A Jenin l’esercito israeliano ha perso?

Indossano passamontagna, occhiali da sole, una fascetta nera attorno alla fronte con i caratteri gialli sgargianti della Shahada: «Non vi è altro Dio all’infuori di Allah». Alcuni si sono legati con un giro di nastro isolante una canna di PVC alla cintura, sulla quale è inastata la bandiera della Jihad palestinese. I giubbotti militari con le tasche ricolme di caricatori e i guanti tattici danno loro un’aria da bruti, ma a uno sguardo più attento si notano le magliette a maniche corte e i pantaloni da ginnastica che si troverebbero in qualsiasi bancarella del mercato. Sono i combattenti del Battaglione Jenin che si sono confrontati con l’esercito israeliano appena qualche giorno fa. Stanno percorrendo le strade della città e del campo profughi per distribuire bambole, automobiline di plastica e altri giocattoli ai bambini che si affollano intorno a loro. Stanno festeggiando: «Gli israeliani hanno fallito. Non sono riusciti ad eliminarci».

Dopo tre giorni di battaglia nel campo profughi, l’esercito israeliano si è ritirato da Jenin. L’invasione della città palestinese ha avuto luogo dal 3 al 5 luglio e ha visto l’utilizzo di bombardamenti con droni, l’impiego di bulldozer per spianare strade e abitazioni e il dispiegamento di un numero tra i 1000 e i 2000 soldati di Tel Aviv. La violenza con la quale gli israeliani sono penetrati nel campo profughi aveva risollevato gli spettri dell’invasione del 2002, quando in circostanze simili la città era stata parzialmente rasa al suolo dopo una battaglia durata dieci giorni: vi erano state 50 vittime palestinesi e più di 20 morti israeliani.

Questa volta i dati ufficiali raccontano un’altra storia. I palestinesi uccisi durante l’operazione sarebbero 13, di cui almeno 4 minorenni; gli israeliani avrebbero sofferto un solo caduto, il sergente di prima classe David Yehudah Yitzhaq, che peraltro sarebbe stato colpito da fuoco amico. Le forze armate israeliane dichiarano che gli obiettivi dell’operazione sono stati ampiamente conseguiti. Infatti, durante le incursioni avvenute nei mesi precedenti a Jenin, le IDF avevano dovuto affrontare una preparazione militare non indifferente da parte dei palestinesi: alcuni soldati erano rimasti feriti, un blindato per il trasporto truppe era stato messo fuori combattimento e non si riusciva a penetrare nella città se non con il supporto aereo e ingenti gruppi di fanteria. Con l’invasione avvenuta tra lunedì e mercoledì le IDF sarebbero state in grado di arrestare diversi membri delle milizie palestinesi e di sequestrare armi ed esplosivi.

Com’era prevedibile, sono state documentate gravi violazioni da parte dell’esercito israeliano. Vi sono riprese che mostrano alcuni piccoli bombardamenti con droni indirizzati ai civili palestinesi. Inoltre l’equipe di Medici senza frontiere – impiegata nell’ospedale Ibn Sina di Jenin – ha denunciato di essere stata costretta a interrompere la propria attività per via dei gas lacrimogeni sparati dagli israeliani all’interno della struttura, dove sono stati registrati anche colpi di arma da fuoco. Malgrado questi crimini, il governo di Netanyahu tuona trionfante: «L’operazione è stata un successo.»

Ma alcune cose non tornano. Innanzitutto, non torna quello che sembra un ritiro precipitoso delle forze israeliane da Jenin. I palestinesi che rientravano nel campo dopo essere stati sfollati hanno documentato l’abbandono di materiale medico, come ad esempio numerose sacche di sangue. Non tornano i video dei soldati israeliani che si allontanano da Jenin trasportando a spalla quelle che sembrano delle salme rinchiuse nelle sacche per cadaveri. Infine non torna quale fosse realmente lo scopo dell’esercito israeliano: arrestare altrimenti uccidere il maggior numero di combattenti del Battaglione Jenin? Confiscare loro abbastanza materiale bellico da neutralizzarne l’attività per un periodo di tempo soddisfacente? Oppure semplicemente tastarne le capacità? 

Nel frattempo si sono tenuti quasi subito i funerali dei martiri della resistenza. Almeno otto di questi caduti sono stati sepolti fianco a fianco, dopo una cerimonia pubblica che si è trasformata in un immenso corteo che ha percorso le strade di Jenin. Mentre si intonavano slogan a squarciagola, i feretri dei martiri erano avvolti nei drappi neri della Jihad, in quelli verdi di Hamas, o nelle bandiere della Palestina. Questa occasione diventa fondamentale per osservare due dati politici: da una parte la pressoché completa assenza di donne all’interno di un corteo che dovrebbe celebrare una vittoria della resistenza; dall’altra la presenza di bandiere di tutti i partiti palestinesi: Jihad islamica, Hamas, al-Fath, Fronte popolare. Questo potrebbe suggerire forse non un’aperta collaborazione tra le varie anime della Palestina, bensì una certa tolleranza. La cosa è importante perché negli ultimi vent’anni non è mai corso buon sangue tra laici e religiosi palestinesi, dinamica che ha contribuito a indebolire la lotta contro il colonialismo di Israele. 

Resta quindi da chiedersi se nella battaglia di Jenin quella di Israele sia stata una vittoria o una sconfitta. È innegabile che la parziale distruzione del campo profughi, l’arresto di alcuni militanti e la confisca di materiale bellico non possono rappresentare un vantaggio strategico significativo per Israele, soprattutto a fronte delle risorse impiegate e della vivace reazione palestinese. Come accaduto altre volte in passato, quella che viene percepita come una sconfitta militare di Israele può diventare il mito per accrescere il supporto popolare a questa nuova resistenza armata. Tra le altre cose, è anche presumibile che aumenterà il numero di chi vuole entrare a far parte dei gruppi come il Battaglione Jenin.

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