Luna Park senza zucchero filato

di Simona Castanotto e Franco Pezzini

Jean Ray, La giostra del maleficio,  ed. orig. 1964, trad. di Camilla Scarpa, prefazione di Max Baroni, pp. 278, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2023.

Ci sono un belga, un francese, un inglese e un tedesco. Non è l’inizio di una barzelletta, anzi, siamo dentro una storia da incubo, in compagnia dei personaggi di Croquemitaine, racconto folk-horror ispirato alle paurose leggende, diffuse in tutta Europa, che parlano di un orco mangiabambini, conosciuto in Francia con questo nome evocativo. Da subito la trama scivola nel surreale e la storia si identifica fra le più belle inserite in questa particolare antologia del maestro Ray, l’ultimo dei suoi lavori, dato alle stampe a pochi mesi dalla morte, nel 1964.

Il merito della pubblicazione italiana di questo giro di giostra (malefica) nel weird va ad Agenzia Alcatraz, che lo ha incluso di recente nella collana “Bizarre”. La raccolta contiene tutto ciò che può rendere felici gli amanti del fantastico europeo, e infatti spazia dall’horror gotico al grottesco, al nonsense, fino a racconti che giocano macabramente con le scienze matematiche e la quarta dimensione. Ma con il passo narrativo di Ray, sfuggente e straniato, sornione e onirico, rimarchevoli persino in un fantastico francofono (Thomas Owen, Gérard Prévot, Claude Seignolle…) che queste dimensioni ama sottolineare.

La Giostra del Maleficio, tradotto da Camilla Scarpa, riprende di proposito, tramite l’artwork di copertina firmato da Henri Lievens, il visionario design dell’edizione francese apparsa nella serie Bibliothèque Marabout-Fantastique, mantenendone l’impostazione grafica per omaggiare tale collana storica della letteratura fantastica.

Certo, chi conosca Ray per romanzi-capisaldi quali Malpertuis o La cité de l’indicible peur (entrambi riproposti nel bel catalogo Alcatraz, cfr. qui e qui) può restare stupito della varietà di forme scelte dall’autore per i testi qui antologizzati. A parte i racconti di taglio più o meno “classico”, troviamo da un lato fulminanti microfiabe nere funzionali all’apparizione su riviste dagli spazi limitati, a far pensare a sintesi di puntate di The Twilight Zone o schegge da provocazione surrealista; e dall’altro testi più ampi, con il caso-limite di Il formidabile segreto del Polo, un intero romanzo breve (o piuttosto un trattamento-base per un romanzo, che in effetti verrà poi ampliato e modificato da Michel Jansen), scritto per il settimanale “Presto-films” (1936). Oltretutto di argomento fantascientifico, relativamente anomalo rispetto al resto della raccolta (ma non dimentichiamo i racconti con provocazioni fisico-matematiche, a evocare una fanta/scienza per nulla ovvia…): eppure non dobbiamo stupirci. A livello tematico, in scena ne La giostra è la lussureggiante eredità del feuilleton, storicamente aperto a un intero ventaglio di generi, dal poliziesco all’horror, dal grottesco allo “strano” e alla fantascienza: e Ray sa ben capitalizzarne il lascito, come quello dell’opera di autori eclettici quali J.-H. Rosny aîné – lui pure frequentatore di diversi linguaggi di genere. D’altra parte, sul piano della forma lo scopo prioritario di Ray resta in effetti lo spaesamento, con tutti gli strumenti utili.

I suoi riferimenti, oltre che al prodigioso bacino belga dei pittori visionari (Jean Delville, James Ensor, Fernand Khnopff, Armand Rassenfosse, Félicien Rops…) e alle sirene ebbre del simbolismo, a un po’ dello straordinario lascito del fantastico e del nero francese dell’Ottocento (Villiers de L’Isle-Adam, Léon Bloy,…) e ai suoi strascichi anche più paradossali (come nei copioni del Grand Guignol da cui sembra sorgano le continue teste mozze di questa raccolta), alle stesse sciarade del surrealismo, sanno guardare ben oltre i confini nazionali. Persino a livello di sfondi, i racconti non si esauriscono tutti tra personaggi francofoni, esattamente come La cité de l’indicible peur presenta una godibilissima – ancorché onirica e surreale – ambientazione inglese che rimanda ai relativi narratori.

Ray, durante la sua vita, ha scritto sotto innumerevoli pseudonimi, dimostrando una fecondità fuori dal comune; ciò che lascia sbalorditi è la capacità della scrittura di cambiare e plasmarsi sul racconto, tanto da chiedersi se i nomi di piuma non corrispondano a personalità narrative multiple. È una prosa che palpita, la sua, che sostiene e si fonde col testo quasi a plasmare questi racconti quali maschere di cera. Come in fondo quelle dei ghigliottinati che lasciarono al fantastico francese – già lo speculava Sade a proposito del gotico – un macabro peculiare.

Molto diversa, in effetti, è la costruzione dei testi: in particolare tra il citato, serioso Formidabile segreto del polo e quasi tutti gli altri, più inclini al grottesco, nonché per il lettore forse più intriganti proprio perché volutamente incontenibili dagli strumenti linguistici. Ci si riferisce, nello specifico, a una punteggiatura che non argina, nella quale i segni grafici s’accavallano, prendono il sopravvento o giocano a nascondino, e solo talvolta conducono a un tradizionale assetto narrativo. Più spesso, anzi, ci si vede costretti a tornare indietro, per assicurarsi di non avere “saltato” qualcosa, e poi arrendersi al fatto che per leggere Ray ci si debba abbandonare all’emozione pura senza opporre resistenza.

Quali sono, dunque, le bussole per tentare di restare a galla nella sua fantasia sbrigliata? Ferma restando la necessità fondamentale di lasciarsi spaesare come lui desidera…

La risposta è anzitutto in alcuni temi ricorrenti: l’onnipresenza del cibo – la carne in particolare – come marcatore di una varietà di orrori e spiacevolezze morali; i bambini come testimoni e vittime; la testa, intesa proprio come parte del corpo umano capace persino di diventare un personaggio a sé (e torniamo al discorso dell’eredità immaginale della Rivoluzione: basti pensare che, su circa trecento pagine, la parola testa ricorre più di sessanta volte); le provocazioni matematiche e fisiche, legate anche al tipo di riviste di destinazione… D’altra parte La suite del ragno finisce col rimandare a un altro caposaldo dell’orrore europeo, il celebre e conturbante Il ragno di Hanns Heinz Ewers. Se poi Malpertuis vedeva divinità in disarmo, come interpretiamo le (terribili) figure eponime di Tre vecchiette su una panchina? Non saranno le Parche?

Tutto questo è poi inserito, come suggerisce il titolo, in una sorta di baraccone espressionista dove lo spaesamento è recato anzitutto da un grottesco straniante, malefico di diavoli, streghe, paradossi di fisica & metafisica. Una sorta di lascito finale o di congedo di un autore a cui una vita non bastava e che a colpi di autofiction l’aveva allargata, amplificata, resa fantastica.

Ma il vero filo conduttore, come evidenzia nella bella prefazione Max Baroni, è il j’accuse senza sconti che Ray rivolge alla borghesia, meschina, debole, empia e perbenista, alla deriva tra scandali, delitti o invece mostruose piccole meschinità: qualcosa che neppure la morte fisica realmente argina.

Nell’incubo, nelle atmosfere distorte, gli uomini e le donne sono caratterizzati con pochissime pennellate, spogliati di ogni aggettivo superfluo. Descrizioni asciutte, che lasciano libere di brillare le definizioni accattivanti e mature, in cui ogni parola è scelta con accuratezza: rappresentazioni spoglie e al contempo pregne come gemme; come nell’amato Dickens, infatti, anche qui c’è la costante ricerca della parola più fertile.

I riferimenti e i richiami, quando si parla di Ray, si sprecano. In questa raccolta in particolare, si possono individuare alcuni racconti surreali di Gogol’ (Il naso), atmosfere luciferine familiari a Il maestro e Margherita di Bulgakov, e addirittura una strizzata d’occhio alla poetica del nonsense inglese alla Lewis Carroll – si pensi alla famosa The Walrus and the Carpenter – citato anche esplicitamente. Un linguaggio che, dalle nursery rhymes in avanti vede andare a braccetto di pari passo comico, inquietante e grottesco.

Impossibile non pensare anche alla tradizione orale raccolta dai fratelli Grimm, specialmente quando sono forti i richiami all’angosciosa fiaba di Hansel e Gretel, che racchiude molti dei temi cari all’autore: l’innocenza violata, la grettezza, la gola, la stregoneria, l’egoismo.

Come notato, rispetto ad altri lavori di Ray, La giostra del maleficio è meno improntato al terrore e più all’angoscia del grottesco. Il suo è un orrore fatto di sguardi, di ombre che distorcono le cose, di bisbigli e creature impressionanti per pratiche e dissolutezze.

Nel suo puntare il dito verso la società borghese in particolare, e la natura umana in generale, Ray non ci lascia nemmeno il refrigerio della speranza.

La sua opinione su una società-Orca traspare del resto dalla conclusione per nulla tranquillizzante del succitato Croquemitaine:

«[…] Croquemitaine non esiste più!». […]

«Croquemitaine non è affatto morto! Vive! È immortale! Croquemitaine non potrà mai morire, finché vivranno gli uomini!».

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