di Sandro Moiso
Jósef Czapski, La terra inumana, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 459, 28,00 euro
E’ un libro estremamente partigiano quello di Jósef Czapski appena pubblicato con il numero 743 nella Biblioteca Adelphi. E non potrebbe essere altrimenti, visto il tema drammatico e inumano, appunto, che ne costituisce il contenuto e il fondamento. Un evento drammatico avvenuto in un territorio e in un contesto storico che ancora oggi segnano l’attualità, per mezzo di una guerra e di una tragedia che si svolgono entrambe lungo i suoi confini e, talvolta, negli stessi luoghi.
Jósef Marian Franciszek Hutten-Czapski (1896- 1993), polacco e fervente cattolico, è stato un artista, scrittore e critico. Ma è stato anche ufficiale dell’esercito polacco proprio nel momento dell’invasione della Polonia nel 1939, sia da parte dell’esercito tedesco (1° settembre) che dell’esercito sovietico (17 settembre dello stesso anno), poco meno di un mese dopo la firma del trattato di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, meglio noto come Patto Molotov-Ribbentrop, avvenuta il 23 agosto di quell’anno, che in un «protocollo segreto» aveva stabilito la spartizione della Polonia .
I fatti narrati nel libro iniziano al momento della liberazione di Czapski, all’inizio del settembre 1941, dal campo di prigionia di Grjazovec, dove era stato internato come prigioniero di guerra dei russi dopo esser passato per quello di Starobel’sk nell’autunno del 1939. La novità era costituita dal fatto che, dopo l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, il 14 agosto era stato firmato un accordo tra Stalin e Sikorski1 per la costituzione, sul territorio dell’URSS, di un’armata polacca composta da soldati in precedenza fatti prigionieri dai sovietici e deportati.
E’ proprio nel corso del servizio prestato in tal senso che l’autore delle memorie pubblicate da Adelphi giunge a conoscenza del massacro, perpetrato ai danni degli ufficiali dell’esercito polacco, a Katyn sullo stesso suolo della Polonia ad opera della Ceka e dei reparti dell’Armata rossa. Sono gli ufficiali che nel conteggio, in previsione della ricostituita armata polacco, mancano. Esclusi “ragionevolmente” (ma può essere ragionevole un conteggio del genere?) coloro che potevano essere morti di stenti durante la prigionia o per le ferite riportate in battaglia e malamente curate nei campi di detenzione sovietici, gli assenti risultavano infatti essere ancora troppi.
Come scriverà lo stesso Czapski in un articolo comparso in Francia nel 1948:
Ecco i fatti e le date che hanno fatto da sfondo al crimine: dal momento in cui invasero il territorio polacco nel diciottesimo giorno della nostra lotta contro l’aggressore nazista2, le truppe sovietiche fecero prigionieri circa duecentomila soldati, successivamente smistati in centinaia di campi sparsi su tutto il territorio sovietico.
Quasi tutti gli ufficiali e qualche migliaio di soldati catturati armi in pugno nel settembre del 1939 passarono, fra l’ottobre del 1939 e il maggio del 1940, da tre campi ricavati da monasteri abbandonati, a Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaškov.
Il 5 aprile del 1940, nelle tre località suddette si trovavano 15.000, fra cui 8700 ufficiali. Di questi, solo 448 fra ufficiali e soldati sono sopravvissuti. Dopo l’evacuazione dei campi erano stati trasferiti a Grjazovec e nelle prigioni di Mosca, da dove furono successivamente rilasciati dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica e la stipula dell’accordo tra Stalin e Sikorski.
Il resto, un numero compreso fra i 14.500 e i 15.000 uomini, è scomparso.
[…] Le notizie già rare che costoro riuscivano a inviare in patria alle famiglie avevano smesso del tutto di arrivare verso la fine di marzo del 1940. Da allora nessuno dei prigionieri dispersi aveva più dato segni di vita.
Dopo che, nel 1941, furono ripristinati i rapporti diplomatici russo-polacchi, le nostre autorità intrapresero numerosi tentativi volti almeno a rintracciare i dispersi. In quanto ex prigioniero di Starobel’sk dall’ottobre del 1939, liberato poi dal campo d’internamento di Grjazovec nell’estate del 1941, nell’ottobre di quell’anno fui posto a capo dell’Ufficio ricerche scomparsi3.
A complicare le cose, dopo che Czapski aveva dovuto abbandonare le ricerche perché trasferito ad altro incarico e sede nel 1942, fu il fatto che a rivelare la scoperta delle fosse di Katyn’, in cui i cadaveri degli scomparsi erano stati sepolti e nascosti, fossero proprio gli “avversari” tedeschi che nell’aprile del 1943, via radio, annunciarono al mondo la macabra scoperta. Come sottolinea, ancora nello stesso articolo, l’autore:
Così la propaganda tedesca fu la prima a dare informazioni sull’eccidio di Katyn’. La notizia trasmessa da Goebbels4 mi raggiunse direttamente via radio in Iraq, dove mi trovavo insieme all’armata polacca che si preparava all’offensiva sul territorio italiano. La notizia non era che la conferma di ciò che a me era chiaro già da un anno, in seguito ai miei sforzi di ritrovare i compagni scomparsi5.
La diatriba sull’effettiva responsabilità del massacro andò avanti fino alla fine della guerra e ancora oltre, con tedeschi e sovietici che sembravano rimpallarsi la colpa del massacro, ma quello che più colpisce, ancora a distanza di decenni, è il fatto che le stesse nazioni che utilizzavano la ricostituita armata polacca fuori dai confini orientali d’Europa, dove avrebbe potuto costituire motivo di intralcio alle mire espansionistiche di Stalin, poi definite nelle conferenze di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) e di Jalta (4-11 febbraio 1945), invitassero i polacchi ad astenersi dal commentare il fatto, anche se il governo inglese «sapeva da tempo chi era responsabile dell’eccidio, perché sin da subito gli erano stati trasmessi tutti i documenti riguardanti la vicenda»6. Motivo per cui Czapski si vedeva costretto a ricordare come:
Seguendo le raccomandazioni della propaganda di guerra, tutta la stampa inglese, salvo rare eccezioni, troppo a lungo ha taciuto sulle fosse di Katyn’. Non si poteva certo imputare un simile crimine ai russi, allora considerati l’incarnazione della democrazia e della giustizia.[…] «Non risusciterete le vittime parlandone» avrebbe detto a uno dei nostri rappresentanti un eminente politico inglese. Pareva si dovesse stendere un velo sull’intera faccenda. La stampa inglese dava perfino motivo ai suoi lettori di trarre false conclusioni, presentando i polacchi come gente che metteva in giro notizie assurde7.
Come ha scritto recentemente, in un suo libro sulla guerra, Edgar Morin:
Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico8.
E di Katyn’, si potrebbe certamente aggiungere.
Senza contare che, al momento della chiusura della prima edizione del libro di Czapski, le vittime certe di Katyn’ parevano essere non meno di 4143. Di queste era stato possibile identificarne 2919, ovvero «l’ottanta per cento dei nomi che figuravano nella prima lista di 3845 ufficiali scomparsi che era stata presentata da Sikorski a Stalin e in quelle supplementari redatte in seguito»9. Di modo che l’autore, dopo aver rilevato che le salme erano soltanto quelle degli ufficiali scomparsi dal campo di Kozel’sk, era costretto ancora a domandarsi:
Se le vittime di Katyn’ sono i prigionieri di guerra di Kozel’sk, è inevitabile chiedersi che fine abbiano fatto i prigionieri dei campi di Starobel’sk e di Ostaškov. Nessuno di loro è stato ritrovato a Katyn’, ma nessuno di loro ha neppure mai dato alcun segno di vita. […] La sorte dei prigionieri di Starobel’sk e di Ostaškov è ancora ignota, e le fosse di Katyn’ non chiariscono il mistero della loro sparizione. Le autorità sovietiche non ce li hanno mai riconsegnati e non ci hanno mai fornito alcuna informazione sulla loro sorte10.
Forse non avrebbe mai potuto immaginare che le vittime totali di quel massacro, come appurato dalle indagini degli anni seguenti, ma già basate sulle analisi della commissione internazionale che aveva operato a Katyn’ in precedenza, ammontassero a 22mila. Solo alcuni decenni più tardi, infatti, furono scoperti a Kharkov e a Mednoe i luoghi dove erano stati uccisi e sepolti i prigionieri di Starobel’sk e Ostaškov, a cui dovevano essere aggiunti altri 7300 polacchi uccisi nelle prigioni ucraine e bielorusse11.
Dopo la decapitazione dell’esercito polacco e la distribuzione dei reparti della rinnovata armata su più fronti ad opera degli “alleati”, il successivo il fallimento dell’insurrezione del ghetto ebraico di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), cui le forze nazionaliste polacche non diedero il minimo sostegno militare12, e dell’insurrezione di Varsavia (1° agosto – 2 ottobre 1944), cui invece la presenza di un’armata polacca su quel fronte avrebbe potuto dare un consistente aiuto, ma che fu violentemente repressa dalle forze della Wermacht, senza che l’armata rossa, già schierata alle porte della città, intervenisse prima che la rivolta fosse definitivamente schiacciata13, la Polonia fu integrata, con confini diversi da quelli precedenti il conflitto, nell’Europa Orientale ristrutturata geopoliticamente secondo gli interessi di Mosca (e Washington).
Oltre a ciò, va qui segnalata una straordinaria similitudine tra il silenzio occidentale su Katyn e quello sulle notizie provenienti dai lager nazisti a proposito del trattamento riservato agli ebrei prigionieri14. La stessa ipocrisia regolò i rapporti tra le potenze, alleate e non, sia in un caso che nell’altro. Ipocrisia che su tutti i fronti anima e giustifica ancora l’attuale conflitto in Ucraina, da parte di tutti i contendenti attivi o mascherati che siano.
Un conflitto che, come il precedente, affonda le radici in territori in cui la Storia sanguinosa e sanguinaria degli ultimi quattro secoli ha visto piantare i semi di un odio profondo alimentato da conquiste territoriali, dispersione di imperi, compreso quello polacco precedente all’espansione dell’impero russo e di quello asburgico prima e prussiano poi, pogrom spietati e manovrati dal potere15 e dall’odio cattolico antisemita nella stessa Polonia e ancora in Ucraina16. Una terra impregnata di sangue e dolore, cui all’inizio del ‘900 contribuirono ancora gli alti e bassi della Rivoluzione bolscevica, la successiva guerra civile e la grande crisi agricola e alimentare degli anni ’30, al di qua e al di là degli attuali confini della Federazione Russa, della Polonia e dell’Ucraina. Una storia tragica, mai giunta a conclusione, che ben poco lascia sperare in una risoluzione “diplomatica” di un conflitto destinato ad estendersi ancora nel tempo e nello spazio.
Józef Czapski è stato uno dei testimoni più significativi di un momento drammatico di questa lunga storia, attraverso un’odissea che lo ha portato ad attraversare l’intera Unione Sovietica e gli eventi più estremi del secolo scorso. Un’odissea raccontata in presa diretta e in ogni – spesso sconvolgente – dettaglio: dall’esodo in condizioni disumane di militari e civili alle atroci testimonianze dei reduci dai campi, dall’incontro con il capo della Direzione centrale dei lager («padrone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone») ai contatti con le popolazioni. Esperienze che, per Czapski, diventano anche «una lenta, quotidiana iniziazione all’immensità della miseria umana».
Come afferma lo stesso autore nella prefazione: «Questo libro è stato scritto in condizioni molto diverse, con lunghe interruzioni, fra il 1942 e il 1947. […] Più andavo avanti nel racconto e più sentivo di non essere libero, di scrivere non ciò che volevo, ma ciò che dovevo.» Affermazione che lo avvicina in qualche modo a Primo Levi e alla sua necessità di ricordare non per se stessi, ma soprattutto per quelli che non ci sono più. Cosa che spinse il superstite dei lager italiano a scriver Se questo è un uomo, composto tra il 1945 e il 1947 e comparso per la prima volta, ancora rifiutato dai grandi editori, nel 1947, al termine di un conflitto che aveva fatto decine o forse centinaia di milioni di morti.
Su tutti i fronti, tra i civili e i militari di ogni nazione, sesso, gruppo sociale, politico, religioso o etnico. E di cui i governanti attuali sembrano essersi dimenticati quasi del tutto. Oppure ricordarlo per tornare a soffiare su braci che non si sono ancora mai spente del tutto, come nel caso del viaggio di Biden in Polonia diversi mesi or sono, oppure dei richiami di Putin alla “Grande guerra patriottica”. Mentre, come ci ricordano indirettamente le memorie di Czapski, la guerra non può essere altro che motivo di orrore, ancora orrore e nient’altro che orrore.