avrebbe voluto, opporsi alla guerra e alle sue conseguenze.

Le schermaglie ai confini dell’Europa si erano trasformate nei primi fronti di guerra, il governo garantiva il suo impegno incondizionato nel mantenimento della pace. Il sottosegretario aveva assicurato che il nostro paese avrebbe fornito armi e mezzi, ma soprattutto un instancabile impegno per una ricomposizione diplomatica. Il ministro, questa volta, si era risparmiato tutta l’abituale fraseologia calcistica, che gli imponeva di parlare sempre di partite impegnative da giocare fino in fondo, di fuorigioco, di difesa, centrocampo e attacco. L’unico partito che fingeva di rappresentare una sedicente opposizione di sinistra, il cartello “Pane, amore e fantasia”, aveva dichiarato che mai e poi mai avrebbe votato per la guerra.
«Una partita a Risiko?» buttò lì Davide.
«Non mi sembra il caso… se quelli di Pane, amore e fantasia hanno detto così, mi sa che avete ragione voi e che la guerra sta per scoppiare veramente…» rispose Paolo, ormai pago dell’ultimo ammazzacaffè. (p. 31)

Poi, sparite le manifestazioni pacifiste, i mercatini “equi e solidali”, i discorsi sui prodotti alimentari a km Zer0, le bandiere multicolori e insignificanti, a trionfare saranno la paura o le scelte individuali. Sviluppando così, all’interno del progredire della vicenda, una sorta di dialogo, a distanza di più di un secolo, con un classico dell’immaginario distopico: Il tallone di ferro di Jack London.

Meglio, però, interrompere qui la narrazione di una storia, comunque, tesa. In qualche modo audace nella scrittura e nella rappresentazione, tutt’altro che incline a concessioni al mondo del mainstream letterario, fosse anche irrorato apparentemente da venature classiste.

Un romanzo sicuramente da leggere per riflettere sul nostro presente, ma anche sul recente passato e sul nostro possibile futuro. Senza sconti e senza concessioni alle illusioni solidali e perbeniste che non servono ad altro che a nascondere una realtà orrenda dietro a una farlocca maschera democratica e progressista.

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