Di Luca Marini
A Roma, come altrove, esiste un modo di dire molto efficace: “come la volti e come la giri (sempre sessantanove è)”.
E, in effetti, è innegabile che l’analisi dell’affaire Xylella – voltato e rigirato a piacimento – conduca sempre alle stesse conclusioni.
Tra queste può essere utile ricordare come l’impianto normativo attualmente in vigore finisca di fatto per:
i) promuovere esclusivamente la lotta alla diffusione del batterio Xylella mediante l’imposizione di rimedi talvolta peggiori del male (dai diserbanti agli insetticidi neurotossici all’espianto sistematico degli olivi);
ii) ostacolare la ricerca di altre possibili cause della fitopatia Co.Di.R.O. (dalla pratiche agricole intensive all’uso massiccio dei fitofarmaci);
iii) ridurre la biodiversità imponendo il reimpianto di mono-varietà geneticamente modificate in luogo degli olivi espiantati (ciò che fatalmente favorirà la diffusione di future fitopatie);
iv) standardizzare verso il basso la qualità dell’olio così prodotto (a detrimento delle tanto propagandate eccellenze alimentari italiane);
v) compromettere la sopravvivenza dei piccoli produttori mediante la sostituzione di pratiche e modelli agricoli tradizionali con metodi e sistemi agro-industriali (favorendo il processo di globalizzazione dei mercati);
vi) modificare permanentemente un paesaggio unico e irripetibile quale possibile preludio all’insediamento di infrastrutture simbolo di una controversa transizione ecologica ed energetica (dalle pale eoliche alla TAP).
Ma più di queste e altre considerazioni, dalla vicenda Xylella emerge chiara la fede incrollabile che molti professano – curiosamente – nei confronti della cosiddetta scienza ufficiale e delle evidenze scientifiche da essa fornite: evidenze che, come noto, considerano incurabili gli olivi infetti e li condannano all’espianto.
Questo fideismo scientista, che appare maggiormente ingiustificato proprio a chi applica il metodo scientifico con sistematicità e rigore (e senza conflitti d’interesse), costituisce l’elemento di maggiore affinità tra la vicenda Xylella e l’altra che, più di recente, ha segnato la vita non solo dei 4 milioni di pugliesi, ma anche dei restanti 55 milioni di italiani: il Covid.
E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, che le due “emergenze” hanno condotto – in nome del preteso primato della scienza sull’essere umano – all’introduzione di misure coercitive in grado di calpestare diritti e libertà fondamentali e di favorire la strumentale suddivisione dei cittadini tra obbedienti e ossequiosi delle regole, da una parte, e negazionisti-antiscientisti, dall’altra, trasformando la diversità di opinioni in uno scontro tra buoni e cattivi in cui non ha trovato spazio né la riflessione critica, né la ricerca effettiva di soluzioni scientifiche e tecniche alternative e diverse da quelle imposte dall’alto, né la salvaguardia di consolidati principi etico-giuridici.
In altri termini è difficile negare che la gestione della Xylella, anticipando metodi e sistemi resi palesi dalla gestione del Covid, abbia condotto, più che alla salvaguardia del patrimonio ambientale, paesaggistico ed economico pugliese, all’azzeramento di ogni forma di autonomia individuale quale preludio all’instaurazione e all’accettazione acritica di strumenti di controllo e di soggiogamento collettivo: strumenti da ascriversi alla deriva totalitaristica favorita soprattutto dal processo di globalizzazione della tecno-scienza.
Siffatta biopolitica va ovviamente stigmatizzata senza esitazioni in nome della salvaguardia della dignità e dei diritti fondamentali dell’essere umano. Con riferimento alla vicenda Xylella, un primo passo in questa direzione non può che essere costituito dall’avvio di una seria riflessione critica sul quadro normativo di riferimento, allo scopo di individuare soluzioni diverse da quelle di tipo emergenziale più o meno strumentalmente adottate finora: d’altra parte, se gli uomini sono riusciti a convivere con il Covid, è davvero possibile che gli olivi non possano convivere con la Xylella?