Il 26 giugno si è tenuto a Sherwood Festival il dibattito “Lettere di resistenza, voci dal mondo per una prospettiva decoloniale” moderato da Stella Salis. Erano presenti Ana Enamorado della Red regional de familias migrantes e Lolita Chávez, leader indigena guatemalteca. È stato anche trasmesso un intervento video delle madri tunisine del Progetto Mem.Med.
Il dibattito è stato organizzato in collaborazione con Carovane migranti, un collettivo nato nel 2014 con l’obiettivo di creare reti tra persone che lottano per la libertà di movimento. Questo lavoro è partito dalla Val Susa, Mondeggi, Scampia e Lampedusa per arrivare in Messico e in Tunisia. Nel novembre 2018, Carovane migranti ha organizzato un incontro tra madri di migranti scomparsi provenienti da tredici paesi diversi. Il collettivo sta ora lavorando con un gruppo di avvocati per presentare una legge al parlamento europeo che garantisca alle famiglie di persone scomparse nel Mediterraneo supporto logistico, legale ed economico nella ricerca dei loro cari.
Lolita Chávez è una femminista comunitaria che ha partecipato a numerose campagne contro progetti estrattivisti che hanno visto coinvolte più di trenta imprese minerarie, quindici progetti per la produzione di energia idroelettrica e diverse imprese dell’industria del legname. Dal 2017, Lolita è in esilio a causa delle persecuzioni e le minacce di morte. Questi progetti sono infatti difesi da milizie come quella dei Kabiles, mercenari per i narcos e il grande capitale addestrati dalla CIA e il Mossad. Ana è honduregna ma vive in Messico cercando il figlio Oscar Enamorado e altri migranti scomparsi. La Red regional de familias migrantes di cui fa parte è un coordinamento di famiglie di migranti scomparsi, che chiedono appoggio legale, economico e politico per trovarli.
Il dibattito si è aperto con un rituale indigeno effettuato da Lolita in onore di Hugo Blanco (storico leader della sinistra radicale peruviana) e Mario Vergara (attivista per la ricerca dei migranti scomparsi), entrambi venuti a mancare di recente. Stella ha poi rivolto la prima domanda ad Ana, chiedendole come si esprima la violenza sulle frontiere in questa fase e quali siano gli interessi politici ed economici che la promuovono.
Ana Enamorado ha passato gli ultimi tredici anni alla ricerca del figlio scomparso e in questo lungo periodo ha conosciuto migliaia di storie terrorizzanti di persone che hanno dovuto lasciare la propria famiglia per fuggire dalla violenza, per arrivare negli Stati Uniti ma anche in altri paesi. “La violenza comincia nei paesi d’origine, in questo caso nel centro America. Molte donne soffrono per la violenza machista. Alcune hanno la forza e il coraggio di chiedere aiuto ma in genere non vengono ascoltate, esponendosi così a rischi ancora più grandi. Per questo sono costrette a cercare aiuto altrove. In passato erano gli uomini a migrare mentre le donne si occupavano dei bambini nel paese d’origine, ma in seguito sempre più donne hanno cominciato a emigrare lasciando i bimbi ai nonni o altri parenti. Ultimamente, è sempre più comune che migrino intere famiglie, con i bambini al seguito.
Abbiamo visto questo fenomeno nelle carovane migranti che partono dal centro America, soprattutto dall’Honduras. Qui un ‘narcogobierno’ ha preso il potere nel 2014 attraverso brogli elettorali. Da allora la violenza ha visto un’escalation che nessuno ha potuto fermare. Nel momento in cui le persone attraversano la frontiera tra il Guatemala e il Messico si scontrano con il muro dell’esercito e in molti casi vengono violentate, sequestrate o sfruttate sessualmente. Sia le donne che gli uomini vengono consegnati da ufficiali pubblici alla criminalità organizzata. Il numero dei desaparecidos in Messico aumenta in continuazione e nessuno si preoccupa di porre fine a questo fenomeno.
In un’ultima istanza, le politiche migratorie degli Stati Uniti sono responsabili del fatto che tante persone debbano affidarsi ai trafficanti di esseri umani, i ‘coyotes’, per tentare di oltrepassare le frontiere. E il Messico si piega al potere di Washington. In questo momento, la frontiera settentrionale del Messico è piena di persone migranti senza dimora, bloccate perché non possono attraversare il confine.”
Stella Salis ha poi domandato a Lolita Chávez come, a partire dal concetto di “corpo-territorio” che collega i corpi – in particolare quelli delle donne e indigeni – e la natura come sito di dominio e resistenza, sia possibile interpretare la violenza delle multinazionali.
Lolita ha esordito con un saluto rivoluzionario a tutti i movimenti femministi del mondo. “Noi femministe comunitarie non siamo criminali né terroriste. Ieri si sono tenute le elezioni nel cosiddetto Guatemala e vogliamo dire a tutti i militari che il nostro territorio è sacro e devono andarsene, i machisti non hanno alcun diritto su di noi. Noi femministe comunitarie difendiamo l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco con la stessa potenza con cui difendiamo quello spazio sacro che siamo noi. I nostri avi e Berta Cáceres ci hanno insegnato la sacralità del nostro territorio, se la nostra terra è ancora viva è perché abbiamo lottato per depatriarcalizzare e decolonizzare le nostre comunità. Per questo diciamo chiaramente che siamo antipatriarcali, antimperialiste, anticapitaliste, antirazziste e antifasciste. Non vogliamo partorire figli perché i militari se li portino via per fare la guerra, per questo siamo anche per l’aborto libero, sicuro e gratuito. Le multinazionali hanno le mani macchiate di sangue, non solo quelle yankee, ma anche quelle canadesi ed europee, tra cui Enel. Da più di dieci anni, Enel è giunta nei nostri territori facendo promesse di sviluppo ma vicino al sito di costruzione per la sua diga ci sono comunità senza luce. Privatizzano l’acqua, che è sacra, utilizzando la violenza, compresa la violenza sessuale. Quando ho denunciato queste cose in un’intervista mi hanno detto che mentivo. Mento io o mente Enel? Ora sono costretta a stare lontana dal mio paese, mi hanno accusato falsamente di terrorismo e appropriazione illecita. Ma l’acqua e la terra sono vita e vanno difese con la vita. Questo è il femminismo comunitario. Però attenzione, non difendiamo il nostro corpo e il nostro territorio solo come esseri umani ma anche per tutte le altre forme di vita, il buen vivir è per tutte e tutti”.
Stella Salis ha poi rivolto una seconda domanda ad Ana Enamorado, per sapere quali siano le rivendicazioni e le forme di organizzazione delle famiglie dei migranti scomparsi.
Ana ha risposto: “Quando ho cominciato a cercare mio figlio non c’erano leggi per la ricerca dei desaparecidos né organizzazioni che avessero le competenze necessarie. Per questo ho dovuto andare in Messico in prima persona, ho vissuto in prima persona questo dolore. Da allora, ho sempre condiviso le conoscenze acquisite nel processo con le altre famiglie. A partire dal 2015, furono promulgate una serie di leggi – in particolare la Ley de búsqueda – grazie alle lotte portate avanti da famiglie sia straniere sia messicane. È stato così creato il ‘meccanismo di appoggio all’estero’, che permette alle madri di sporgere denuncia per la scomparsa di un figlio dal proprio paese d’origine, senza dover andare in Messico. Di recente, sono anche stati emessi visti umanitari per permettere alle madri di cercare i propri figli sul posto. Quindi siamo passate dall’impotenza alla conoscenza dei nostri diritti e di come reclamarli. Purtroppo, però, questo non ha ancora cambiato le cose in profondità, perché l’inerzia e la violenza istituzionale delle autorità persistono. L’enorme mostro dell’impunità continua a vivere in Messico. Abbiamo prove del fatto che sono le autorità statali stesse ad aver commesso abusi – come detenzioni arbitrarie, consegna delle persone ai gruppi criminali o concussione. Per questo siamo scomode e quindi perseguitate. Tutte le famiglie devono imparare a difendersi, di modo che se uccidono una persona le altre possano continuare a lottare. I nostri figli scompaiono e restiamo in attesa di una loro telefonata, speriamo che quando arriveranno alla destinazione finale riusciranno a comunicare con noi. Ma purtroppo forse non parleremo mai più con loro, alcuni possono essere in centri di detenzione per migranti, altri in prigione e altri senza vita nelle fosse comuni clandestine. Chiedo anche a voi di fare qualcosa, perché sono stufa di parlare in giro per il mondo senza che le cose cambino. C’è bisogno di un’azione efficace per trovare i nostri figli, perché li hanno presi vivi e li vogliamo vivi.”
Lolita Chávez ha poi osservato che le migrazioni non sono un “problema” dei popoli originari ma una questione che riguarda tutti. “Tutti abbiamo il diritto di muoverci e siamo nati come popoli in movimento, per questo vogliamo frontiere libere. Moltissimi italiani sono emigrati, per cui vi invito a ricordare la storia dei vostri avi e chiedo che non ci sia xenofobia nei territori italiani. La gente non emigra dai nostri paesi per diletto ma perché le vostre multinazionali hanno portato violenza e sfruttamento, insieme a narcos e sicari. È difficile vivere in Abya Yala, che è il vero nome del continente americano, per noi che siamo guaritrici e protettrici delle montagne. I nostri territori sono in guerra e i nostri corpi sono il bottino. Ci vedono come “indiane” brute e selvagge ma noi generiamo un potere femminista indipendente e dal basso, facendo pressione nelle assemblee per denunciare i femminicidi. Abbiamo dovuto fondare il femminismo comunitario clandestinamente, perché quando pratichiamo la nostra spiritualità e i nostri modelli di guarigione la chiesa fondamentalista ci accusa di stregoneria. Il nostro femminismo non si allea con il femminismo bianco, privilegiato, razzista e accademico. Noi che difendiamo la terra e le montagne non ci uniamo alle femministe che appoggiano le multinazionali”.
Infine, le madri tunisine del Progetto Mem.Med hanno sottolineato come la scomparsa dei figli nel Mediterraneo sia una grande catastrofe e un enorme dolore per tutte le famiglie colpite. “Lo stato tunisino non ci ha dato alcun sostegno. Abbiamo conosciuto l’attivista Silvia Di Meo su Facebook e abbiamo trovato così un grande aiuto. C’è stato un importante lavoro con le associazioni italiane per recuperare i corpi dei deceduti e seppellirli in Tunisia. Mio figlio è annegato nel dicembre 2019, la sua malattia lo aveva portato a imbarcarsi. Perché gli europei possono venire in Tunisia senza visto ma noi dobbiamo averlo per andare in Italia? Ci sono migliaia di giovani il cui cimitero è il mare. Se potessimo viaggiare come tutti gli europei non ci sarebbe questo massacro. I giovani tunisini vogliono migliorare la propria vita, ma la necessità di un visto trasforma questo sogno in un incubo. La crisi che viviamo oggi in Tunisia è ciò che li spinge a compiere questo viaggio mortale. Per tutto ciò, continueremo a lottare per la verità e la libertà di movimento.”