Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 2

di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico.
Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto diventare un punto di incontro dei subalterni e non un ambito puramente autoreferenziale come succede alle “strutture sportive di movimento”.

Una differenza assai nota in Italia e che ha prodotto una radicale rottura tra il mondo delle “palestre popolari”, che hanno decisamente optato per un approccio “classico” all’attività sportiva, e quello radical e alternativo proprio dei “centri sociali”. Nel primo caso, come per esempio a Genova, Livorno, Roma e Palermo, si sono consolidate realtà di massa con non secondarie entrature nel tessuto operaio e proletario le quali si sono conquistate una certa fama portando alcuni atleti, nella boxe, nella muay thai e nel powerlifting a competere per titoli nazionali e internazionali mentre, nel secondo, la frequentazione non è andata oltre il ristretto numero di frequentatori abituali del “centro sociale” senza alcuna capacità di attrazione nei confronti dei mondi operai e proletari. Non è secondario rilevare come le “palestre popolari” conoscano una notevole frequentazione del proletariato immigrato il quale, all’interno di questi ambiti, ha l’opportunità di affiancare all’attività sportiva dei momenti di socialità che lo emancipano dai ghetti sociali ed esistenziali in cui è confinato un aspetto del tutto estraneo alle realtà radical e alternativa le quali, in linea di massima, sono frequentati da bianchi di classe media.

Il senso di ciò è spiegato e ben argomentato da V. L., uno degli istruttori della sala.

Intanto cominciamo con il dire che questo Collettivo nasce grazie all’iniziativa di un paio di ex pugili con una certa carriera agonistica alle spalle. Pugili che, però, oltre che atleti erano e sono comunisti. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo constatato che, per gli abitanti dei quartieri popolari, le possibilità e le occasioni di fare sport erano ridotte all’osso. Questo per tre motivi. Troppo onerosi i costi delle strutture private; percepite, e non a torto, come forma di controllo e disciplinamento coatto le poche e rare strutture pubbliche; culturalmente non proponibili le attività sportive alternative presenti nel variegato mondo della sinistra. Attività che sono svolte al di fuori delle federazioni sportive, senza sbocchi agonistici e prive di una qualunque serietà professionale e coeva disciplina atletica. Nessun proletario metterebbe piede in un posto simile perché ciò che ricerca è la possibilità di fare una attività sportiva vera nella prospettiva di poter diventare, come nel nostro caso, un pugile di valore. Con ciò abbiamo spiegato il terzo punto. Il primo è semplice poiché i costi delle nostre attività sono un quarto di quelli normalmente in uso nelle strutture commerciali. Il secondo punto è quello più importante e interessante. Possiamo dire che noi siamo un collettivo, per usare un’espressione ben nota a voi italiani, di boxe e di lotta, nel senso che non ci limitiamo ad allenare le persone e portarle ai campionati o dare la possibilità di svolgere una preparazione atletica anche a chi, per età, non andrà mai oltre a qualche round in allenamento, ma dentro la nostra sala svolgiamo anche attività politica e sindacale tanto che, proprio da qua, hanno preso forma, almeno in parte, le realtà organizzate dei precari e dei disoccupati che stanno conoscendo una certa espansione in città.

A questo punto dovresti dire qualcosa di più articolato sulla composizione di classe del collettivo e, in che misura, detta composizione riflette la realtà sociale di Marsiglia.
Marsiglia è una città dove l’indice di disoccupazione e precarietà è tra i più alti di Francia. Per molti questo dato oggettivo farebbe di Marsiglia l’elemento tanto anomalo quanto di retroguardia della società francese. Secondo noi, invece, Marsiglia racconta esattamente una storia del futuro. Disoccupazione e precarietà non sono una condizione anomala bensì la condizione in cui gran parte delle masse operaie e proletarie saranno confinate. Per questo i disoccupati non sono un’appendice della classe operaia ma sono classe operaia a tutti gli effetti. Disoccupazione e precarietà si intersecano perché il passaggio da una condizione all’altra è costante. Nel Collectif abbiamo raccolto per lo più, anche se vi sono presenti condizioni di maggiore stabilità, le tipiche espressioni di questa condizione e ciò ci ha permesso, insieme a militanti operai che provenivano da altre esperienze, di sviluppare un’attività politica e sindacale proprio a partire da queste condizioni.

Avete un qualche modello politico e organizzativo a cui fare riferimento?
Noi ci definiamo come collettivi autonomi, il che già dice molto. Come tutte le esperienze che vivono la realtà dell’oggi non possiamo certo pensare di riprodurre i modelli del passato anche se, in qualche modo, di queste esperienze teniamo conto. Non esiste una ortodossia dell’autonomia di classe, esiste l’autonomia della classe qui e ora. Se proprio vogliamo cercare un modello, noi siamo molto interessati a ciò che fa il Sicobas in Italia, soprattutto la sua sezione napoletana attraverso il “Movimento dei disoccupati 7 Novembre”. Ci ispiriamo anche al movimento americano per i 15 dollari, con il quale abbiamo dei contatti, e siamo attenti a ciò che si sta muovendo in Inghilterra sulla questione delle bollette. Infine, abbiamo un legame abbastanza stretto con esperienze similari alla nostra in Irlanda. Qua, in Francia, abbiamo legami stretti con realtà simili alla nostra a Parigi, Lione, Montpellier e Tolone. Stiamo ipotizzando di organizzare per la primavera prossima un’assemblea di tutte queste realtà, alla quale vorremo invitare anche compagni di altri Paesi, sicuramente il movimento dei disoccupati napoletani, in modo da costruire un coordinamento autonomo di realtà operaia e proletarie. Un’altra cosa che cercheremo di fare è di costruire un coordinamento nazionale delle esperienze sportive affini alla nostra. Alcuni nostri compagni, infine, lavorano anche dentro le strutture sindacali più tradizionali. In Francia i sindacati hanno perso gran parte dei loro quadri e dirigenti per cui, specialmente nelle strutture periferiche, vi sono parecchi vuoti che, in alcuni casi, siamo riusciti a riempire potendo così utilizzare una parte della logistica rimasta intatta.

Voi siete palesemente distanti dai vari movimenti della sinistra alternativa e antagonista. Che cosa rimproverate? Che cos’è che vi differenzia principalmente?
Direi, per semplificare, che a differenza di quella che comunemente viene definita sinistra radicale o antagonista, noi ci caratterizziamo per la nostra “centralità operaia”. Quando parliamo di “centralità operaia” non lo facciamo nel modo in cui lo fanno le varie sette comuniste ortodosse, per le quali la classe operaia è ridotta a icona fuori dal tempo e dallo spazio. “Centralità operaia”, per noi, significa partire dalla attuale composizione di classe, la quale, chiaramente, è il frutto delle trasformazioni economiche e sociali intervenute dentro il modo di produzione capitalista. “Centralità operaia”, pertanto, significa organizzare le lotte, dentro un programma comunista, di tutti quei settori operai e proletari che oggi vivono le contraddizioni maggiori della società capitalista. In una città come Marsiglia sono i precari e i disoccupati i settori sociali sui quali poggia l’attuale ciclo di accumulazione capitalista, sono questi i settori dove più alto è il tasso di estorsione di plusvalore. Questi settori, che la sociologia borghese definisce marginali e un marxismo da operetta sottoproletari, sono ormai una componente maggioritaria della classe, sono la storia del presente e non i residui del passato. Non sono i frutti indiretti della putrefazione imperialista ma i punti più avanzati della nuova organizzazione del lavoro. Questi settori sono socialmente esclusi e marginalizzati perché è esattamente questa la condizione normale nella quale la classe operaia è stata ascritta. Le lotte di questa classe sono ciò che ci interessa organizzare in una prospettiva comunista. Con ciò la differenza con quanto è definibile come sinistra radicale e antagonista appare sin troppo evidente. Quella sinistra e quei movimenti hanno come settori sociali di riferimento tutti quei corpi intermedi della società che possono vantare una sostanziale inclusione sociale, che sono estranei alla produzione di plusvalore e che, nei confronti della società presente, hanno a muovere una critica di natura prevalentemente culturale. Estremamente significativo il fatto che tutti questi movimenti eludono la questione della violenza e della forza dimenticando che, fuor di metafora, la relazione tra capitale e lavoro salariato è sempre una relazione di guerra. Una buona esemplificazione della linea di condotta di questi movimenti può essere il quartiere La Plaine: una sorta di gestione socialdemocratica dello spazio pubblico, costruita sulla precarizzazione del lavoro, fruibile a una certa tipologia di pubblico e che, nei confronti delle masse operaie e proletarie, mantiene meccanismi di esclusione e marginalizzazione del tutto in sintonia con quelli della società ufficiale.

Questo, in maniera molto sintetica, il frame entro cui si dipana l’attività del Collectif boxe. A un primo sguardo potrebbe sembrare che il Collectif sia qualcosa di “tardo operaista” oltre che l’eterna madeleine di qualcuno sempre alla ricerca del tempo perduto, ma le interviste che seguono smentiscono questa impressione. Ciò che emerge non ha nulla a che vedere con il “mondo di ieri” ma incarna il qui e ora delle determinazioni della classe, i suoi nervi tanto vivi quanto scoperti.
Il Collectif è frequentato da numerose donne, molte delle quali di origine araba, soprattutto algerine. Ciò ha fornito una buona occasione per affrontare la “questione di genere” nella sua più piena “materialità” e “concretezza”. Da tempo siamo sommersi da iniziative in “favore delle donne” o contro la violenza di genere, tanto che le dichiarazioni istituzionali in “favore e per le donne” conoscono una inflazione pari a quella seguita alla crisi del 1929, mentre le università un po’ in tutta Europa straboccano di corsi tenuti da “femministe radicali”. Tutto ciò farebbe presupporre che la “questione di genere” sia uno tra gli snodi essenziali delle agende politiche dei vari governi e, sotto tale aspetto, il governo francese sembrerebbe addirittura primeggiare. Questo, sicuramente, contiene più che un grano di verità anche se a uno sguardo minimamente attento non sfugge il prosaico fatto che queste retoriche hanno un qualche senso tra i mondi socialmente inclusi, ma risultano sostanzialmente ignote tra le donne appartenenti alle masse subalterne e marginalizzate. Un discorso che, per molti versi, vale anche per la “questione razziale” per cui essere donna e di pelle scura obbliga a fare i conti con una realtà dura, difficile e poco propensa a fare sconti. Mi è sembrato pertanto sensato provare ad affrontare, vista la disponibilità dimostratami, questi argomenti con alcune donne del Collectif.

La prima a parlare è Y. N., una ragazza algerina con alle spalle già più di venti match, con ambizioni di titolo regionale e possibile accesso ai campionati nazionali.

La prima cosa che vorrei chiederti è se e come tutto ciò che ha a che fare con il sessismo, la “questione di genere” ma anche, più in generale, con la sessualità e le sue forme, ha avuto un qualche ruolo nella storia e nelle pratiche del Collectif.
Forse, per prima cosa, occorre fare una premessa. In una attività sportiva e in questo caso il pugilato, soprattutto se praticata in forma agonistica, essere sportiva diventa la cosa fondamentale alla quale si aggiunge lo spirito di squadra per cui, ciò che conta, è essere il Collectif boxe: questa diventa la principale identità. Questo rende il contesto non immediatamente assimilabile al mondo che lo circonda. Inoltre, altro aspetto che non va trascurato, è che, nel Collectif boxe, il numero di donne pugili agoniste è molto numeroso per cui la legittimità del nostro ruolo non ha neanche troppo bisogno di essere posto in discussione. A me sembra che dentro il Collectif si sia raggiunta una sostanziale autonomia femminile la quale, questo probabilmente è l’aspetto che maggiormente ti interessa, non si limita al ring ma ha ricadute a più ampio raggio. Tutte noi viviamo dentro realtà sociali profondamente segnate dal sessismo, dal patriarcato il che, in non pochi casi, si traduce in violenza, sia fisica che psicologica. Dalla famiglia al lavoro passando per le relazioni amicali, sentimentali o semplicemente sessuali con queste cose hai continuamente a che fare. Molte di noi sono passate dentro questo tipo di esperienze. Alcune, forse le più, lo hanno vissuto in ambito lavorativo, molte in famiglia e non poche anche con il fidanzato o momentaneo compagno. La violenza fisica prevale nelle relazioni personali mentre in quelle pubbliche, come il lavoro, i gradi della violenza sono più sfumati. A tutto ciò, cosa non frequente ma neppure eccezionale, si aggiunge la violenza che puoi subire casualmente per strada o dentro un locale. Prima di ritrovarci dentro il Collectif boxe, e poter affrontare il problema collettivamente, ci pensavamo come vittime individuali mentre, attraverso la discussione, siamo giunte a una consapevolezza diversa e alla necessità di dover affrontare, rifiutando il ruolo di vittime, la questione in prima persona, senza delegare a nessuno questo compito. Solo la lotta autonoma delle donne può contrastare e ribaltare questa situazione.

Mi sembra che, su questo, vi differenziate di molto da gran parte dei movimenti femministi i quali, invece, tendono a vedere nello stato e nelle istituzioni dei validi interlocutori in termini di diritti e garanzie per le donne e, più in generale, contro ogni forma di discriminazione.
Sì, noi non abbiamo e neppure vogliamo avere nulla a che vedere con questo tipo di femminismo. L’oppressione di genere così come quella razziale e in gran parte quella di natura sessuale è frutto dello stato e del patriarcato che lo modella, non vi può essere lotta femminista se non vi è lotta contro lo stato. Il femminismo che si relaziona allo stato è il femminismo borghese ovvero quel femminismo che lascia intatte le coordinate del comando e del dominio perché vuole essere, a tutti gli effetti, parte attiva di questo dispositivo. Mi sai dire, secondo te, quanto cazzo le può fregare a una donna dei “quartieri Nord” di poter far carriera come dirigente in una multinazionale quando, nella migliore delle ipotesi, il suo orizzonte è quello di fare la barista saltuaria in un qualche locale e doversi continuamente difendere dalle manate sul culo del proprietario e dei clienti? Non credo che ci sia bisogno di dare una risposta. Per questo solo l’autorganizzazione autonoma, a tutti i livelli, può farci ottenere dei risultati. Solo un adeguato esercizio della forza può darci una serie di garanzie. La cosa è molto pratica. C’era una nostra compagna continuamente umiliata e maltrattata dal suo fidanzato. Lei aveva provato a mollarlo ma questo non lo aveva accettato. Per lui, lei era una cosa sua. Bene, un gruppo di noi è intervenuto, è questo è sparito dalla circolazione. Oppure, tanto per farti un altro esempio, in una impresa di pulizie il capo aveva provato a violentare una ragazza. Grazie alla sua reazione non vi era riuscito e così l’ha fatta licenziare. Anche in questo caso un intervento adeguato ha rimesso a posto le cose. Al potere dello stato e dei padroni, occorre contrapporre un’altra forma di potere.

Ti riferisci, a quanto capisco, a ciò che possiamo definire “autodifesa”?
Sicuramente sì, però su questo occorre essere molto chiari, e noi lo siamo. L’autodifesa non può essere uno slogan, una cosa detta tanto per dire, bensì una pratica organizzata. Questa presuppone, per prima cosa, il raggiungimento di una piena autoconsapevolezza e sicurezza di sé. Questo vuol dire essere in grado di gestire una situazione senza andare in panico. Un processo che potrebbe sembrare puramente individuale ma, al contrario, è quanto di più collettivo possa esserci. La sicurezza di sé la si raggiunge sapendo di non essere sole e quando dico non essere sole lo affermo a conti fatti. Io so che a qualunque cosa io vada incontro, questa cosa sarà assunta collettivamente e io non sarò sola. Quindi, l’autodifesa, non è un generico solidarismo ma una pratica che un determinato gruppo porta avanti. Questo è il cuore della questione. Tutto il resto segue a ruota. Pratica di autodifesa significa, per prima cosa, non percepirsi come vittima. In questo modo diventa possibile, per quanto difficile possa essere, ribaltare la situazione. In seconda battuta vi è, chiaramente, l’essere in grado, quindi avere la capacità fisica e tecnica, di affrontare una situazione. Sappiamo benissimo, però, che in molti casi tutto questo non basta. Queste sono condizioni sicuramente necessarie ma non sempre sufficienti. É a questo punto che interviene la dimensione collettiva in quanto esercizio effettivo di contro potere. E qua, per forza di cose, dobbiamo spostare il discorso sulla violenza e la sua organizzazione. Di ciò è meglio che ne parli con lei (indica la ragazza che stava seguendo l’intervista) che è la nostra comandante militare, se così la vogliamo definire.

L’intervista si sposta così su M. S., un’altra pugile del Collectif. L’intervista si mostra non solo interessante ma particolarmente densa poiché, oltre alla “questione di genere”, focalizza l’attenzione su razzismo e omofobia. A partire da ciò l’intervista apre su un insieme di questioni e scenari propri di tutto il movimento dei subalterni.

Hai ascoltato ciò che ci siamo detti. Potresti, a questo punto, spiegare meglio quanto, a grandi linee, ha detto Y. N. ?
Faccio una premessa. Oggi noi abbiamo una rete organizzata di auto difesa alla quale siamo giunte col tempo, dopo aver messo a confronto le nostre storie per scoprire così che quanto accaduto o stava accadendo a molte di noi non era una questione individuale ma, con sfaccettature diverse, le violenze subite erano il frutto di un sistema e di un modello politico e sociale dove l’oppressione di genere e il razzismo, i due aspetti vanno di pari passo, non sono una anomalia ma le basi stesse del sistema. É sulle donne, e per capirci meglio, le donne proletarie che si esercita la maggiore violenza. Se poi una donna non è bianca la violenza si moltiplica in maniera esponenziale. A ciò va aggiunta la violenza esercitata contro coloro che non rientrano nei canoni della eterosessualità. Dentro il Collectif abbiamo affrontato le varie facce di queste questioni e lo abbiamo fatto sia elaborando degli strumenti di analisi, sia organizzandoci per difenderci da tutto ciò. Sul piano dell’analisi siamo andate a riscoprire il marxismo e quindi la centralità che il modo di produzione riveste. Questo, sin da subito, ci ha differenziato molto dalle varie realtà femministe, ma anche anti razziste o legate al mondo LGTB. Ci ha fatto, cioè, ricondurre il tutto alla questione della classe e al ruolo che genere e razza hanno oggi nel definire la classe. Ciò ci ha portato a leggere il colonialismo nella contemporaneità e a vedere come questo oggi sia il modello dominante anche dentro le metropoli imperialiste. Questo significa che le forme proprie del colonialismo sono il modello oppressivo esercitato nei confronti delle masse proletarie e proletarizzate. Sessismo, patriarcato, omofobia, razzismo sono il mosaico che compongono lo stato e governano i suoi apparati. Da qui nasce l’esigenza di organizzare e praticare l’autodifesa.

Questo, concretamente, cosa significa?
Significa che per noi assumere la questione della forza è un tema centrale che non può essere eluso. Qua, soprattutto perché tu sei italiano e potresti travisare le cose, occorre essere chiari. Quando noi parliamo di forza e autodifesa, non stiamo proponendo una versione 3.0 della lotta armata. Non siamo interessate a una organizzazione che fa la guerra ma a delle pratiche organizzate che stanno dentro la guerra che ogni giorno, del tutto indifese, siamo comunque costrette a combattere anche se sarebbe meglio dire a subire. Ciò che dobbiamo diffondere è la capacità di lotta dentro tutte le situazioni che hanno a che fare con la vita concreta delle masse. Mao diceva che bisogna occuparsi dei problemi del riso e del sale, ed è esattamente questo che intendiamo come pratica di autodifesa. Dobbiamo costruire pratiche assolutamente riproducibili e che qualunque subalterno possa fare sua. In quanto gruppo di donne, di cui un certo numero lesbiche, abbiamo concentrato la nostra attenzione su persone e obiettivi che avevano avuto pratiche violente di natura sessista e omofoba nei confronti di qualche sorella ma anche in difesa di altre esterne al gruppo che avevamo saputo essere oggetto di una qualche forma di violenza. I posti di lavoro sono quelli dove la violenza, di varia natura, si manifesta costantemente. Sui posti di lavoro la violenza ha un carattere sia sessista che razzista e quindi non si focalizza unicamente sul genere. Questi sono luoghi dove più alto è il livello di discriminazione e sfruttamento oltre che essere posti dove il lavoro in nero è quanto mai diffuso. Sanzionare strutture e personale di queste situazioni rientra nelle nostre pratiche. Infine, e certamente non per ultimo, rimane il discorso legato ai comportamenti dei flics. Del razzismo e del sessismo tra questi mi sembra anche superfluo parlare. Ma i commissariati non vivono sempre notti tranquille…

Vorrei chiudere chiedendoti se, questa pratica, è pensata solo ed esclusivamente come pratica di donne oppure no.
Diciamo che, almeno all’inizio, siamo state molto rigide per cui eravamo solo ed esclusivamente donne. Questo era inevitabile perché, per prima cosa, dovevamo acquisire una consapevolezza che solo agendo in maniera separata potevamo conquistare. Non eravamo separatiste per principio ma dovevamo fare in modo che la nostra autonomia fosse tale a tutti gli effetti altrimenti avrebbe finito con il diventarne un surrogato. In seguito abbiamo allargato la nostra pratica anche ai maschi, anche perché alcuni terreni, come polizia e razzismo, non sono esplicitamente femminili. Diciamo che con i maschi abbiamo attuato un buon livello di cooperazione mantenendo tuttavia la nostra autonomia.

Secondo te questa chiamiamola “linea di condotta” può trasformarsi in pratica di massa o, almeno per tutta una fase, è destinata a essere una pratica di nicchia?
Io non credo che sia questo il modo giusto di porre la domanda. Questa domanda riflette, in qualche modo, una visione tardo comunista ossia che l’azione di avanguardia detta la linea alle masse. Come se, il discorso intorno alla violenza, fosse qualcosa che sta al di fuori delle masse. In realtà le masse vivono quotidianamente dentro relazioni violente, la violenza nei “quartieri Nord” fa parte delle normali relazioni sociali. Il problema, allora, diventa come indirizzare questa violenza. Ogni giorno, in città, vi sono centinaia di episodi che rimandano a ciò ma sono episodi che, per loro natura, rimangono fini a se stessi. Si tratta di trasformare tutto ciò in programma e organizzazione non certo di spiegare alle masse che cosa sia la violenza. La stessa cosa vale per l’illegalità. Questa è una città che vive di illegalità, questo è un dato di fatto, anche in questo caso, allora, non si tratta di spiegare alle masse che cosa sia l’illegalità ma di come sottrarre questa alle logiche del profitto a cui è legata e darle uno sbocco politico. Il che non può voler dire fare semplicemente delle attestazioni di principio ma risolvere, nella prassi, i problemi posti dalle masse. Con ciò, come vedi, torniamo a Mao e ai problemi del riso e del sale. I problemi del riso e del sale dentro una metropoli imperialista del XXI secolo.

(2continua)

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