Lo studio del rapporto tra sfera del vivente e natura ci permette di comprendere il mondo interiore umano in relazione ad essa e alle informazioni in ambito ecologico. Si profila come una scienza descrittiva, non normativa: non ci dice cioè cosa dobbiamo fare (come l’economia classica), ma ci dà degli strumenti di decodifica che supportano l’azione consapevole.
L’ecopsicologia è una cornice interpretativa utile a districare nodi emotivi ed intellettivi, ad approcciare più agilmente i consumi, i ritmi di produzione e le produzioni stesse. Dal banale – ma cruciale e per tanti difficile – sostituire le abitudini alimentari al controprodurre soluzioni concrete e non “limitarci” a liberarci delle emozioni forti, accanendoci sui responsabili da (giustamente) additare.
Nel primo caso, quello delle scelte alimentari, possiamo per esempio ignorare il problema, con un evitamento più o meno conscio, o con una negazione inconsapevole, dissociandoci dalle emozioni che ci può provocare l’informazione. Nel secondo caso rischiamo di idealizzare noi stessə esageratamente o di svalutare l’altrə con una critica di responsabilità anche assoluta. Generalmente si può dire che questi meccanismi rallentano una realistica e costruttiva rielaborazione del caso, oltre a succhiarci energie, nonostante ci permettano di funzionare.
Si chiamano infatti meccanismi di difesa dell’ego e sono stati teorizzati da Anna Freud, figlia del famoso Sigmund. Sono processi spesso inconsci ma che agiscono anche a livello mentale, sono individuali ma si possono rafforzare in dinamiche collettive. Se li rendiamo consci e ne indeboliamo l’efficacia, lasciamo spazio ad un dialogo cognitivo e capace di coinvolgere tuttə lə attorə in gioco. Certo esistono per difenderci dal reale rischio di essere sopraffattə dalle emozioni ed è quindi consigliabile scioglierli in mutuo aiuto.
In alcuni workshop ispirati alle tecniche di Joanna Macy[1] si usa per esempio far incarnare le voci dei nostri personali meccanismi di difesa a delle figurine di personaggiə pubblichə a tuttə notə. Non è un lavoro difficile, ma metterlo sul piatto in maniera condivisa aiuta a superare alcuni dei principali ostacoli al cambiamento comportamentale, come le norme sociali. Cosa ne penseranno le persone a me care delle mie nuove scelte? Mi prenderanno in giro in un loop automatizzato di reazioni o mi accompagneranno in cerchi di parola non gerarchici?
È su questo principio che si basano le Carbon Conversations di Rosemary Randall, psicoterapeuta britannica ed autrice di articoli scientifici, e di Andy Brown, ingegnere. Il principio cioè di strategizzare insieme il cambiamento in gruppi di studio e supporto, dove poter anche elaborare le emozioni che questo cambiamento comporta. Le Carbon Conversations sono una serie di esercizi, giochi con carte interattive, consigli di facilitazione e compiti per casa in forma di quaderno. Accessibili a tuttə con un account su riseup.net. Divisi per aree tematiche: i consumi energetici a casa e al lavoro, i trasporti, il cibo e l’acqua, i rifiuti e altro ancora. Immaginate le riunioni di condominio facilitate in questo senso, per esempio. Che rivoluzione. Dal “One solution: revolution!” al “One solution? Revolutions!”.
Già Joanna Macy consigliava i gruppi di studio e mutuo aiuto, ma Ro (come piace farsi chiamare a Rosemary Randall) li ha strutturati con più precisione, affiancandovi informazioni tecniche e pratiche. Molti di questi materiali, con un po’ di abilità creative, sarebbero riadattabili alla gestione aziendale, al lavoro nelle amministrazioni comunali, a progetti dunque non solo bottom-up ma anche top-down di immaginazione civica.
Incrociando vari studi possiamo identificare 8 variabili che influenzano il nostro comportamento, proambientale come d’altro tipo. Una di queste sono chiaramente le condizioni esterne più o meno favorevoli o almeno neutrali: l’assetto politico, le opzioni di mercato, i fondi e gli spazi a disposizione. Un’altra sono le già menzionate norme sociali. Un’altra ancora la conoscenza delle relazioni causa-effetto del dato problema. A queste tre è più legata la percezione dell’impatto che possiamo avere con le nostre scelte[2]. Che si tratti di fare advocacy, lobby, scrivere policies, o portare tuttə in piazza a ripensare il sistema e sabotare le logiche di potere, piuttosto che fare la spesa, possiamo tenere conto di queste variabili in delle mappe mentali, analitiche di ciò che abbiamo o che invece serve trovare (alleatə, informazioni, istituzioni, modelli economici).
Integrata alla facilitazione, l’ecopsicologia offre schemi di lavoro da combinare in maniera intersezionale. Tratta anche tante altre tematiche, come la distinzione dei nostri tipi di rapporto con la natura (etico? estetico? fisico? politico?)[3] e come la reazione di corpo e cervello al contatto con ambienti ed elementi naturali. Un contatto che può essere diretto o meno, per esempio vedendo il mare o un fiore in tivù, o immaginandoseli. Può avere effetti positivi e rigeneranti, oppure può impanicarci se minaccia la nostra sopravvivenza, come l’incontro con un orso. Più siamo consapevoli delle nostre reazioni, più le possiamo gestire, ça va sans dire.
Di fronte alla crisi climatica e ad altre minacce esistenziali odierne possiamo prendere il the con la nostra tristezza o con la nostra indifferenza, vedere che facce hanno, possiamo ricordarci per che cosa lottiamo, prendendo una pausa per andare in natura a rigenerare la corteccia cerebrale, o possiamo semplicemente accettare il panico come sano feedback negativo al collasso, prenderlo sotto braccio e vedere dove ci porta la sua sublimazione.
A questo tipo di cure del corpo e dell’inconscio (mi torna in mente Tarkovskij con il suo Stalker) portano iniziative come quella del Good Grief Network o dei Climate cafés, tese a immaginare nuove zone di comfort. E anche se mi piace molto Torres quando canta “Good grief, baby, there’s no such thing”, elaborare i lutti, tra grida e squarci, un po’ si può e sono molto gratə a chi ci prova. Perché la gratitudine è un forte strumento di lotta al consumismo e perché non sarà chi ci opprime a cambiare il teatrino.
* Neré (all’anagrafe Silvia Pezzato) ha scritto una tesi di laurea magistrale su questi temi, alla Masaryk University, e nella parte più empirica della sua ricerca-azione partecipativa ha facilitato un piccolo gruppo di supporto per studentə con distress ambientale. La tesi è in lingua ceca, ma verrà prossimamente tradotta e riadattata in italiano. Per possibili collaborazioni scrivetelə a silvia.pez@live.it .
[1] Vedi articolo precedente sui gruppi di supporto per il distress ambientale.
[2] Le altre variabili sono le norme morali personali, i valori ed i convincimenti, la forza dell’abitudine e la conoscenza del problema, da non dare per scontata.
[3] Dal lavoro di Jan Krajhanzl, fondamentale ecopsicologo ceco, nonché in passato mio relatore.